Diritto e Giustizia Di Alf Ross

October 2, 2017 | Author: Silvio Giovannini | Category: Natural Law, Legislation, Justice, Crime & Justice, Liberty
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Riassunto del libro diritto e giustizia di alf ross....

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DIRITTO E GIUSTIZIA di Alf Ross Le norme giuridiche sono un tipo di proposizioni, sono direttive (come tali non sono né vere né false), servono a guidare le persone a comportarsi in un certo modo desiderato. Invece le proposizioni della scienza giuridica sono asserzioni, del tipo: “la norma X è valida nell’ordinamento giuridico dell’Illinois”: X è diritto valido [Illinois] Dove X è una norma rivolta ai giudici Ma come si può affermare che X è diritto valido? Ross immagina due persone che giocano a scacchi e un osservatore esterno che vuol conoscere quali sono le regole del gioco. Attraverso l’osservazione del comportamento dei giocatori potrà rilevare una serie di regolarità. Vedrà certi pezzi mossi sempre in diagonale, altri in avanti o di lato e così via. Però per un’approfondita conoscenza del gioco è importante conoscere non solo le regole degli scacchi ma anche una certa parte della teoria del gioco e anche la conoscenza che di essa abbia ciascun giocatore. Infine è da tener presente anche lo scopo che guida il gioco dei singoli giocatori. Sarà sufficiente questa osservazione per conoscere quali sono le regole del gioco? No, perché di fronte a certe regolarità non potrà sapere se sono regole del gioco o suggerimenti della strategia. Occorrerà dunque indagare su quali regole sono “sentite da ciascun giocatore come socialmente vincolanti”. Dunque il concetto di validità (negli scacchi) implica due elementi. Uno si riferisce alla reale effettività della regola che può essere stabilita mediante l’osservazione esterna, l’altro si riferisce al modo in cui una regola è sentita come il motivo della propria azione, cioè come socialmente vincolante. Analogamente, per capire se una norma giuridica è valida occorrerà da un lato osservare il comportamento dei ‘giocatori’ del diritto, dall’altro indagare sulle loro motivazioni psicologiche,per comprendere ciò che ‘sentono’ come socialmente vincolante. Il concetto “diritto valido” (Illinois, California,Common Law,ecc.) può essere illustrato e definito in linea di principio allo stesso modo del concetto “valide norme degli scacchi” (per due giocatori determinati). “Diritto valido” indica l’insieme astratto di idee normative che servono come schema di interpretazione dei fenomeni giuridici in azione, il che poi implica che queste norme siano effettivamente seguite e seguite perché esse sono sperimentate e sentite come socialmente vincolanti”. Se il concetto di ‘diritto valido’ si comprende con un ragionamento analogo a quello con cui si comprende quali sono le regole degli scacchi, è chiaro che la necessità di una spiegazione metafisica è esclusa. Ross dichiara esplicitamente la sua adesione alla “moderna filosofia basata su un presupposto empiristico”.

Il concetto di “diritto valido”. Il diritto è distinto dalla morale e la jurisprudence dalla teoria etica: “Mentre posso classificare un certo ordinamento come ‘ordinamento giuridico’, è possibile che nello stesso tempo io consideri il rovesciarlo come il mio più altro dovere morale”. La questione della validità è distinta da quella della giustizia; ma, per Ross, è connessa a quella dell’effettività. Le norme giuridiche si distinguono in: -norme di condotta , che prescrivono un certo tipo di azioni; -norme di competenza, che attribuiscono poteri, creano una competenza. L’effettivo contenuto di una norma di condotta consiste in una direttiva per il giudice, mentre l’istruzione impartita al singolo individuo è una norma giuridica ricavata dall’altra in maniera derivata e per metafora. Dunque un sistema giuridico nazionale è un insieme di regole che determinano le condizioni alle quali la forza fisica sarà esercitata nei confronti di una persona; il sistema giuridico nazionale predispone un’organizzazione di pubbliche autorità, cui spetta di ordinare e di porre in essere l’esercizio della forza secondo i casi specifici. Quindi un sistema giuridico nazionale è l’insieme delle regole per l’organizzazione e il funzionamento dell’apparato coercitivo dello stato. Un sistema giuridico nazionale, considerato come un sistema valido di norme, può quindi essere definito come l’insieme delle norme effettivamente operanti nella mente del giudice poiché egli le sente socialmente vincolanti e perciò le osserva. Dunque l’accertamento della validità di una norma comporta una doppia operazione: osservare il comportamento delle corti e indagare su ciò che i giudici considerano come vincolante. L’approccio behavioristico, tipico del realismo giuridico statunitense, deve essere integrato da quello psicologico, tipico del realismo scandinavo. In questa ottica è chiaro che “l’asserzione che una norma è diritto valido è altamente relativa”, perché si tratta di prevedere eventi futuri, di prevedere se quella determinata norma potrà costituire lo schema interpretativo di una sentenza giudiziale. Un sistema giuridico nazionale è un insieme di regole concernenti l’esercizio della forza fisica. Una concezione largamente diffusa definisce la relazione tra diritto e forza in un altro modo: il diritto sarebbe composto di regole sostenute dalla forza, in particolare quelle norme derivate e metaforiche di condotta. Però questa interpretazione delle norme giuridiche non è accettabile, in primo luogo perché si escluderebbero tutte le norme di competenza, in quanto esse non sono sanzionate dalla forza; in secondo luogo si escluderebbero le norme vere e proprie, che hanno lo scopo di garanzia del diritto, cioè le norme secondarie che garantiscono le norme primarie di condotta. Dobbiamo perciò ribadire che il rapporto delle norme giuridiche con la forza sta nel fatto che le norme concernono l’applicazione della forza, e non che esse sono sanzionate dalla forza. Strettamente connesso a questo è il problema dei motivi che suggeriscono agli

uomini di comportarsi in modo conforme al diritto. I motivi umani possono essere divisi in due gruppi: da una lato, gli impulsi fondati sulla necessità, sugli interessi; dall’altro gli impulsi impressi nell’individuo dall’ambiente sociale, sentiti come imperativo categorico che obbliga l’individuo indipendentemente dai suoi interessi o anche in diretto contrasto con questi. Bisogna però anche ritenere che le norme giuridiche siano osservate volontariamente proprio come le norme degli scacchi. (Pag. 54-55-56). La differenza tra diritto e morale, secondo le concezioni idealistiche, può essere formulata così: mentre la norma morale ha origine nella ragion pura, la validità del diritto è legata a un contenuto materiale e temporale: il diritto positivo con il suo contenuto determinato storicamente. La morale è pura validità; il diritto è contemporaneamente fenomeno è validità, un misto di realtà e idea, o una espressione della validità della ragione nel mondo della realtà. Le fonti del diritto. L’originale teoria delle ‘fonti del diritto’ elaborata da Ross, relativa all’ “insieme dei fattori che influiscono sulla formulazione della norma che sta a fondamento della decisione del giudice, con la precisazione che questa influenza può variare: da quelle fonti che forniscono al giudice immediatamente una norma che egli non deve far altro che riconoscere valida, a quelle fonti che gli offrono soltanto idee ed ispirazioni, dalle quali egli stesso deve trarre la norma di cui ha bisogno”. Esse sono: -la legislazione: la fonte più importante del diritto continentale odierno consiste indubbiamente in una statuizione da parte delle pubbliche autorità. Il giudice infatti si sente fortemente vincolato dalle statuizioni legislative; e la dottrina ideologica ufficiale stabilisce che la legge promulgata ha una forza assolutamente vincolante. Tuttavia le corti, più o meno apertamente, disapplicano talvolta le norme legislative non conformi alla coscienza giuridica materiale predominante. Storicamente lo sviluppo della legislazione è un fenomeno singolare e ci volle lungo tempo perché le autorità produttrici di diritto legislativo ottenessero generale riconoscimento. La legge è diritto statuito, essa è creata mediante una risoluzione presa da certe persone e presuppone quindi norme di competenza che indichino le condizioni alle quali essa può essere esercitata. Una statuizione ha forza di legge se è fatta da un’autorità secondo la dovuta procedura e nell’ambito della sua competenza materiale. - il precedente: nei sistemi di Common Law il giudice è vincolato al precedente (‘stare decisis’); ma è lui a stabilire qual è il caso pertinente e qual è la ratio decidendi che deve essere applicata. - la consuetudine: tipo di comportamento generalmente seguito e sentito come vincolante, dove il comportamento contrario produce una reazione di disapprovazione da parte del gruppo e l’applicazione di una sanzione. Ciò può considerarsi il primo nucleo di una pubblica autorità, dal quale si sviluppa

gradualmente un potere giudiziario organizzato e stabile la cui funzione è quella di legiferare e di far valere le decisioni con la forza. A mano a mano che il diritto divenne sempre più rigido per opera della legislazione e della prassi delle corti, la consuetudine come fonte del diritto perse terreno. La consuetudine odierna ha un’importanza minima. Il motivo fondamentale per il quale il giudice dà rilievo alla consuetudine è costituito dall’elemento psicologico, il sentimento di obbligatorietà o validità, con cui il comportamento consuetudinario è eseguito. La ‘ragione’ o tradizione culturale: il giudice è influenzato dalla cultura prevalente nel suo contesto (‘coscienza giuridica materiale’) ma anche e soprattutto dalla sua formazione tecnica (‘coscienza giuridica formale). Egli considera la propria attività come un compito a servizio della comunità. L’essenza della norma è sentita come una deficienza, una lacuna nel diritto, che è compito del giudice riempire. Giudicando il caso concreto sottopostogli, il giudice darà una decisione tale da sentirla giusta e nello stesso tempo cercherà di giustificarla sottolineando quegli aspetti del caso che gli sembrano rilevanti. E così, ispirato dalle fondamentali concezioni della tradizione giuridica e culturale, formerà una norma giuridica generale. Attraverso una serie di decisioni concernenti circostanze simili il disegno si verrà gradualmente precisando e farà la sua comparsa un diritto del precedente creato dal giudice. Il metodo giudiziale (interpretazione). Quando il precedente non fornisce alcuna indicazione, ci si chiede se studiando la prassi delle corti, si possono mettere in luce certi principi, una certa ideologia, che di fatto guida le corti quando applicano le norme generali ai casi specifici. Dobbiamo quindi analizzare la prassi delle corti per cercare di scoprire i principi e le norme che effettivamente guidano le corti nel trarre da una norma generale la decisione del caso particolare; questa attività è detta metodo giudiziale, o nel caso di applicazione del diritto scritto, interpretazione. Non si possono tracciare regole fisse, il massimo che si può ottenere è ciò che si potrebbe chiamare uno stile di metodo o uno stile di interpretazione. I problemi di metodo assumono un aspetto diverso in un sistema in cui i precedenti costituiscono la fonte principale del diritto, rispetto a un sistema, la cui fonte principale sia la legislazione. Nel primo il sistema il giudice non ha di fronte a sé una formulazione fata da un’autorità di una norma giuridica generale; il problema del metodo qui sta nel trarre una norma generale dai precedenti esistenti e nell’applicarla al caso sottoposto. La situazione però risulta complessa perché la norma generale spesso muta nel corso di questi passaggi da un caso all’altro. Il lavoro che il giudice deve affrontare, non è tanto di applicare una norma generale al caso concreto, quanto di decidere se il caso sottopostogli differisca dal precedente in misura tale da giustificare una decisione diversa. Il ragionamento giuridico in un sistema come questo è un “ragionamento per esempi” e la tecnica dell’argomentazione richiesta da

questo metodo tende a mostrare le differenze e le somiglianze nei casi giuridici. Nel secondo sistema in cui il legislatore è la fonte principale del diritto, il metodo riveste il carattere di interpretazione di un testo proveniente da un’autorità. Qui l’attenzione si concentra sulla relazione tra una certa formulazione linguistica e uno specifico complesso di fatti. La tecnica dell’argomentazione richiesta da questo metodo tende a scoprire il significato della legge e a stabilire se certi fatti cadono o no sotto di essa. La teoria dell’interpretazione di Ross riconosce dunque un ruolo attivo del giudice. Di fronte ad una disposizione di legge – ma il discorso varrebbe anche per i precedenti giudiziali – il giudice si trova di fronte a: -problemi semantici: le parole non hanno un significato univoco; il significato di tutte le parole è vago e quello di alcune di esse è ambiguo; è necessario riferirsi al contesto ed alla situazione. Il tipo di attività che mira a delucidare il significato di un enunciato è detta interpretazione. Il principio fondamentale di ogni interpretazione è il principio secondo il quale la funzione primaria determinatrice di un significato è propria dell’enunciato considerato come una entità e delle connessioni in cui esso ricorre. Il punto di partenza per l’interpretazione è l’enunciato in quanto entità e in quanto raccolto da una persona che lo riceve in una certa situazione concreta. Da tale punto di partenza, l’interpretazione può procedere in parte vero un’analisi degli elementi che compongono un enunciato: le parole singole e la loro connessione sintattica, in parte verso un’analisi del contesto in cui ricorre l’enunciato medesimo e della situazione in cui esso è formulato. -problemi sintattici: il significato di un enunciato normativo dipende dall’ordine delle parole e dal modo in cui sono connesse. In “è vietato importare libri e giornali che contengano disegni osceni”,’che’ può riferirsi solo a ‘giornali’ (in questo caso sarebbe vietato importare tutti i libri + i giornali con disegni osceni), oppure a ‘libri e giornali’ -problemi logici: concernono le relazioni di un enunciato con altri nell’ambito di un contesto,come l’incompatibilità, la ridondanza e la presupposizione o come le antinomie. Esiste incompatibilità tra due norme giuridiche quando effetti giuridici incompatibili sono riferiti alla stessa fattispecie. Si ha ridondanza quando una norma prevede effetti giuridici che, per la stessa fattispecie, sono previsti anche da un’altra norma. Di fronte alle antinomie si dispone di criteri (lex specialis derogat generali, lex posterior derogat priori, lex superior derogat inferiori) che tuttavia non possono venire applicati meccanicamente: “sono principi di importanza relativa, cooperanti nell’interpretazione con altre considerazioni,in particolare con la valutazione del miglior modo di raggiungere l’armonia,rispetto al senso comune, alla coscienza giuridica popolare o a presunti obiettivi sociali”. Il criterio della lex posterior significa che di due leggi di ugual grado l’ultima prevale sulla precedente. Il criterio della lex superior significa che nel conflitto fra disposizioni legislative di diverso grado, la legge di più alto grado, indipendentemente dall’ordine cronologico, avrà prevalenza rispetto a quella di grado più basso: la costituzione prevale sulla legge, la legge

sul decreto ecc. Le modalità giuridiche. Ross passa poi ad indagare sul significato di vari concetti giuridici. Dovere: situazione in cui una persona può essere sottoposta ad una pena, o condannata all’adempimento specifico o alla rifusione dei danni. Se un certo comportamento non è proibito, esso è detto permesso, se un certo comportamento non è né proibito né prescritto esso è libero. Tanto la condotta permessa quanto quella libera, hanno in comune il fatto che non sono proibite. La differenza consiste in ciò che un atto permesso può essere comandato mentre un atto libero non può essere comandato. Che un atto è libero equivale a dire che esso cade fuori dalla sfera delle norme giuridiche, dunque esso è giuridicamente indifferente, né la sua esecuzione né la sua omissione danno luogo a reazioni giuridiche. La competenza è un caso speciale di potere, il potere esiste quando una persona è in grado di provocare certi effetti giuridici desiderati. Alcuni aspetti della storia del diritto naturale. In questo capito Ross decide di tracciare alcuni aspetti fondamentali del diritto naturale per comprendere meglio quello odierno. Per far ciò inizia delle primitive credenze popolari della Grecia intorno al 700 a.C. dove la dottrina del diritto aveva i tipici tratti magici, religiosi e metafisici. L’elemento fondamentale di tutte le manifestazioni di questa corrente di pensiero è la paura dell’esistenza e delle forze che dominano l’uomo, e il bisogno di trovare rifugio in qualcosa di assoluto, in qualcosa che trascenda ogni mutamento e possa offrire pace e sicurezza. Pace e sicurezza non soltanto di fronte alle forze cosmiche dell’esistenza, all’incertezza della vita, alle calamità e alla morte, ma anche come difesa contro le ansie e i dubbi del proprio spirito, la paura della responsabilità delle proprie azioni. L’assoluto ha quindi una natura cosmica e morale: è nello stesso tempo ordine dell’universo e legge morale. Nel proporre il realismo giuridico come una versione del giuspositivismo – distinta dall’’idealismo’ kelseniano – Ross propone un’indagine critica sulla vicenda storica del giusnaturalismo. La credenza nell’esistenza di una legge naturale ha origini mitiche e magiche, si radica in un’ atteggiamento tipicamente infantile. I sofisti tentarono di emancipare l’umanità da credenze di questo tipo – fu il primo tentativo di realismo giuridico – ma Platone ed Aristotele si impegnarono nella “ricostruzione di quanto i sofisti avevano cercato di demolire”. Quest’opera fu continuata dagli stoici e poi dagli scolastici medievali. Tommaso d’Aquino ebbe comunque il merito di proporre una visione flessibile e aperta del rapporto fra legge di natura e diritto civile, che lascia “ampio posto per una sorta di politica del diritto realistico-sociologica”. Per contro, il razionalismo astratto dei giusnaturalisti moderni, fino all’Illuminismo,

propone una rigida deduzione del diritto positivo dalla legge di natura. Ci si trova così di fronte ad una paradossale duplicazione: un sistema giuridico derivato dal diritto di natura, da un lato, l’ordinamento positivo, dall’altro. La vicenda della filosofia del diritto nell’Ottocento – dall’utilitarismo, alla Scuola storica, all’idealismo hegeliano, al positivismo – è vista da Ross sotto il segno del ‘giusnaturalismo travestito’. La comunità omerica (VIII sec a.C.) presentava il noto quadro di un popolo agricolo primitivo nel suo stato tribale. La popolazione era divisa in numerose piccole tribù, ciascuna sotto un proprio capo o re, ma il governo del re non abbracciava ogni cosa. La sua funzione sostanzialmente era limitata a fare il giudice nelle controversie e il condottiero in guerra. Inoltre la vita della tribù era rigidamente regolata dalla tradizione e dalla consuetudine incorporata nei tabù. Le concezioni giuridiche della tribù erano magiche e religiose, sugli uomini governavano gli dei, con Zeus a loro capo, essi stessi tuttavia sottoposti al potere del fato. Questa forza cosmica che assegna a ciascuna cosa il proprio giusto destino, dominava tanto la natura quanto gli uomini, ed era assistita da pene. L’idea di leggi causali in senso moderno non era ancora nata, la necessità che regge l’universo non è una necessità causale, ma una necessità del fato determinata dalla volontà sovrana, dalla colpa e dalla pena. Diritto e giustizia in questo sistema non hanno alcun carattere morale nel nostro senso. Il giudizio giusto è soltanto quello che assegna a ciascuno il giusto destino, conformemente alla volontà delle divinità del fato. Il re saggio e giusto è quello che riceve le rivelazioni divine da Zeus e ne fa la base del proprio giudizio. La giustizia in questo senso è condizione del benessere e della prosperità di un popolo; la ribellione contro l’ordine cosmico è punita dagli dei e dal fato. Zeus è custode della legge, sua figlia Dike siede al lato del padre e lo informa delle trasgressioni degli uomini, e l’onnipotente Zeus li punisce. Esiodo (VII sec ?) descrive gli aurei frutti che spettano al popolo il cui re osserva la legge degli dei, e le calamità che si riverseranno sul popolo se il suo re con arroganza è tratto a compiere violenza e ad andare contro la volontà degli dei; nei popoli primitivi infatti il potere dei capi ha origini magiche. E’ compito del capo, mediante il compimento di rituali magici, far cadere la pioggia, fruttificare la terra, moltiplicare gli animali. Se le magie non hanno effetto e se la tribù è funestata dalla mancanza di raccolto, dalla siccità o altre calamità, si pensa che il re abbia perso il suo potere, così viene messo a morte e sostituito con un nuovo migliore. Nell’opera di Omero e di Esiodo, tuttavia questo schema risulta più raffinato perché non è più facendo magie verso gli dei, ma obbedendo alla loro volontà rivelata, e realizzando la legge cosmica, che il re porta felicità al suo popolo. Dunque spogliato dalla veste metafisica, questo significa soltanto credere che sia compito del re pronunciare giudizi conformi alla moralità e al costume venerato, e che la felicità e la prosperità della tribù dipenda dal rispetto della tradizione e dell’ordine costituito. Le differenze tra Omero, il cantore di corte, ed Esiodo il contadino della Boezia sono: per il primo, Zeus era il protettore ed il difensore che regge un ordine armonioso; per

il secondo, che è colmo di collera e di amarezza di fronte alla scelleratezza dei tempi, Zeus è diventato il grande giustiziere che giudica il potente e l’ingiusto. Mentre Omero rappresenta il punto di vista della classe dominante, Esiodo riflette la sfiducia e la collera del contadino, che desidera soltanto di vivere in pace e vede l’impudente arroganza del potente impegnato nella lotta per la supremazia con il più completo disprezzo per l’ordine tradizionale delle cose. (continua su libro da pag 218 a 240). Analisi e critica della filosofia del diritto naturale. Il diritto naturale cerca l’assoluto, l’eterno, ciò che deve rendere il diritto qualcosa di più che una creazione dell’uomo e che esonera il legislatore dalle penose responsabilità della decisione. La fonte della validità trascendente del diritto è stata trovata o in una legge magica del fato o nella volontà di Dio o nel sapere assoluto della ragione. E’’ un comando della natura che tutti gli uomini debbano considerarsi fratelli oppure è legge di natura che il più forte debba dominare il più debole e che quindi la schiavitù e le distinzioni di classe rientrino nel piano divino del mondo? Entrambe le tesi sono state sostenute. L’ideologia dell’uguaglianza fu predicata dai sofisti nel V sc a.C. e da Rousseau nel XVIII sec, sempre come espressione delle aspirazioni politiche di un classe; e ancora dagli stoici e dai cristiani, seppure con uno sfondo religioso senza intenzioni politiche. Platone dall’altra parte, postulava la innata disuguaglianza degli uomini e difendeva la schiavitù e una comunità rigidamente divisa in classi. Aristotele lo seguiva nella giustificazione naturale della schiavitù, e da allora il postulato della naturale disuguaglianza degli uomini è stato il punto di partenza di numerose dottrine conservatrici del diritto naturale e di teorie organiche o totalitarie di governo. In campo politico è ben noto come il diritto naturale combinato con la dottrina del contratto politico sia stata felicemente usato per giustificare qualsiasi tipo di governo, dal potere assoluto (Hobbes) alla democrazia assoluta (Rousseau). Nel campo economico e sociale il diritto naturale del XIX sec. fu fautore di un individualismo ed un liberalismo estremi. La inviolabilità della proprietà privata e la illimitata libertà contrattuale furono i due dogmi che il XIX sec. ereditò dal diritto naturale. Dunque la filosofia del diritto naturale, secondo Ross, può essere criticata da diversi punti di vista: -da un punto di vista gnoseologico (della teoria della conoscenza) si può rilevare come ciò che è stato ritenuto diritto naturale sia variato storicamente in modo molto significativo: come una sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il fondamento ultimo di ogni diritto naturale risiede in una immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione? Non può la mia intuizione

essere buona quanto la vostra? La variabilità storica del diritto naturale conferma che i postulati metafisici sono soltanto costruzioni a sostegno di atteggiamenti primitivi e a soddisfacimento di certi bisogni. -da un punto di vista psicologico si vede che la credenza nella legge naturale si basa nella ricerca di sicurezze di fronte alla contingenza ed alla precarietà dell’esperienza umana, dalla paura delle vicissitudini della vita, della transitorietà di tutte le cose, della inesorabilità della morte; o per converso dall’aspirazione all’assoluto, all’eternamente immutabile che sconfigga la legge della corruzione di tutte le cose. Questa paura si accompagna nei problemi morali con la paura di dover fare delle scelte e di prendere delle decisioni in circostanze che mutano e sotto la propria responsabilità. Quindi cercando la giustificazione delle nostre azioni in principi immutabili al di fuori di noi stessi, noi cerchiamo di liberarci dal fardello della responsabilità. Se c’è una legge indipendente dalle nostre scelte e dal nostro piacere, che ci viene data come eterna verità basata sulla volontà di Dio o su una conoscenza a priori della ragione e ci detta il giusto modo di agire, allora noi, obbedendo a questa legge universale, siamo soltanto particelle obbedienti di un ordine cosmico e siamo sollevati da ogni responsabilità. -da un punto di vista politico, si riconosce che il giusnaturalismo può essere conservatore, riformista o rivoluzionario, ma nella storia il diritto naturale ha assolto fondamentalmente la funzione conservatrice di coprire con l’alone di un valore assoluto i rapporti di potere costituiti. Il diritto naturale è in primo luogo e soprattutto una ideologia creata da chi è al potere per legittimare e rafforzare la loro posizione di autorità. -dal punto di vista della teoria giuridica si rileva come il giusnaturalismo razionalistico duplica il sistema giuridico, concependo il diritto naturale come un insieme di diritti naturali sopra o dietro i diritti soggettivi positivi, peggiorando così le condizioni per l’analisi e lo studio del diritto. In realtà il diritto è solo un’unità artificiale costituita su una totalità di norme giuridiche. L’idea di giustizia. Nella filosofia del diritto naturale l’idea di giustizia ha sempre occupato un posto centrale. Il giusnaturalismo sostiene che nella nostra coscienza vive un’idea semplice ed evidente, l’idea di giustizia, che è il più alto principio giuridico in contrapposizione alla morale.La giustizia è l’idea specifica del diritto. Parallelo a questa idea corre,specialmente nella filosofia più antica,un altro modo di intendere la giustizia,secondo il quale essa è la suprema virtù onnicomprensiva,senza distinzioni fra diritto e moralità.La giustizia,in questa concezione è soltanto l’espressione dell’amore del bene e di Dio. In quanto principio del diritto,la giustizia delimita e armonizza i desideri in conflitto,le pretese e gli interessi nella vita sociale del popolo.Partendo dal concetto che tutti i problemi giuridici sono problemi di distribuzione,il postulato della giustizia comporta l’esigenza di uguaglianza nella distribuzione o nella

divisione dei vantaggi o dei carichi.Giustizia è uguaglianza. Se l’uguaglianza è intesa in senso assoluto,essa significa che ciascuno,indipendentemente dalle circostanze,deve avere esattamente la stessa posizione di tutti gli altri(a ciascuno la stessa cosa).Dovrebbe esse evidente,tutta via,che tale assoluta uniformità non può essere il significato ordinario di giustizia. Non si può considerare ingiusto, anzi si deve considerare consono all’esigenza di giustizia, che si facciano distinzioni in modo che i vantaggi ed i carichi, i diritti e i doveri vengano distribuiti tendo debitamente conto delle circostanze rilevanti. L’esigenza di eguaglianza vuole soltanto che nessuno, arbitrariamente o senza sufficienti ragioni, possa essere sottoposto ad un trattamento diverso da quello accordato a chiunque altro. L’esigenza di eguaglianza deve quindi essere intesa in senso relativo, cioè come esigenza che gli eguali siano trattati in modo eguale. Ciò implica che, anteriormente all’applicazione del criterio di eguaglianza e indipendentemente da questo, esista qualche criterio per determinare chi sia da considerare eguale. Ne esistono molti: -a ciascuno secondo il merito: questa formula viene spesso usata quando si allude alla giustizia in questo mondo o dopo la morte. Il criterio è dato dai meriti morali o dal valore di una persona e l’idea della giustizia richiede un rapporto proporzionale fra merito e destino. -a ciascuno secondo il lavoro: questa formula è spesso invocata nella teoria politica, per esempio dal socialismo marxista, per giustificare il periodo di transizione che precede la piena realizzazione del comunismo, come principio per il giusto salario o per la giusta ripartizione del prodotto. Il metro di misura è dato qui dal contributo portato da ciascuno all’economia sociale. Il rapporto è concepito come uno scambio di prestazioni fra la persona e la società. La stessa formula tuttavia è usata anche dai teorici che su una base individualistica concepiscono lavoro e salario come scambio di prestazioni tra privati. -a ciascuno secondo il bisogno: questa è la formula di giustizia che, secondo la teoria comunista, è alida per la comunità completamente socializzata. Qui ciascuno deve contribuire secondo la propria capacità e ricevere secondo il proprio bisogno. -a ciascuno secondo la capacità: questo principio di giustizia per la distribuzione dei carichi è la copia del principio del bisogno nella distribuzione dei vantaggi, la sua applicazione tipica si trova nelle imposte sul reddito. -a ciascuno secondo il rango e la condizione: il principio di giustizia aristocratica è stato spesso sostenuto per difendere le distinzioni fra le classi sociali. Va ricordato che il correlato logico del principio di eguaglianza è il principio di un trattamento disuguale di ciò che è disuguale, misurato secondo un criterio di valutazione precostituito. Il criterio di valutazione in questo caso è l’appartenenza ad una classe determinata dalla nascita, dalla razza, dal colore, dall’opinione, dalla lingua, dalla posizione sociale e così via. Formulazioni di questo tipo si trovano specialmente in quelle teorie organiche o totalitarie del

governo, da Platone ai giorni nostri, che sottolineano la naturale disuguaglianza degli uomini e la struttura organica o gerarchica della società in varie classi, ciascuna avente una propria particolare funzione nel tutto. L’esigenza formale di eguaglianza non impedisce una differenziazione tra persone che si trovano in circostanze diverse. Si richiede soltanto che la differenza venga giustificata mettendo le persone (alla luce di certi criteri rilevanti) in classi diverse. Il principio di eguaglianza in se stesso però non dice quali criteri sono rilevanti. L’ideale di uguaglianza in quanto tale significa soltanto la corretta applicazione di una norma generale. L’idea di giustizia, si dice, scaturisce dalla nostra coscienza interiore con una necessità imperativa a priori. Una delle più celebri formulazioni del massimo principio giuridico è quella di Kant: “ Un’azione è giusta se la libertà di compierla è compatibile con la libertà di tutti secondo la norma generale”. Si può esprimere lo stesso concetto in questo modo: la sola cosa che può giustificare una restrizione della libertà di agire è che la restrizione sia necessaria in vista della libertà di agire degli altri, se la stessa regola si abbia da applicare a tutti. Questa formula kantiana indica che l’esigenza di eguaglianza si identifica con l’esigenza di una norma generale. Una opinione largamente sostenuta afferma che giustizia significa l’eguale comparazione di tutti gli interessi coinvolti in una certa decisione. Nessuno ha sviluppato questa idea con maggior completezza come il filosofo Nelson. Prendendo le mosse dal generale sentimento giuridico e morale, afferma che la massima legge dell’azione che determina il dolere di un uomo,è caratterizzata così: 1. Essa è negativa cioè non ci comanda positivamente di perseguire certi scopi,ma pone limiti alla nostra libertà di perseguire gli scopi ai quali naturalmente tendiamo. 2. Questo limite restrittivo consiste nell’esigenza che perseguendo i nostri interessi,noi dobbiamo tener conto anche degli interessi degli altri. 3. Questa considerazione si esprime nell’esigenza che la persona che compie l’azione debba prendere egualmente tutti gli interessi coinvolti nella sua azione,indipendentemente dal fatto che gli interessi coinvolti siano suoi o degli altri. Il contenuto della legge di Nelson può essere scomposto analiticamente in due elementi,in primo luogo,egli ci chiede di realizzare un esperimento mentale,d’immaginare ciò che tutti gli interessi implicati da una azione siano interessi propri dell’operatore.In secondo luogo, dobbiamo indagare se,in base a questo assunto,l’operatore potrebbe approvare l’azione.Se questa condizione è soddisfatta,l’azione è giusta. L’idea di giustizia si riduce all’esigenza che una decisione sia il risultato dell’applicazione di una norma generale. La giustizia è la corretta applicazione di una legge, in contrapposto all’arbitrio.Affermare che una legge è ingiusta,non è altro,che l’espressione emotiva di una reazione sfavorevole

verso quella legge. L’affermazione che una legge è ingiusta, non contiene una reale caratteristica,nessun riferimento a qualche criterio,nessuna argomentazione. Ciò non vuol dire che no vi siano connessioni tra il diritto vigente e idea di giustizia. Ross distingue due punti: 1. l’esigenza che esista una legge come base di decisione; 2. l’esigenza che la decisone sia una corretta applicazione di una legge. Riguardo al primo punto, Ross si chiede che posto abbia l’idea di giustizia nella formazione del diritto positivo, nella misura in cui l’idea di giustizia sia intesa come esigenza di razionalità, come esigenza che tutte le norme siano formulate per mezzo di criteri oggettivi, in modo che la decisione concreta sia il più possibile indipendente dalle reazioni soggettive del giudice e perciò prevedibile. Nel diritto positivo l’idea di giustizia è interpretata da Ross come esigenza di razionalità, cioè come esigenza che esistano criteri oggettivi per formulare tutte le norme. Questo fa sì che le decisioni non siano dipendenti dalle reazioni soggettive del giudice. In questo modo, non dipendendo dalla soggettività del giudice, le decisioni divengono prevedibili. Questa razionalità è alla base di tutto l’ordinamento giuridico che presuppone appunto che le azioni umane siano prendibili. Allora, in questo senso, l’idea di giustizia come razionalità si può definire come costitutiva del concetto di diritto; il giudice non può essere come un re che, per esempio, nella rappresentazione di Omero, decide in funzione dei suggerimenti di Zeus. Il giudice non può neppure decidere come avviene in alcuni Stati totalitari, secondo ideologie. La norma giuridica formalizzata non è però in grado di esprimere tutte le circostanze rilevanti del caso. Riguardo al secondo punto, Ross si chiede quale posto abbia l’idea della giustizia nell’amministrazione stessa della giustizia. A giudizio di Ross, l’idea di giustizia occupa un posto importante in quanto la giustizia concepita come ideale per il giudice è un’idea potente nella vita sociale. Essa rappresenta una vera e propria aspettativa della collettività nei confronti del buon giudice e il giudice stesso l’accetta come massimo ideale professionale. L’idea di giustizia si riferisce a fatti osservabili, che una decisione è ingiusta significa che non è stata resa secondo il diritto, e che è basata su un errore (ingiustizia in senso oggettivo) oppure che è dovuta ad una consapevole deviazione dal diritto (ingiustizia in senso soggettivo). Fare ingiustizia soggettivamente significa che il giudice si lascia guidare dall’interesse personale, dall’amicia per una delle parti, dal desiderio di compiacere persone influenti, o per altri motivi che lo fanno allontanare dal comando del diritto. A questo punto risulta chiaro che un’esigenza generale secondo la quale tutti debbono essere trattati egualmente significa soltanto che il trattamento riservato ad ogni persona deve discendere da norme generali. In conclusione, se si dice che l’esigenza di eguaglianza non deve essere intesa n senso formale, ma che l’elemento decisivo è dato dal fatto che la restrizione abbia

luogo secondo caratteri distintivi ben fondati, ragionevoli, o giusti, questo significa che l’idea di eguaglianza svanisce, per essere sostituita dal riferimento a ciò che è considerato giusto secondo un’opinione soggettiva ed emotiva. Un principio del genere non è un vero principio, ma la rinuncia a qualsiasi tentativo di analisi razionale.

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