Il mondo d'oltremare

September 26, 2017 | Author: OmoOggun | Category: Sacrifice, Brazil, Thought, Africa, Religion And Belief
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di Roger Bastide - traduzione di Fernanda Reborati...

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INTRODUZIONE _____________________________________________________________5 CAPITOLO I - PRESENTAZIONE DEL CANDOMBLÈ ________________________9 I - Il sacrificio. ___________________________________________________________10 II - L’offerta. _____________________________________________________________10 III - Il “padè” di Eshù ___________________________________________________11 IV - Il richiamo musicale ________________________________________________11 V - Le danze preliminari _________________________________________________12 VI - La danza degli dei __________________________________________________13 VII - I riti di uscita e comunione _______________________________________14 1- Cerimonia del Lavaggio _______________________________________________15 2 – Il “bori”. _____________________________________________________________15 3° - L’iniziazione _________________________________________________________17 CAPITOLO II - LO SPAZIO E IL TEMPO SACRO___________________________31 CAPITOLO III - LA STRUTTURA DEL MONDO_____________________________52 I - I Babalao______________________________________________________________53 II - Il Babalosaim ________________________________________________________59 III - La Società degli Egun ______________________________________________64 IV - I Quattro Scompartimenti del Cosmo _____________________________69 Schema di Corrispondenze e Classificazioni ______________________________76 CAPITOLO IV - ESHU' ______________________________________________________79 CAPITOLO V - LA STRUTTURA DELL’ESTASI _____________________________94 Famiglia dei vodoun della terra:_________________________________________100 Famiglia dei vodoun del fulmine: ________________________________________100 Famiglia degli antenati dei re d’Abomey: ________________________________100 Dei giovani ________________________________________________________________101 Dei vecchi _________________________________________________________________102 CAPITOLO VI - L’UOMO RIFLESSO DEGLI DEI __________________________111 - I - ______________________________________________________________________111 - II - _____________________________________________________________________115 - III - ____________________________________________________________________118 CONCLUSIONE - METAFISICA E SOCIOLOGIA __________________________126 NOTA - _________________________________________________________________129 SAGGIO DI UNA EPISTEMOLOGIA AFRICANA (YORUBA) ____________131 EPISTEMOLOGIA AFRICANA E SOCIOLOGIA DELLA CONOSCENZA __137 GLOSSARIO _______________________________________________________________139

INTRODUZIONE Fintantoché I Negri Africani sono stati schiavi, l’uomo bianco si è interessato a loro unicamente come mano d’opera, come indispensabile strumento per un’economia basata sulle piantagioni. Alla fine del XIX secolo, tuttavia, il lavoro servile era stato abolito. Bisognava quindi integrare i negri nella comunità nazionale ma, prima di tutto, bisognava conoscerli. I primi studi sulle religioni africane sopravvissute datano dal 1896, in forma di articoli pubblicati sulla “Revista Brasilera”; erano il frutto del lavoro di un giovane medico di Bahia, Nina Rodriguez. Da allora e fino alla sua morte nel 1906, la Rodriguez si dedicò completamente all’analisi o descrizione di quanto rimaneva di dette religioni. Lei stessa pubblicò, in francese, L’animismo feticista dei negri di Bahia (1900); Homero Pires raccolse, dopo la sua morte, i suoi articoli dispersi nelle numerose pubblicazioni, sotto il titolo: Gli Africani del Brasile. Senza dubbio queste opere risentono dell’epoca in cui sono state scritte, e dei pregiudizi razziali che ne guastano le pagine migliori. Nina Rodriguez credeva nell’inferiorità dei negri e nella loro incapacità ad integrarsi nella civiltà occidentale. Come medico legale e psichiatra, nelle trans mistiche e nelle crisi di possessione che caratterizzano il culto pubblico degli Africani Brasiliani, non ha visto altro che manifestazioni d’isterismo. Infine, la sua stessa interpretazione etnografica della religione è fatta secondo i dettami della scienza dei suoi tempi. La fine del XIX secolo aveva visto radicarsi in Brasile il positivismo, dove, come si sa, giocherà un ruolo politico di primo piano. Da li viene il titolo del suo primo libro: l’animismo feticista. Malgrado tutte le inesattezze, le opere di Nina Rodriguez rimangono le migliori che siano state pubblicate, prima di tutto perché le sue fonti d’informazione provenivano dal Candomblè più tradizionale, il più puramente africano della sua epoca: quello di Gantois, e poi perché le sue descrizioni dei culti, delle gerarchie sacerdotali e delle rappresentazioni collettive del gruppo negro sono sempre fedeli e attendibili. Naturalmente sono libri incompleti ma, secondo quanto si dice, dei libri sicuri. Qualche tempo dopo, tra il 1916 e il 1922, un uomo di colore, Manuel Querino, scrisse lui pure, un certo numero di studi sui negri di Bahia. Il suo punto di vista era totalmente opposto a quello di Nina Rodriguez che, a quanto pare, lui non aveva l’aria di conoscere. Querino voleva soprattutto dimostrare l’importanza del contributo africano alla civiltà del Brasile ed esaltarne il valore. Forse a lui si può rimproverare una mancanza di cultura etnografica. Ma il suo colore gli permetteva di sapere ciò che era stato occultato a Nina Rodriguez, il suo amore per i suoi fratelli di razza gli permetteva, d’altro canto, di comprendere meglio certi aspetti di un culto dove i bianchi cercavano soprattutto il lato pittoresco ed esotico; per queste ragioni il contributo di Querino mi è sembrato tutt’altro che trascurabile. E’, in tutti i casi, superiore a quello del Padre Etienne Ignace Brezil nel suo lavoro su "Il feticismo dei Negri del Brasile” pubblicato, in un primo tempo, in francese nella rivista Anthropos del 1908 e poi in portoghese. Il Padre Brezil non aggiunge, in effetti, nulla di nuovo a quanto scritto da Nina Rodriguez poco tempo prima, salvo alcuni errori di grafia. Non sembra poi che egli abbia avuto dei contatti intimi con i fedeli del Candomblè, altrimenti non avrebbe trattato la religione di quei fedeli come una forma d’idolatria, poiché non è sufficiente descrivere dei rituali o citare i nomi delle divinità per fare dell’etnografia ma bisogna comprendere il significato dei miti e dei riti. Un errore di psicologia rischia di corrompere gravemente il valore dei fatti che si riportano ed è proprio questo che è successo con il lavoro del Padre Brezil. Per questa ragione l’opera di Arthur Ramos riveste grande importanza. Costui si può considerare il successore di Nina Rodriguez; a partire dal 1932, egli incomincerà a pubblicare una serie di articoli o dei libri sulle sopravvivenze africane in Brasile. Senza dubbio, stando al materiale raccolto, questi articoli e libri non portano poi così tanti elementi nuovi in rapporto a quanto già divulgato intorno al Candomblè di Bahia. Il merito di questi scritti risiede soprattutto nel suo metodo. Ramos è libero da ogni pregiudizio sia razziale che religioso, egli ha insegnato agli africani brasiliani l’oggettività scientifica. Certamente lui pure interpreta le sopravvivenze africane secondo le teorie della psicanalisi, ma separa radicalmente e accuratamente la descrizione dei fatti dall’interpretazione che lui ne da in seguito e separatamente. In questo modo egli è riuscito a risvegliare nei giovani l’interesse per la ricerca ed ha, per lo meno durante il periodo che va dal 1933 al 1940 circa, reso di moda gli studi

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sulle sopravvivenze africane nella civiltà brasiliana; egli ha segnalato la necessità di non separare quegli studi dalle scoperte fatte dagli etnografi, sia in Africa che in altre parti dell’America, e delle teorie generali sull’antropologia culturale nord americana. I suoi discepoli, fra i quali al primo posto metteremo Edison Carneiro, sono stati stimolati a continuare la ricerca sul territorio e a portare nuove informazioni che potessero completare l’immagine della vita degli addetti al Candomblè. Frattanto, nel 1942, Melville J. Herskovits, nel suo piano di inchieste generali su gli africani del nuovo mondo, giungeva in Brasile e si stabiliva a Bahia. Benché egli non avesse ancora pubblicato che una parte di materiale raccolto, quel suo viaggio fu, per i problemi di cui noi ci occupiamo, d’una importanza capitale. Egli infatti ripose la vita religiosa nell’insieme della vita sociale o della quotidianità dei negri brasiliani, e l’interpretò, a sua volta, secondo la sua teoria della "acculturazione" e di una concezione funzionale della "cultura". Il rinnovamento della concezione africanista che egli introdusse si può notare nelle opere di Octavio da Costa Eduardo, che studiò i Negri di Maranhao e in quelle del Dottor Renè Ribeiro che studiò gli Shangò di Recife. Non neghiamo l’interesse che rivestono tutti questi studi. La nostra principale tesi è consacrata al problema delle trasformazioni, delle interpretazioni e delle metamorfosi delle civiltà che vengono in contatto. Ma per quanto la natura delle "culture" africane abbia subito delle trasformazioni, resta pur sempre il fatto che il Candomblè costituisce un sistema armonioso e coerente di rappresentazioni collettive e di gesti rituali. Anche se la religione africana sussiste perché risponde a certe funzioni o bisogni, ciò non toglie che il Candomblè abbia una struttura e che questa struttura meriti uno studio paziente e speciale. Non ci preoccuperemo quindi più, in questo lavoro, di ricercare o no l’origine africana o non africana di questo o quell’aspetto della religione , il possibile sincretismo di questi aspetti con quelli della civiltà luso-brasiliana, rimandando il lettore alla nostra tesi principale. Studieremo il Candomblè in quanto realtà autonoma, senza riferimenti alla storia o al trasferimento delle culture da una parte all’altra del mondo. Non ci preoccuperemo più di inquadrare le nostre descrizioni in sistemi di concetti improntati all’etnografia tradizionale o all’antropologia culturale, non che le disprezziamo, ma perché ci sembra più importante aprire dei nuovi orizzonti che seguire sentieri già battuti. Nel 1944 abbiamo preso contatto con il mondo del Candomblè per la prima volta e, nel reportage compilato, abbiamo scritto: "La filosofia del Candomblè non è una filosofia barbara, ma è un pensiero sottile non ancora decifrato". (Imagens do Nordeste mistico, p.134) ed è proprio a questo "pensiero sottile" di cui vogliamo parlare qui. E’ sempre difficile disfarsi dei pregiudizi e degli etnocentrismi. Persino i Neri brasiliani che studiano le religioni africane del proprio paese accettano i punti di vista dei Bianchi e cioè la superiorità della civiltà occidentale. Con il pretesto che i fedeli di quelle religioni appartengono, in generale, agli strati più bassi della popolazione, domestici, lavandaie, proletari, si ha, incoscientemente, la tendenza a credere che il Candomblè non possa fornire o postulare una filosofia dell’universo e una concezione dell’uomo, differenti certamente dalle nostre ma altrettanto ricche e pure complesse. Studiosi come Renè Ribeiro in Brasile e Louis Mars ad Haiti hanno, senza dubbio, reso un gran servizio a coloro i quali denigrano i culti cosiddetti “popolari” specificando come questi siano utili all’equilibrio mentale e all’adattamento all’ambiente circostante. Tuttavia è ancora necessario dimostrare che questi culti non sono semplicemente materia di superstizione ma che, al contrario, sottintendono una cosmologia, una psicologia e un certo pensiero teologico. Diciamo che il pensiero africano è un pensiero sapiente. Nel 1944, all’epoca del nostro primo viaggio a Bahia, non conoscevamo affatto il lavoro di M. Marcel Griaule, solo all’indomani della guerra ne siamo venuti a conoscenza. Per noi sono stati un prezioso incoraggiamento perché hanno fortificato le nostre prime convinzioni. Purtroppo non abbiamo potuto andare molto più in la di quanto ha fatto lui negli studi di questo pensiero africano poiché il mondo del Candomblè è un mondo segreto nel quale non si entra che poco a poco e il tentativo che ne offriamo ai futuri ricercatori non è che un abbozzo più che una sintesi definitiva. Ce ne rendiamo perfettamente conto. Ma era necessario reagire subito contro un pregiudizio peggiorativo che rischiava di snaturare la descrizione dei fatti etnografici, che

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impediva in effetti di comprendere il vero significato delle cerimonie o dei gesti e che tendeva piuttosto a presentarli in forma caricaturale o degenerativa. Due sono stati gli ostacoli principali che abbiamo incontrato in questi nostri tentativi: il primo viene dagli informatori. Esiste una legge di segretezza. Ma i capi del culto, che spesso hanno dovuto subire delle persecuzioni da parte della polizia, esitano nel definire i limiti di questa segretezza. Noi ben comprendiamo la loro riluttanza a svelare certe sequenze del rito d’iniziazione o il loro rifiuto a far entrare nelle società segrete come quelle degli Eguns. Non capiamo però perché ci nascondano il mondo dei miti. Se alcuni si rifiutano di divulgarli è perché sono stati talmente ingannati che temono sempre che una sola parola troppo confidenziale possa ritorcersi contro di loro. Tuttavia c’è un modo per superare questo primo ostacolo: la religione africana, in quanto africana, non è solamente una religione di Negri, non solo vi appartengono dei mulatti ma pure dei Bianchi, vedi ad esempio degli stranieri. Bisogna dissociare completamente la religione dal colore della pelle. Si può essere africani senza essere Negri. L’ingresso nel mondo del Candomblè si fa per mezzo di tutta una serie di iniziazioni progressive, di cerimonie speciali aperte a coloro che sono chiamati dagli dei, a prescindere dalla loro origine etnica ed è a mano a mano che si penetra nell’interno del santuario che si apprendono i misteri. Sono soprattutto i sacerdoti che hanno il senso del valore del tempo, è il tempo che matura la conoscenza delle cose. Sono gli occidentali che vogliono sapere tutto subito ed è perché, in fondo in fondo, non capiscono niente. Come mi diceva uno dei miei informatori: "Vi spiegherò poco a poco, ogni settimana, ogni mese, una cosa nuova…". Così poco a poco, a forza di pazienza e di reciproca amicizia, la filosofia africana si rivela, passo a passo. Se ancora non si riesce a comprendere abbastanza è perché ci si fissa unicamente sull’aspetto esteriore dei culti, e che i pregiudizi inconsapevoli circa l’inferiorità mentale dei Negri ha deviato i ricercatori su un mondo mentale e su l’epistemologia afro americana. Il secondo ostacolo è la tendenza a reinterpretare i dati raccolti secondo la mentalità occidentale. Il Père Tempels non lo ha evitato con l’Africa; ha ben compreso che i Bantus possedevano una filosofia, ma invece di presentarla in tutta la sua originalità la ha ripensata dal punto di vista del tomismo. Dobbiamo stare sempre molto attenti. Il merito del lavoro di Lèvy-Bruhl è l’ordine metodologico che ci ha insegnato giustamente una costante attenzione e obbiettività. L’unico tentativo che, fino ad ora, si avvicina di più al nostro è l’articolo che Père Frikel ha scritto in una rivista francese sul concetto che i Negri di Bahia hanno circa l’immortalità e il destino delle anime dei morti. Sfortunatamente quell’articolo portò a delle conclusioni sbagliate perché l’autore ha mal interpretato una parola del suo informatore, Manoel. Costui parlando della divinazione d’Ifa che si fa con 21 conchiglie, ha definito questo procedimento con il nome di Oka lelogun (Oka in yoruba indica il numero 21) e Frikel ha capito Oba Mèlègum (Oba significa Re ed Egum morti); così si è messo a tessere tutta una filosofia su Ifa come Re dei morti, il che non ha assolutamente niente a che vedere con l’autentico pensiero degli africani, ma risulta essere, al contrario, una re interpretazione secondo un pensiero filosofico occidentale, il panteismo. Noi abbiamo sempre preferito offrire delle conclusioni modeste ma vere, piuttosto che dei tentativi ambiziosi senza però dei fondamenti sicuri. Ci resta ancora qualcosa da dire circa l’ortografia dei nomi africani che, secondo noi, si deve adottare. Se il nostro scopo fosse stato quello dell’etnografo che cerca di scoprire le fonti certe di tutti gli africanismi di Bahia, crediamo che sarebbe stato indispensabile seguire le regole dettate dall’Istituto Internazionale delle Lingue e delle Civiltà Africane, per permetterci un confronto più sicuro. Ma siccome consideriamo il Candomblè in quanto realtà autonoma che può includere elementi di origine differente e che pur tuttavia si conforma in modo coerente in termini che appartengono a una realtà brasiliana, abbiamo pensato di dover seguire, nel modo più conforme al nostro progetto, l’ortografia fonetica degli autori di quel paese:

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U

si deve leggere

OU

NH

si deve leggere

GN

X

si deve leggere

CH o SCH

ã

si deve leggere

AN

e

si deve leggere

é

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CAPITOLO I - PRESENTAZIONE DEL CANDOMBLÈ Lungo tutto il litorale Atlantico, dalle foreste dell’Amazzonia, fino alla frontiera stessa con l‘Uruguay, si possono scoprire delle usanze religiose africane sopravvissute. Ma Bahia rimane la città santa, con i suoi Candomblè dove, nelle tiepide notti tropicali, le figlie degli dei danzano al suono sordo e martellante dei tamburi. Quei Candomblè appartengono alle “nazioni” più diverse e, di conseguenza, perpetuano delle tradizioni differenti: Angola, Congo, Géges (cioè Ewe), Nagos (termine attribuito dai Francesi a tutti i Negri della Costa degli Schiavi che parlavano lo Yoruba), Quéto (o Ketu), Ijéshas (o Ijesha). E’ possibile distinguere queste “nazioni” l’una dall’altra dal modo in cui vengono suonati i tamburi (con le mani oppure usando delle bacchette), dalla musica, dal linguaggio dei canti, dalle vesti liturgiche, a volte dai nomi delle divinità e, per ultimo, da certe modalità dei rituali. Sebbene l’influenza degli Yoruba domini senza dubbio tutto l’insieme delle sette africane, imponendo i loro dei, la struttura delle cerimonie e la loro metafisica è attribuibile ai Dahoméene e ai Bantous. Tuttavia è chiaro che i Candomblè Nagò, Queto e Ijèshas sono i più puri di tutti e sono i soli che tratteremo in questo nostro lavoro. D’altro lato si trovano delle “nazioni” yoruba in altre regioni del Brasile: a S. Luiz do Marahhào, a Récife, a Rio Grande du Sud. Il gruppo di S. Luiz, assai isolato, ha subito l’influenza della Casa das Mina, dahoméene, che è il gruppo dominante della città, per cui lo lasceremo completamente da parte. Per contro, nella misura in cui le informazioni di Récife e del Rio Grande du Sud completino o confermino le osservazioni di Bahia, ci potrà capitare di fare riferimento ad argomenti tratti dagli Shangò di Recife o delle “nazioni” Nagò e Oyo (dal nome della città Yoruba) di Porto Alegre. A Rio de Janeiro le “nazioni” si sono fuse le une dentro le altre, permettendo inoltre di essere profondamente penetrate da influenze straniere, amerindie, cattoliche, spiritistiche, per dar luogo a una religione essenzialmente sincretica, la macumba. Ma fino a qualche anno fa, all’inizio del XX secolo, esisteva una religione nagò autonoma, di cui abbiamo qualche descrizione, sfortunatamente molto sommaria. Oggigiorno questi documenti hanno solamente un interesse storico, ma, non per questo, li trascureremo. Si intende però che i nostri studi, anche se a volte tengono conto degli argomenti raccolti da noi o da altri ricercatori in altre città, è incentrato sul solo Candomblè nagò, quèto o Ijèshas di Bahia. Un tempo esistevano dei Candomblè in pieno centro della città. La chiesa della Barroquinha è situata nell’esatto sito dove, alla fine del XIX secolo si trovava un santuario africano. Di questi santuari ne esistono ancora alla periferia dell’abitato nel quartiere della Libertade, proletario, in mezzo a case di operai, in un intrico di muri, stradine e rigagnoli maleodoranti. In generale, però si raggruppano lontano dal centro della città, in vallette ombrose al fianco di colline o tra le dune di mare, nascosti tra gli alberi, tra i ciuffi dei banani, protetti dall’ombra delle piante di cocco. Lungo il fiume Rio Vermelho, a Matta Escura, Saò Caetano, Cidade de Palha, Lingua de Vacca, Pedreiras, Fazenda Grande do Retiro, Fazenda Garcia. …Circondano la città come una corona mistica, senz’altra soluzione di continuità che la mobile facciata dell’Oceano. Il viaggiatore che vaghi da quelle parti, di sera, in quei sobborghi dove le case a poco a poco si sgretolano cedendo il posto alla foresta, ode spesso provenire da quelle tenebrose profondità vegetali il rullio sordo dei tamburi sacri, mentre dei razzi sono lanciati verso il cielo a disegnare nuove stelle. Ogni razzo è il segno che un dio è venuto dall’Africa per possedere sulla terra dell’esilio uno dei suoi figli; ogni stella che brilli sopra le fronde delle piante indica al passeggero che una divinità è “montata a cavallo” lo ha fatto girare e tuffarsi nella notte dell’estasi intorno al palo centrale. Poiché gli dei africani non possono vivere che incarnandosi nel corpo dei loro fedeli. Ed è per questo che il momento centrale del culto pubblico è la crisi della possessione. E’ il momento più drammatico e non è strano che, in queste condizioni, l’attenzione dei ricercatori si sia soprattutto concentrata su questo aspetto del Candomblè, anche perché la maggior parte di questi africanisti erano, al medesimo tempo, dei medici. Vedremo però che, in effetti, la festa pubblica non costituisca che una piccola parte della vita del Candomblè, che la religione africana influenza e controlla tutta l’esistenza dei suoi adepti, che il rituale privato è più importante della cerimonia pubblica e, in quanto i Neri sono Africani, appartengono ad un’altra

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sfera mentale. E’ quel mondo di rappresentazioni collettive che noi vogliamo descrivere. La religione non ha potuto sussistere se non grazie all’esistenza delle confraternite dei “figli o figlie (le figlie infinitamente in numero maggiore dei figli) degli dei” (filhos de Santo) e che la funzione di questi figli e figlie è quella di potersi reincarnare, durante le grandi feste pubbliche, negli Orishà dei loro antenati. Incominceremo dunque la nostra presentazione del Candomblè descrivendo questa cerimonia centrale. Ognuna di queste feste era dedicata a una divinità speciale, benché tutti gli Orishà si manifestassero per mezzo di crisi estatiche con i loro tratti particolari. Lasciamo, per il momento, questi elementi varianti perché non pregiudicano l’unità delle sequenze rituali. Le arricchiscono unicamente; ricamano su di un medesimo canovaccio la diversità dei miti africani. Specificheremo dunque, partendo dal mattino presto, quando la festa comincia, i seguenti momenti.

I - Il sacrificio. Questa parte del rituale non è, a dire il vero, propriamente segreta, ma ha comunque luogo, generalmente, davanti a poche persone, tutti membri della setta. Si crede senza dubbio che la vista del sangue aumenti nei non iniziati lo stereotipo comune a proposito della “barbarie” o del “carattere superstizioso” della religione africana. Il sacrificio è compiuto dal ashògun a cui spetta la funzione nella gerarchia sacerdotale, in sostituzione di questo, dal babalorishà, sacerdote supremo, quando il candomblè non abbia la persone specializzata nel sacrificio. L’oggetto del sacrificio che è sempre un animale, cambia secondo a quale dio è dedicato, “animale a due zampe” o “a quattro zampe”, secondo la terminologia tradizionale, pollo, piccione, capro, montone... ecc. Il sesso della bestia da uccidere deve essere lo stesso della divinità che riceve il sangue sparso. Il modo in cui l’animale viene ucciso varia secondo i casi: strappo della testa, smembramento, sanguinamento della carotide, colpo alla nuca, tutto come lo strumento di cui ci si serve e che deve essere, a volte, “un coltello vergine”. In realtà non si dovrebbe parlare di uno solo ma di due sacrifici perché, qualunque sia il dio adorato, è Eshù il primo che deve essere servito, per delle ragioni che vedremo più avanti. Si ha dunque un primo sacrificio di un “animale a due zampe” per Eshù e poi di uno “a quattro zampe”, generalmente quando le finanze della casa lo permettono, per la divinità a cui è dedicata la festa.

II - L’offerta. L’animale sacrificato passa dalle mani del achògun a quelle della cuoca che preparerà il cibo per il dio. Il midollo, il fegato, il cuore, i “piedi”, le ali, la testa e, ben inteso, il sangue appartengono per diritto agli dei, ma il resto dell’animale non viene buttato via ma cucinato e una parte della preparazione sarà posta su delle scodelle o piccoli piatti davanti alle pietre o pezzi di ferro delle divinità. Se sono stati uccisi due polli, uno dovrà obbligatoriamente essere bollito e l’altro arrostito. Ma la cuoca, chiamata iya-bassè o abassà, non deve naturalmente avere al momento il suo ciclo mestruale, ne limitarsi a preparare l’animale sacrificato ma farà anche dei piatti per degli dei che verranno nominati nel corso della cerimonia, l’amalà di Shangò, il pollo al shinshin di Oshum, il riso senza sale di Oshalà, ecc. Successivamente lei darà da mangiare alle diverse pietre sacre. Quello che resta sarà consumato, alla fine della cerimonia, dai fedeli come pure dai semplici visitatori. Sono questi discendenti di Africani che hanno in tal modo mantenuto attraverso i tempi la cucina religiosa africana, che è poi passata dai santuari alla sala da pranzo dei borghesi, che si è introdotta nella cucina profana e che rappresenta una delle glorie di Bahia. Anche adesso non è raro che, come fa notare A. Ramos, quando una donna negra vi offre una di queste prelibatezze dove il fuoco del peperoncino si sposa così armoniosamente con la dolcezza dell’olio di palma ella vi dica: “Mangia, meu santo”.

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III - Il “padè” di Eshù Il sacrificio si effettua al mattino; i preparativi culinari e le offerte occupano il pomeriggio; la cerimonia pubblica propriamente detta incomincia al tramonto e dura fino a notte inoltrata. Per prima cosa è obbligatorio preparare il padè di Eshù, di cui, talvolta e soprattutto nel Candomblè Bantous, si da una falsa interpretazione: Eshù è il diavolo, se non gli si rendesse omaggio egli potrebbe disturbare la cerimonia, egli stesso, d’altra parte, lo aveva reclamato davanti agli altri dei. E’ necessario quindi pregarlo di andarsene, perché non succedano delle risse o non intervenga la polizia (come accadrebbe in caso di persecuzioni). Il termine despacho che a volte si usa invece di padè significa in portoghese, dal verbo despachar mandare via qualcuno. Eshù è, in realtà, il Mercurio africano, l’intermediario necessario tra l’uomo e il soprannaturale, l’interprete che conosce sia la lingua dei mortali che quella degli Orishà. E’ quindi a lui che si da l’incarico, e la padè non ha altre finalità, di far pervenire agli dei dell’Africa l’appello dei loro figli del Brasile. Questo padè è celebrato da due delle più vecchie filhas de santo della setta, la dagà e la sidagà, accompagnate da canti in lingua africana eseguiti sotto la direzione della iya tèbèshè e sotto il controllo del babalorishà, davanti ad un bicchiere d’acqua o un piatto contenente il nutrimento di Eshù. Il bicchiere e il piatto saranno quindi portati fuori dalla stanza dove si svolge tutta la cerimonia, generalmente all’incrocio di due strade, luogo favorito da Eshù. La festa propriamente detta può dunque incominciare. Benché la padè sia offerta prima di tutto a Eshù, il rituale vuole che si faccia obbligatoriamente una preghiera per i morti o per gli antenati del Candomblè dei quali alcuni designati per i loro titoli sacerdotali.

IV - Il richiamo musicale Eshù non è però il solo intermediario fra gli uomini e gli dei, anche i tre tamburi del Candomblè lo sono: il rum è il più grande, il rumpi di una taglia mediana e il lè che è il più piccolo. Non si tratta di tamburi normali o, come dicono laggiù, dei tamburi “pagani”; essi sono stati battezzati in presenza di un loro padrino e di una madrina, aspersi d’acqua benedetta presa in chiesa, hanno ricevuto un nome, e il cero acceso davanti a loro deve consumarsi del tutto. Soprattutto essi hanno “mangiato” e “mangiano” ogni anno il sangue di un pollo (mai viene a loro offerto un animale “a quattro zampe”) a cui il babalorishà ha staccato la testa sul corpo inclinato dello strumento, versato dell’olio di palma, del miele e dell’acqua benedetta. In seguito “la testa, gli intestini, le ali e le zampe sono fatte cuocere nell’olio di palma, insieme a dei gamberetti e delle cipolle ma senza sale”. Questo piatto è posto, insieme a degli altri alimenti, davanti ai tamburi, dove rimarrà per tutta la giornata perché i tamburi abbiano il tempo sufficiente per “mangiarseli”. E’ chiaro che anche questi strumenti hanno qualche cosa di divino, non si possono vendere ne prestarli senza prima sottoporli a delle speciali cerimonie di desacralizzazione o per renderli nuovamente sacri e, come a noi interessa soprattutto sapere, che siano adatti con il solo suono della loro musica a far discendere gli dei nella carne dei loro fedeli. E’ per questo che la cerimonia, una volta terminato il padè di Eshù, continua con il suono dei tamburi che, senza accompagnamento di canti o danze, parlano agli Orishà e domandano loro di venire dall’Africa in Brasile. Gli etnografi, generalmente, non hanno mai prestato sufficiente attenzione a questo dialogo preliminare dei tamburi e delle divinità. Credo che i loro studi rivelerebbero l’esistenza a Bahia di fenomeni analoghi a quelli che Fernando Ortiz ha così ben analizzato a Cuba, dove la religione è, come si sa, la stessa che a Bahia e cioè la religione Yoruba. Non solamente i tre tamburi però hanno la forza di evocare la venuta degli Orishà, anche gli agidavi, ossia le bacchette per suonarli che, prima di essere utilizzate, hanno dormito ai piedi degli dei nel santuario dove si sono impregnate di forza sacra, o, più precisamente, dove sono entrate in contatto con gli Orishà. L’”agògò” (corruzione della parola akòkò, il tempo o l’ora in lingua yoruba) semplice campanella o, più sovente, doppio o singolo pezzo di metallo,

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percosso con un altro pezzo di metallo, ha un ruolo molto importante nel Candomblè. Allorché le possessioni tardano a prodursi, il sacerdote o la sacerdotessa scuotono l’agògò vicino alle orecchie delle ragazze che ballano e non è raro allora che, spinta da tale suono assordante, la divinità si decida finalmente a montare sul suo cavallo. Purtroppo non sappiamo se quest’ultimo strumento musicale è sottoposto a una preparazione religiosa analoga a quella dei tamburi o dei semplici agidavi prima di essere impiegato.

V - Le danze preliminari Ora gli dei sono chiamati seguendo un certo ordine che varia da Candomblè a Candomblè ma che è sempre lo stesso in un determinato santuario. Quest’ordine è conosciuto con il nome di shirè, incomincia, come d’obbligo, da Eshù per terminare con Oshalà che è il Maestro dei cieli, il più importante degli Orishà; ma se escludiamo il primo e l’ultimo nominativo dello shirè, regna una grandissima varietà di nominativi intermedi; diciamo che si potrebbe cominciare a elencare le divinità più giovani o le più violente come Ogun, per poi arrivare progressivamente alle più vecchie o le più calme nelle loro manifestazioni. Ogni divinità riceve, come minimo tre cantiche; io mi ricordo ancora delle proteste dei fedeli una sera in cui, non so per quale ragione, un dio non ne ha ricevute che due invece delle regolamentari tre. Ma il numero tre non rappresenta che un minimo, perché si può arrivare a che se ne cantino molte di più. Se nel Candomblè bantous le parole sono più spesso portoghesi, nel Candomblè yoruba o dahomèens le cantiche sono il lingua, cioè, in africano; la lingua varia naturalmente secondo l’origine etnica della “nazione”, egba, fon ecc. Esse costituiscono, insieme ai ritmi sonori dei tamburi che le accompagnano, altrettanti leit-motif, per usare un’espressione wagneriana, destinati a fare arrivare gli Orishà. Questi motivi non sono solamente cantati ma sono anche danzati, perché non sono altro che l’evocazione di certi episodi relativi alle storie degli dei, sono frammenti di mito e il mito deve essere rappresentato oltre che cantato, per fornire tutta la sua potenzialità evocativa. Il gesto accompagna la parola, la forza dell’imitazione mimetica ha l’incantesimo della parola, gli Orishà non tardano a montare sui loro cavalli a mano a mano che sono chiamati. Può accadere che la cerimonia prosegua per lungo tempo senza che si effettuino delle possessioni. In questo caso i tamburi fanno sentire il toque adarrum suono che non è accompagnato da canti, perché in quel momento non si tratta più di richiamare un solo dio, ma tutte le divinità insieme e quindi il ritmo più e più rapido e assordante finisce per allentare i muscoli, aprire le viscere e la testa alla penetrazione del dio così a lungo atteso. Quando avviene la crisi della possessione, gli ekedy che sono addetti a proteggere i figli e le figlie degli dei, tolgono loro le vesti, se si tratta di uomini, il foulard che potrebbe strangolarli in caso di convulsioni, se si tratta di donne, vengono loro tolte prima di tutto le scarpe. Il gesto è altamente simbolico: si tratta di spogliare l’individuo della sua personalità brasiliana per farlo ritornare alla condizione di Africano. Le scarpe hanno un’importanza capitale nella vita dei Negri americani. Sono state il segno della loro liberazione: quando uno schiavo otteneva la sua libertà, il suo primo pensiero era quello di comprarsi un paio di scarpe per essere uguale ai Bianchi, anche se poi non le indossava mai poiché con i suoi piedi abituati ad andare nudi non riusciva a sopportarle. Le portava pero appese con una cordicella al collo, oppure alla mano mentre, a casa sua, le metteva, in bella mostra, su di un mobile. La discesa dell’Orishà lo restituisce alla sua condizione di Africano, alla vita tribale dei suoi padri, camminerà ormai con i suoi piedi nudi la terra che è anch’essa una dea. La violenza della crisi di possessione varia secondo le circostanze, il temperamento dell’individuo e la natura del dio che lo sta possedendo. In caso di svenimenti, questa crisi può avere il significato di un castigo, se è troppo violenta, il sacerdote o la sacerdotessa che dirige il culto, babalorishà o jalorishà, mette la mano sulla nuca del cavallo per calmarlo, gli soffia nell’orecchio. Gli ekedy aiutano l’individuo tremante sotto l’effetto divino a uscire dalla sala delle danze per andare o in un pegi, o dove sono le pietre degli Orishà oppure in una stanza vicina; se è crollato per terra lo sollevano e lo portano come un cadavere, tutto ancora agitato da movimenti spasmodici. L’estasi prenderà una forma più calma senza per questo interrompere la possessione divina e non si compirà che per mezzo degli ultimi canti. Si faranno indossare ai fedeli delle vesti liturgiche proprie della sua divinità e gli si metteranno tra

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le mani degli oggetti simbolici del suo nuovo status: la spada di Ogun, lo scudo di Oshossi, la shashara (coda di bue) di Omolù, l’abebè (ventaglio) di Oshum, il pashoro (fusto di ferro) di Oshalà… Ciascun membro della confraternita non può ricevere altro dio di quello a cui è stato legato con i riti dell’iniziazione. Alcuni casi eccezionali possono tuttavia accadere e qui vorremmo spendere una parola. Ci sono degli Orishà che non discendono mai come Shangò Dada, per esempio, oppure Orunmila; in questo caso la persona che, a uno di loro, è consacrata, riceve una divinità della stessa famiglia. Questo è l’unico caso in cui la possessione avviene da parte di una divinità che non è quella a cui si appartiene di diritto. Può succedere anche, ma assai raramente (e io non ho mai assistito a un tale fatto), che un Orishà turbolento o geloso monti su un altro cavallo che non sia il suo. Il sacerdote deve allora mandarlo via immediatamente (despachar). Eshù non s’incarna mai, benché a volte abbia dei figli; noi ne abbiamo conosciuto per lo meno uno e ci ha fatto anche i nomi di altri ma la possessione da parte di Eshù è differente da quella degli altri Orishà per la sua frenesia, il suo carattere patologico, anormale di una violenza distruttiva; è un po’ la differenza, se lo si vuole vedere da un punto di vista simbolico, con cui i cattolici distinguono l’estasi divina dalla possessione demoniaca. E’ quindi necessario, se è Eshù che attacca un fedele, mandarlo immediatamente via. Eccetto per alcuni casi aberranti che, ancora una volta, sono estremamente rari, la funzione di quella parte di rituale che stiamo per descrivere ha per scopo la possessione degli uomini da parte dei loro dei. Tuttavia, non tutti gli iniziati sono posseduti. Per non parlare delle donne che stanno avendo il loro ciclo mestruale e che non devono neppure assistere alla festa, perché le divinità hanno orrore del sangue mestruale; se qualcuna di loro osasse intervenire, i tamburi la riconoscerebbero immediata-mente perché la loro semplice presenza turberebbe il suono musicale. Le donne incinte o con le doglie possono presenziare ai riti ma non verranno mai “cavalcate” dal loro Orishà. Nelle cerimonie tradizionali dei grandi Candomblè si presentano molti membri di altri terreiros o di altre sette per assistervi o semplicemente per curiosità. Non è buona educazione se queste persone che vengono da fuori cadano in trance, ciò sarebbe mal visto. L’estasi non è permessa se non dentro l’ambito del santuario o dove è stata fatta l’iniziazione. Può accadere, tuttavia, che certe donne visitatrici sentano il richiamo insistente del dio dentro di se e che chiedano allora dei grandi bicchieri di acqua fresca che hanno il potere di impedire che si produca la possessione. Possiamo aggiungere un ultimo caso e cioè quello di una persona non iniziata, venuta per vedere le danze e per il solo piacere dello spettacolo e che, improvvisamente, sia presa anch’essa da una crisi di possessione. In questo caso si dice che la persona è stata attaccata da un “santo selvaggio” (santo bruto), il che significa semplicemente che la crisi non è stata controllata o orientata dalla collettività. Questa persona è quindi fatta entrare all’interno del santuario per fare la sua iniziazione e diventare così figlia degli dei. Lo scopo dell’iniziazione è soprattutto quello di socializzare la crisi affinché sia ormai conforme ai patroni Africani.

VI - La danza degli dei Dopo un intervallo in cui a volte si serve agli invitati uno spuntino, le figlie o i figli di dio rientrano nel salone delle danze. E non sono più solamente figlie e figli di dio ma gli stessi dei che essi incarnano, e che scendono a mescolarsi per un momento con i loro adepti del Brasile. Il ritmo della cerimonia non varia, sono le stesse invocazioni degli Orishà, secondo un determinato ordine e sempre con le tre minime cantiche consuete per ogni dio, gli stessi “leitmotiv” Wagneriani, davanti a un pubblico raccolto e compunto, ma i gesti hanno una bellezza diversa, i passi della danza svelano una strana poesia. Ormai non si tratta più di semplici sartine a giornata, di cuoche o lavandaie che volteggiano al suono dei tamburi nelle notti di Bahia, ma è Omolù ricoperto di paglia, è Shangò rosso e bianco, è Yemanjià che si pettina i capelli scuri. I volti sono divenuti maschere, come per metamorfosi, le rughe della fatica quotidiana scomparse, le stimmate della vita di tutti i giorni con le sue preoccupazioni e miserie svanite; Ogun il guerriero scintilla nel fuoco della collera, Oshum non è altro che carne

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voluttuosa. In un attimo l’Africa e il Brasile si sono fusi; l’Oceano sparito, i tempi della schiavitù cancellati. Gli Orishà sono lì presenti che salutano i tamburi e fanno ika o dobale davanti ai sacerdoti supremi e, danzando, a volte, svelano il futuro o danno dei consigli. Le frontiere tra il naturale e il soprannaturale non esistono più, l’estasi ha prodotto la desiderata comunione.

VII - I riti di uscita e comunione Questa estasi terminerà solo quando tutti i canti dell’unlò saranno stati eseguiti e il cui scopo è giustamente quello di rimandare gli Orishà. Questi canti sono eseguiti nell’ordine inverso a quello dell’invocazione per la discesa degli dei, incominciando da quelli chiamati per ultimo per finire con quelli invocati per primi. A mano a mano che si srotola la litania dei nomi, le palpebre chiuse si aprono, i volti perdono la loro maschera divina e riappare la personalità normale. L’ultimo canto ha luogo nel pegi, come se si volesse che la forza mistica che è esplosa ritorni nelle pietre bagnate di sangue o sui pezzi di ferro che stanno “mangiando” le offerte alimentari. Questo ultimo canto, al contrario dei precedenti, segue l’ordine dello shirè:

atàu ecùò è di bom jeù Eshù vai unlò È di bom jeò Atàu ecùò È di bom jeò

Ogum vai unlò ......... Oshum Emanjà Shangò Orishalà

Prima di separarsi tuttavia, un pasto comune permetterà di unire le divinità ai membri della confraternita e agli spettatori che sono rimasti. Le ragazze portano dei piatti ognuno con un diverso colore secondo il loro Orishà: bianco per Oshalà, azzurro per Yemanjià, violetto per Nana… E così pure un po’ del cibo rimasto di quello che era stato posto nel pegi. Esse si siedono in circolo intorno a un telo steso per terra e sul quale hanno messo il cibo sacro. Ognuno si serve dal piatto corrispondente al suo dio con le due mani a conchetta e poi inghiotte con un movimento della bocca che va dal polso alla punta delle dita. Poi offre un po’ di cibo di questo piatto ai figli degli altri Orishà, in tal modo saldando l’unione del gruppo per mezzo della spartizione del cibo. Il rimanente è offerto agli spettatori che siedono intorno dietro alle donne sedute per terra, su foglie di banano come fossero dei piatti vegetali, dove i vari cibi sacri degli dei sono mescolati in segno fraterno. E’ obbligatorio mangiare con le mani. Mai si deve confondere questo pasto, che è una comunione, con gli spuntini serviti, a volte, negli intervalli tra le danze di richiamo e quelle degli dei, agli invitati di rispetto. Questo pasto è ben altra cosa è una triplice solidarietà che si realizza, prima di rientrare nel mondo profano, tra il divino e l’umano, tra i membri della confraternita che, a volte, appartengono a divinità diverse e persino rivali e, per finire tra la confraternita e i non iniziati, affinché un pezzetto di Africa perduto e ritrovato sia passato pure a loro. Il gruppo dei fedeli oltrepassa il numero dei figli e delle figlie degli dei e l’entrata in un Candomblè avviene progressivamente, per gradi di incorporamento. Il grado più basso è simbolizzato dal lavaggio di una collana. Ciascun membro della setta ha una collana particolare le cui perle sono del colore della divinità a cui si appartiene: bianche per Oshalà, bianche e rosse alternativamente per Shangò, verdi per Oshossi, gialle per Oshum… Queste collane non hanno valore per se stesse e devono essere state sottoposte a un ben determinato procedimento, cioè devono essere state “lavate”. L’individuo che desidera partecipare alla vita del Candomblè deve, prima di tutto, consultare un babalaò o indovino, che getterà per lui la collana d’Ifa o le conchiglie, per sapere il nome dell’Orishà che è il “maestro della sua testa”. La persona non dovrà quindi fare altro che farsi montare la collana corrispondente al suo Orishà , oppure acquistarla al mercato municipale e

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portarla dal babalorishà o dalla Ialorishà del terreiro a cui si vuole appartenere e loro la laveranno. Manuel Querino ci ha lasciato una descrizione della cerimonia: immersione della collana in un recipiente pieno d’acqua, triturazione di foglie legate alla divinità in questione (ogni dio ha, come vedremo, delle foglie speciali), lavaggio delle perle con del sapone della Còte, si intende della Costa Africana (sapone nero e molle), consegna della collana alla persona che deve indossarla con le rispettive raccomandazioni sui suoi futuri obblighi e, infine una festa con canti e rinfreschi. Questa descrizione è, pur tuttavia, incompleta poiché manca l’essenziale: affinché la collana abbia un valore è necessario che: 1°) debba rimanere tutta una notte sopra la pietra del dio suo proprio e che il sangue di un uccello ucciso in sacrificio abbia lavato, insieme alle erbe, sia la pietra che la collana, si realizza così l’unione del dio e della collana. Ma non basta ancora: bisogna che 2°) a questa prima unione se ne aggiunga un’altra tra la pietra, la collana e le testa dell’individuo che celebra il rito. Dico “testa” e non “individuo” perché è la testa che è considerata il trono dell’Orishà. Sarà quindi lavata anche la testa, come pure sovente anche tutto il corpo, con l’acqua e le erbe che sono servite per lavare la collana e la pietra. I tre membri della triade: dio, l’uomo e la collana sono quindi entrati in contatto, permettendo il passaggio di una corrente mistica tra il primo e il secondo per mezzo del terzo. E’ per questo che la collana ha valore solo per il suo possessore. Se questa viene perduta e qualcuno l’indossi, essa non avrà alcun potere per quest’ultima persona perché la collana non sarà stata messa a contatto diretto o indiretto con la sua testa.

1- Cerimonia del Lavaggio La cerimonia del lavaggio non ha nulla, a ben vedere, di drammatico o di pittoresco. Facciamo, tuttavia, ben attenzione. Per l’individuo che ci si sommette è di un’importanza capitale, poiché lo lega ormai ad un altro mondo. Egli ormai non ha più la libertà di cui godeva prima, ma è legato a tutta una serie di obblighi, negativi o positivi, di incarichi e doveri. Non potrà più mangiare certi cibi, quelli che sono eho tabù per il suo dio; egli non potrà più avere delle relazioni sessuali nei giorni della settimana dedicati alla sua divinità e, infine, egli si impegna a partecipare al ciclo di spese del Candomblè. Si è prodotta così una prima frattura: l’uomo si è già staccato dalla civiltà profana, brasiliana, per integrarsi in quella africana. Gli Orishà sono inflessibili: se egli viola i tabù, se non compie i suoi nuovi doveri, il dio che è già dentro la sua testa lo può punire con tutta una serie di castighi, dalle malattie alle disgrazie famigliari che andranno accumulandosi se lui non terrà conto dei primi avvisi. Con l’andar del tempo, la collana può perdere la sua forza e, in questo caso, bisogna procedere a un nuovo lavaggio delle perle. Date fisse non ci sono, l’esaurimento delle virtù delle perle varia secondo le circostanze.

2 – Il “bori”. Questa cerimonia è stata più o meno minuziosamente descritta da Manuel Querino e da P. Verger per Bahia e da Renè Ribeiro per Rècife e se ne troverà pure qualche dettaglio nel reportage di Clouzot, il che ci permette di non perderci nei dettagli ma di andare subito all’essenziale. Il nome popolare che si da a questa cerimonia ne dice bene la funzione e il significato centrale: “dare da mangiare alla testa”. La persona li descritta è seduta su una stuoia ricoperta da un telo bianco, è a dorso nudo con una semplice salvietta sulle spalle. L’officiante, anche lui vestito di bianco per la circostanza, consulta per prima cosa gli oubis per conoscere la volontà degli dei. Se costoro accettano la cerimonia, egli incomincia pronunciando le formule consacrate “in lingua”, per chiedere la benedizione degli Orishà e quella delle anime degli antenati: tritura fra i denti delle noci di oubi e soffia, per tre volte, sulla faccia del paziente il contenuto della sua bocca. Nel frattempo coloro che assistono eseguono dei canti stabiliti e preparano diversi alimenti, di cui una parte sarà offerta all’Orishà “padrone della testa”,

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un’altra ai morti , una sarà messa sulla testa di colui che fa il bori e un’ultima sarà cucinata per il pasto finale. Ciò che è più importante è che verrà sacrificato un gallo; il suo sangue sarà versato sulla pietra sacra del dio, sulla testa, il petto, i piedi e le mani del fedele e, siccome il gallo è ucciso staccandogli la testa con violenza, si avvicina il collo della bestia, ancora scosso da movimenti spasmodici, da cui sgorga il sangue alla bocca del paziente che, con la lingua lo leccherà per tre volte. La cerimonia termina dopo aver consultato ancora una volta gli oubis per sapere se gli dei sono soddisfatti e se vogliono accettare il rito celebrato così come l’assunzione di una parte delle offerte che sono state cucinate. Il fedele deve rimanere tutta la notte nella casa, con il pacchetto di cibo sulla testa, per dare il tempo al suo Orishà di mangiarlo, mentre la sua faccia, le mani e i piedi sono ancora sporchi di sangue coagulato sulla sua pelle. Il bori (contrazione di obori) può corrispondere a due fini diversi. Secondo Manuel Querino “ha per obiettivo” “…di ottenere la salute”, e Renè Ribeiro, dopo aver definito l’ori come il vero spirito dell’uomo, aggiunge: “La sua fragilità è oggetto delle più grandi preoccupazioni così come quello di dare da mangiare alla testa… si trovano periodicamente necessarie perché l’individuo non si indebolisca per via delle ripetute possessioni e possa offrire ancora resistenza all’azione delle influenze magiche o delle entità malvagie.” I due testi si completano, poiché la malattia a cui si riferisce M. Querino, non è che il segno dell’indebolimento dell’ori il risultato delle “influenze magiche o delle entità malefiche”. Ma questo stesso autore, parlando in seguito dei rituali dell’iniziazione, fa questa riflessione, per noi importante:” Ci sono delle persone che, per quanto appartengano alla setta, non vogliono danzare o cantare in pubblico, allorquando il Santo si presenti in forma inattesa. In quel caso non si fa la manifestazione, non si porta a termine il lavoro, si accorcia il cerimoniale sopprimendo la tonsura della testa e il pettinarla con l’effun. Si vuole così specificare che in fondo l’iniziazione di quegli adepti si riduce al bori e all’educazione religiosa. L’offerta alimentare alla testa, in quanto fortifica l’ori può ben avere una virtù profilattica o curativa; in quanto, per contro, lega per mezzo del sangue, la pietra dell’Orishà e l’individuo, così come, per mezzo del nutrimento sacro, si legano dio, i morti, i membri presenti del Candomblè e la persona che fa il bori, collegando ancora più fortemente del semplice lavaggio della collana il fedele alla civiltà africana. Si tratta infine dell’inglobamento di coloro che saranno i servitori della setta, senza mai manifestare dei fenomeni di possessione. Il lavaggio della collana può ridursi semplicemente a un bagno d’erbe sacre, senza spargimento di sangue; il bori ha bisogno del sacrificio di un animale a due zampe, il legame tra la pietra divina e l’individuo è, di conseguenza, più stretto. Il sangue di un “animale a due zampe” ha però meno forza di quello di un animale a “quattro zampe” il che fa si che la partecipazione resti meno pressante di quella che si verificherà nel rituale dell’iniziazione dei figli degli dei. Nel bori il sangue che colerà sulle pietra, sulla collana (se si fa il lavaggio della collana allo stesso tempo del mangiare sulla testa, come dalla descrizione del Verger) sarà lo stesso di quello che è leccato dal collo dell’uccello sacrificato, per cui la partecipazione avverrà simultaneamente. Il lavaggio della collana, invece, si può fare al di fuori della presenza di colui che la indosserà (che non merita ancora di conoscere i “segreti” della setta) e il lavaggio della testa, o del corpo, si effettuerà uno o due giorni dopo. Questa differenza di tempi vuol significare un legame inferiore della persona nei confronti della realtà soprannaturale. Così come l’individuo che da da mangiare alla sua testa non fa che succhiare il sangue tirando fuori la lingua dalla bocca, l’iniziato, come vedremo, infila il collo della bestia nella sua gola per inghiottire il sangue dell’animale “a due zampe” e in più riceverà quello degli animali “a quattro zampe” attraverso l’orifizio praticato sopra il loro cranio. Tutto ciò dimostra in definitiva che il bori occupa sicuramente una posizione intermediaria nel sistema dell’unione degli uomini con le divinità, tra il lavaggio della collana e l’iniziazione propriamente detta. Non bisogna comunque dimenticare che, quando si tratta di religione afro-brasiliana così ricca in rituali complessi, il bori potrà o no includere questo o quell’elemento proprio allo scopo a cui tende, e cioè se si tratta unicamente di fortificare lo spirito in questione o, fortificando lo spirito, fare entrare la persona in più stretto contatto con il mondo del Candomblè. In ogni modo il sociale non fa altro che includere, nel dominio delle relazioni interpersonali, le leggi della vita mistica. I vari gradi di partecipazione al gruppo non fanno che seguire quelli della

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partecipazione dell’uomo con i suoi Orishà. Le variazioni della solidarietà sociale infine non sono che il riflesso e la conseguenza delle variazioni della solidarietà che si stabilisce tra le persona e il mondo degli dei. E’ per questo che lo statuto del fedele nella setta cambia con la forza del legame che lo unisce a questo mondo. Ciò che spiega, tra parentesi, perché l’unione per mezzo del sangue di un animale a “due zampe” sia più forte, è che si esige che lo spirito del soggetto sia innanzi tutto fortificato per sopportare impunemente questa unione (ecco perché si hanno i due aspetti complementari del bori). In breve, la coerenza della società religiosa, le forme e i processi delle relazioni tra i membri di questa società, la loro partecipazione più o meno importante al tesoro delle rappresentazioni collettive, i tipi di cooperazione, dipendono, in ultima analisi, dai prestabiliti legami religiosi tra i candidati alla vita del Candomblè e le loro divinità. Non è la morfologia sociale che comanda o spiega la religione, come diceva Durkheim, ma al contrario la mistica che comanda il sociale.

3° - L’iniziazione Il lavaggio della collana e il bori sono la parte obbligatoria dell’iniziazione, poiché la partecipazione più completa alla vita del Candomblè ha forzatamente bisogno anzitutto del passaggio attraverso i gradi intermediari. Per cui la ragazza che si farà iniziare indosserà sempre la sua collana e per questo le dovrà essere approntata. I riti dell’iniziazione sono, d'altronde, estremamente drammatici e non mancano, suscitando forze potenti e misteriose, di procurare danni all’individuo che vi si sottoporrà e questa è la ragione per cui è necessario fortificare la sua testa perché quest’ultima possa sopportare impunemente lo scatenamento delle forze. Pertanto il bori, in quanto rito profilattico e non semplicemente d’incorporazione è assolutamente necessario. Se, dunque, il lavaggio della collana e il mangiare della testa fanno parte della sequenza del cerimoniale dell’iniziazione, quest’ultimo (il mangiare della testa), è infinitamente più ricco, più complesso, poiché l’incorporazione al Candomblè ne risulterà ancora più stretta. Clouzot da l’impressione di pensare che l’iniziazione abbia per scopo il raggiungimento dell’estasi. Se la possessione, scrive, non è altro che una crisi isterica, perché a Bahia e solamente a Bahia c’è una tale proporzione di malati? La parte centrale dell’iniziazione consisterebbe dunque nel “drogare” i candidati con le erbe speciali, nel ridurli allo stato di automi, per tenerli così in una specie di dominio ipnotico e fissare nel loro spirito mentre sono in quello stato di disgregazione mentale sotto l’effetto di certe musiche e la transe, un’associazione assai più forte dell’opera di una suggestione e che la suggestione continui a funzionare anche quando l’individuo sia passato dallo stato ipnotico a quello di veglia. La sua conclusione è un po’ confusa, poiché tiene conto anzitutto del fatto che certi candidati sono stati posseduti da un “santo selvaggio” senza prima essere stati sottoposti alle prove preparatorie: “Io penso che le prove a cui si sottomettono i iaos costituiscono il trattamento di certe nevrosi, ma un trattamento speciale poiché, eliminando le fasi acute, esso contiene queste nevrosi e fissa le loro manifestazioni sotto determinate forme. Esempio: l’epilettica entrata a seguito delle nostre figlie nella camarinha. Le sue crisi si erano immediatamente diradate per scomparire entro quindici giorni... Invece di abbandonarsi alle sue convulsioni lei si sollevava (o si riprendeva) ponendosi in stato di santità.” Clouzot qui riconosce già che l’iniziazione, lungi dal cercare di distruggere l’individuo per renderlo suggestionabile e soggetto a delle crisi di possessione, ha ben altro scopo e cioè quello di controllare le sue crisi. Ma questo controllo egli lo vede ancora con l’occhio del medico psichiatra. Bisognerebbe quindi che, e il nostro autore sembrava all’inizio respingere l’ipotesi, si facessero, delle centinaia di figli e di figlie degli dei che vivono a Bahia, degli epilettici, degli isterici o dei paranoici, in una parola dei nevrotici? Che la spiegazione data da Clouzot valga in certi casi noi non lo negheremo; ma la transe della possessione ha un carattere più sociologico che patologico, come ben nota Herskovits, non bisogna dimenticare che queste transe sono un fenomeno “normale” per certe civiltà, come quelle dell’Africa Nera, imposte dall’ambiente, e sono una forma di adattamento sociale a certi ideali collettivi. A noi spetta di studiare il cerimoniale dell’iniziazione senza etnocentrismo, senza scegliere tra gli elementi che lo costituiscono quelli che, secondo noi, sono più importanti o più chiarificanti, ma, al contrario, non trascurando

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nessuno degli aspetti della questione: il controllo della vita mistica, l’associazione dell’individuo con il suo Orishà, l’incorporazione di un nuovo membro nella confraternita religiosa, la morte e la resurrezione del candidato. Tutti coloro i quali hanno descritto l’iniziazione a Bahia hanno fatto iniziare la cerimonia con l’entrata dei figli o delle figlie nel santuario dove questi o queste vivranno per parecchi mesi. Da tre a dodici, secondo i Candomblè. Seul Verger, riferendosi all’Africa, vi introduce il cerimoniale della morte e resurrezione dell’individuo. La persona che è stata posseduta da un “dio selvaggio” e si rotola al suolo, deve essere trasportata nella camera dove il babalorishà “ucciderà il dio”, farà cioè ritornare il paziente al suo stato normale. Il rotolamento al suolo corrisponde all’antica personalità e il rito dell’uccisione del dio corrisponde alla resurrezione; resta inteso che la persona che rinasce non è più quella di prima ma è un nuovo “io” ormai divinizzato. Tuttavia , qualunque sia la volontà dell’Orishà di “montare” l’una o l’altra persona come un cavallo, si manifesta spesso in quella patetica maniera (ne abbiamo dato prima degli esempi), si può diventare figli o figlie del santo senza passare, a Bahia, attraverso la condizione preliminare del “santo bruto”. Se si scopre, ad esempio, una pietra dalle forme strane e in cui si crede di riconoscere il richiamo ancora misterioso di una divinità, come fu il caso di una certa Olympia, di cui Nina Rodriguez racconta la storia. Anche la malattia può essere un segnale come il caso di un figlio di Omolù che lo è diventato dopo essersi preso il vaiolo. Alcune ragazze sono destinate dai loro genitori stessi, a far parte, fin dalla più giovane età, della confraternita, senza che esse abbiano manifestato, con il loro comportamento, una qualsivoglia tendenza a cadere in stato di transe. Il che fa si che sia la morte che la resurrezione non avranno luogo che dopo l’entrata nel santuario e sotto forma di una verifica, una specie di test, per sapere se l’Orishà è d’accordo che si proceda con la cerimonia. Nel lavaggio della collana e nel bori, la testa è messa, per mezzo del bagno con le erbe o il sangue, in comunicazione con la pietra della divinità, ma quella pietra sarà una pietra del pegi, ossia già “fatta”. Nell’iniziazione, al contrario, sarà necessario preparare un’altra pietra, la pietra personale dell’iniziato, quella di cui si dovrà prendere cura per tutto il resto della vita e alla quale si dovrà dare da mangiare. Una frase di Nina Rodriguez dice:” La fabbricazione del santo comprende due operazioni distinte ma che si completano, la preparazione del feticcio e l’iniziazione o la consacrazione del suo possessore.” Infatti si può separare i due rituali per semplificarne la descrizione, pur essendo essi più che complementari ma intrinsecabilmente legati. L’incorporazione dell’individuo alla vita del Candomblè è infatti, come abbiamo detto, la conseguenza del suo legame con l’Orishà e che la forza dell’Orishà è nella pietra. Tutto quello che possiamo dire è che questa preparazione e questa partecipazione del “feticcio”, come lo chiama Nina Rodriguez è per la testa e ha luogo all’inizio stesso del cerimoniale dell’iniziazione. Nel corso delle prime tappe. Si incomincia naturalmente, e questa è la funzione del babalaò, con la consultazione delle conchiglie divinatorie per sapere qual è la divinità che richiede l’iniziazione della candidata. Quando si conosce il nome dell’Orishà, allora si procede con l’entrata nel santuario. Nell’oscurità, spesso luminosa ai Tropici, della notte, la candidata fa un bagno in una sorgente sacra, si toglie i vecchi abiti prima di entrare nell’acqua e ne indosserà dei nuovi quando uscirà dal bagno. E’ così simbolizzato, con il bagno lustrale e il cambio di vestiti, il passaggio dalla vita profana a quella mistica. Al suo rientro nel santuario la ragazza è solennemente ricevuta dai dignitari della setta e viene fatta sedere su una panca o sedia mai usati prima. Lo si può quasi chiamare un tipo di rito di incoronazione. Si prepara la pietra. “La preparazione o lavaggio della pietra è una cosa assai complicata in cui il Pére du terriero mette tutta la sua scienza e tutta la sua abilità”: la pietra del fulmine di Shangò, per esempio, deve essere immersa in un bagno di olio di palma e d’ erbe sacre: quella di Yemanjà nel miele, farina di mais, ecc. La pietra sarà quindi messa in contatto con l’individuo e la collana che egli indosserà. Prima di inoltrarsi ancora nel dedalo dei rituali, si celebra un bori per fortificare la testa, renderla capace di sostenere senza danni le crisi ripetute e prolungate che seguiranno. D'altronde, se è necessario, degli altri rituali del “mangiare sulla testa” avranno luogo in seguito. Il bori allo stesso tempo che rende la persona adatta a continuare senza danni l’iniziazione, riunisce ancor più strettamente, e lo abbiamo

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dimostrato, la pietra, la divinità, il candidato e il gruppo sociale che forma il Candomblè. Bisogna aggiungere che questa pietra non sarà subito dimenticata, le si offrirà una parte degli alimenti, degli animali sacrificati, del sangue versato di modo che la fabbricazione della pietra, o come si dice “la fissazione” dell’Orishà dentro di essa segua passo a passo tutte le tappe della parallela “fissazione” dell’Orishà nella testa dell’iniziato. Per quanto si possa affermarlo trattandosi di cerimonie interdette ai profani, i due movimenti sono simultanei, la pietra entra nel pegi allo stesso tempo che l’individuo entra nella setta; le due incorporazioni coesistono e traducono la stessa partecipazione, quella dell’oggetto e del suo proprietario, in una identica realtà soprannaturale. Il babalaò può, a volte, sbagliarsi nella consultazione della scelta (del dio), ma ciò accade raramente ed io so solo di un caso controverso: quello di una figlia di Eshù, ma era lei che era scontenta della scelta del suo “santo” e si professava figlia di Ogun. Il babalorishà insisteva invece che S… era proprio una figlia di Eshù. Ad ogni modo non si può mai essere certi, al primo colpo, che il babalaò non si sia sbagliato, se così fosse, l’errore sarebbe molto grave perché il vero Orishà del cavallo non mancherebbe di manifestare il suo malcontento vedendo che i sacrifici e gli alimenti vadano ad un altro invece che a lui, egli, per vendetta scaglierebbe una malattia o la maledizione sul cavallo in questione e fu ben per questo che S… era malata e si giudicava “mal fatta”. Per evitare questi casi di falso riconoscimento che obbligherebbero l’individuo a praticare delle operazioni costose e difficili si fa l’operazione del “togliere il santo” dalla testa e subito metterne un altro; questa operazione va fatta nei primi stadi dell’iniziazione, per evitare tutta una serie di rituali di “conferme”. E’ Edison Carneiro che, per primo, ha attirato l’attenzione degli studiosi su questa parte dell’iniziazione, ma sembra che alcune sequenze del rituale che erano state descritte prima di lui non siano altro che dei tests di verifica di cui gli autori ignoravano la vera funzione. I candidati sono fatti davvero danzare al suono dei tamburi sacri e, allorquando si ode il “leit motif” del suo Orishà, il suo cavallo deve anch’esso cadere in transe. Se non avviene la transe si ricomincia con il cantico 7, 14 e fino al 21 in tutto e, se la candidata non ha ancora ricevuto il suo dio al ventunesimo cantico si può dedurre che vi sia stato un errore. Ben inteso questo è un rito preliminare perché se il dio si fosse già inserito nella testa, non ci sarebbe più niente da fare. Questa verifica non va confusa con la prova del fuoco che è una prova finale e che consiste nel mettere le mani tra le fiamme o inghiottire un carbone ardente; questo rito che non sembra obbligatorio, ma che, tuttavia, è di sovente praticato (si può verificare pure durante le cerimonie pubbliche oltre che nell’ iniziazione) ha per scopo di rendersi conto della veridicità della transe e a smascherare i possibili casi di simulazione. E’ chiaro che, dal momento che le figlie degli dei non devono sapere quello che si sta producendo su di esse nel corso dell’iniziazione, ma che devono aver dimenticato tutto al momento del loro ritorno alla vita profana, è necessario e utile verificare che siano nell’incoscienza più completa prima di procedere con tutte le ultime cerimonie. Ma, come si vede, si tratta allora di verificare l’autenticità di uno stato psichico e non della personalità o dell’identità del vero dio. La penetrazione dell’Orishà nella testa di suo figlio avviene lentamente, passo a passo, a cominciare dall’entrata nel santuario fino allo sprofondare nelle tenebre che ne segna la fine. Il carattere progressivo di queste tappe si manifesta attraverso un insieme di simboli: i capelli sono dapprima tagliati con le forbici e poi rasati. Il cranio è quindi irrorato con il sangue delle bestie a due zampe e poi di quelle a quattro; la pelle è prima tatuata e poi incisa, ecc. Durante tutti questi passaggi, la candidata vive in una piccola stanza detta camarinha, in portoghese, aliachè in africano, e di lei si prende cura la sacerdotessa di secondo grado detta “la piccola madre”. Inoltre non può comunicare con i visitatori del Candomblè se non battendo le palme delle mani le une contro le altre, il che si chiama il paò e non può parlare con loro. Porta, a volte, legato al collo del piede un braccialetto fatto di sassolini (simili ai granelli della grandine) detto il shaòrò. Ognuno di questi passaggi inizia con un sacrificio a Eshù, poiché è lui l’intermediario obbligatorio fra gli uomini e gli Orishà; un altro sacrificio si fa agli Eguns, vale a dire non a tutti i morti in generale, ma ai soli antenati della candidata. Nel corso di tutta la prima cerimonia i capelli sono tagliati solo con le forbici, per facilitare la discesa del dio, la testa irrorata con il sangue degli uccelli e, preferibilmente, con un infuso di erbe del suo dio, la ragazza cade allora

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in stato di transe. E’ durante questa prima cerimonia che si effettua subito il bagno, quindi il cambio degli indumenti e l’incoronazione (letteralmente la seduta sul trono) di cui abbiamo già parlato; il tutto di solito allo stesso tempo del lavaggio della collana: il bori, per questa prima incorporazione della divinità, operazione che, come si vede, è ancora un leggero preambolo, dato che la conferma del babalao non è ancora avvenuta. Tra questo primo incorporamento (della divinità) e l’ultimo, passeranno diversi mesi in cui ci saranno i “rituali di passaggio” per usare l’espressione di Van Gennep, prima di arrivare alla conferma di cui si diceva prima. E’ durante questo periodo di passaggio intermediario che si procede all’educazione della sposa dell’Orishà, come ormai viene chiamata la ragazza: yaò oppure yauò. La candidata conosce già i canti e le danze, poiché fin dalla più tenera età ha vissuto all’ombra del Candomblè, ha assistito alle feste e conosce bene i procedimenti ma deve approfondire la sue conoscenze e passare dal sapere empirico a quello organizzato. Deve imparare delle parole nagò, i miti che spiegano la religione e familiarizzarsi con i doveri e gli obblighi del suo futuro incarico. E’ la “scuola della foresta” trapiantata dall’Africa a Bahia in Brasile. Il termine è esatto: uno dei miei informatori confronta il periodo che l’iniziata trascorre nell’aliachè con la scuola primaria e dice che l’insegnamento dura per tutta la vita. Se si vuole poi raggiungere gradi più elevati nella gerarchia si deve frequentare una scuola secondaria… Durante questo periodo il corpo della yauò è, come del resto lungo tutte le tappe di questo passaggio in cui una personalità è morta senza essere rimpiazzata da una nuova, in un tale stato di vulnerabilità che ha bisogno di tutta una serie di eho (tabù) di cui alcuni dovranno essere rispettati per tutta la sua vita come, ad esempio, certi cibi proibiti del suo Orishà; altri tabù non dovranno più essere osservati passato un certo periodo. Si tratta di interdizioni di ordine alimentare, ma soprattutto sessuale. Durante tutta l’iniziazione si deve rimanere “puri di corpo” cioè non avere alcuna relazione con uomini. Ancora una volta, tra parentesi, si sfata la leggenda ancora presente presso i bianchi secondo la quale l’aliachè è la stanza delle orge e il babalorishà, approfittando dello stato di sottomissione e incoscienza di quelle ragazze, abusi di loro. Se dei fatti simili sono accaduti, ed è possibile che si, si è trattato forse di terriero in disfacimento e non di certo di quelli tradizionali. Lo stesso babalorishà avrebbe troppa paura, violando un tabù, di attirarsi la collera divina per cui la punizione sarebbe immediata. Le giornate si susseguono: al mattino, alle prime luci dell’alba, la yauò accompagnata dalla “piccola madre” si avvia a prendere il suo bagno alla fonte sacra, in modo da evitare incontri spiacevoli. Lì si sveste completamente mentre la “piccola madre” la friziona con il “sapone della Costa”. Finite le abluzioni rientra nel santuario per apprendere i segreti del Candomblè. Il termine “segreto” non è poi la parola così esatta perché non si tratta di insegnamenti esoterici, le si insegna unicamente quello che il suo futuro stato di “figlia di santo” vorrà dire. La ragazza partecipa alla confezione delle vesti liturgiche che indosserà al momento della cerimonia di uscita, abiti che sono custoditi nel terreiro. A volte la monotonia delle giornate è interrotta da cerimonie come quella della conferma del nome dell’Orishà padrone della sua testa. Tutta questa parte dell’iniziazione, così come quella che seguirà subito dopo è posta sotto il segno di Oshalà, poiché si tratta di un rituale di creazione, di modellare una nuova personalità e Oshalà è giustamente il dio della creazione, è a lui che è stato dato il compito di fare la terra e il mare dalla divinità suprema Olorun; Oshalà però non è riuscito a compiere del tutto la sua opera avendo bevuto troppo vino di palma durante il suo viaggio e non ne è uscito che con l’aiuto di Ododua, uno dei creatori del mondo, ma è in tutti casi lui solo che ha fatto l’uomo che lo abita, che ha formato la prima coppia: Okikischi e Iffe ed è dunque Oshalà che presiederà a tutta la parte dell’iniziazione che segue i riti preliminari dell’entrata nel Candomblè e la sua importanza è simboleggiata dal fatto che la ragazza indossa vestiti bianchi, e il bianco è il colore di Oshalà. Terminato il periodo di tirocinio, confermato l’Orishà, non resta che “fissare” più saldamente e definitivamente il dio alla testa. Si incomincia, come nella prima parte, a offrire sacrifici a Eshù e agli Eguns; il cranio della ragazza è quindi completamente rasato con un coltello “vergine”, sovente la depilazione è completa; non solo i capelli ma le ascelle, il pube e tutte quelle parti del corpo che possano permettere al dio di entrare attraverso qualsiasi orifizio. Così affermano alcuni abitanti di Bahia, ma io penso che sia più logico dire che, così riportata a una condizione infantile, la ragazza diventi simile a una creatura pronta per nascere a nuova vita. Questo

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pensiero mi è venuto dal fatto che ho visto delle ragazze nella camarinha, nel preciso momento dell’iniziazione, sdraiate per terra, avvolte in un velo bianco che, stranamente, assomigliavano a delle larve in attesa del momento della loro metamorfosi e cioè nel diventare farfalle. Dopo la depilazione si procede al lavaggio della testa con infusi di erbe; altre erbe sono infilate nella bocca della ragazza per essere inghiottite. Il lavaggio è molto importante perché è quello che determina la possessione. La preparazione degli infusi è gelosamente custodita come un segreto. Manuel Querino afferma che nella preparazione ci sia la maconha (o liambà), può darsi. Molte volte ho visto anche del succo di jurema che avevano dei sacerdoti (che però erano di etnia Bantù). Sia l’una che l’altra pianta hanno effetti tossici e agiscono sul sistema nervoso. Non basta però che la yauò sia posseduta, bisogna che lo sia anche il padrone della sua testa. E’ per questo che l’infuso cambia sovente il dio, ogni dio ha le sue foglie speciali. Questa precauzione non è ancora ritenuta sufficiente: sul cranio liscio viene disegnato con l”efum” (polvere bianca sciolta in acqua) un disegno simbolico della divinità. E’ questa la ragione dell’importanza, giudicata primaria dai sacerdoti, dell’ efum. Il rito, in qualche modo, individualizza la forza divina che si scatena nel corpo della paziente. Nina Rodriguez ci da una buona descrizione di questo disegno: “il disegno vuole rappresentare un elmo con raggi divergenti che partono da un primo cerchio tracciato sulla parte superiore del cranio e che vanno verso l’esterno, concentrici nel primo cerchio, altri di diametro gradatamente più grande si susseguono a breve distanza fino al limite massimo della circonferenza della testa”. Bisogna specificare che il cerchio superiore delimita il punto attraverso il quale passerà il dio per prendere definitivamente possesso del suo cavallo. Altri disegni vengono tracciati, come io stesso ho visto, ad esempio, la doppia ascia di Shangò o l’arco e le frecce di Oshossi. Si uccidono poi degli animali a due zampe il cui sangue sarà sparso sul capo e le spalle della ragazza e, quando si sarà coagulato, cosparso con le piume dell’uccello. La yauò è, in quel momento, in uno stato tale di incoscienza cha si può impunemente incidere sulla sua pelle, con la lama di un rasoio “vergine”, dei tatuaggi della nazione a cui appartiene il Candomblè. Le figlie di Gegè hanno sulle braccia una croce e sette barre verticali. Quelle di Quetu una croce e tre barre verticali. E’ in questo momento che avviene la prima uscita pubblica, solo le persone già iniziate vi possono assistere. Ci permetteremo di riportare la descrizione di questa prima uscita prendendola dal racconto che ne fa Nina Rodriguez, poiché noi non abbiamo mai avuto l’opportunità di assistervi: “L’orchestra, composta da cinque tamburi e quattro calabasse (zucche)… L’invocazione al dio cominciava nella sala dove mi trovavo. A un segnale, o ordine, del direttore dell’orchestra i tamburi furono riuniti al centro della sala e, a lato fu posto un piatto di obi (noce di cola) e delle monetine, così pure un vaso contenente l’acqua del dio presa dal santuario. Il direttore si alzò fece un piccolo inchino piegando il ginocchio sinistro e si concentrò come se pregasse. Poi prese il vaso lanciando un po’ d’acqua su ogni lato dei tamburi, prese poi una manciata di obi e se la mise in bocca, la masticò e poi rivoltò i tamburi e sputò su ognuno di essi dell’obi masticato. Fece un processo analogo con le zucche e poi fece girare il piatto con l’”obi” tra tutti i musicisti che , presa anche loro una manciata di noci, se la misero in bocca e la masticarono. Musica e canti incominciarono quindi a invocare e chiamare il dio”. La candidata, sotto l’effetto di quel richiamo musicale, ricade nello stato della possessione da cui era uscita un po’ prima solo per entrare nello stato detto di erè (di cui parleremo più a lungo in seguito). La crisi può essere più o meno violenta ma è meglio che non lo sia troppo a quel punto del cerimoniale. Se fosse troppo drammatica vorrebbe dire che il lavaggio della testa è stato troppo forte, in quel caso, come mi diceva un informatore, bisognerà modificare la composizione (dell’infuso) e aggiungere delle foglie che stemperino la potenza delle prime. In tutti i casi, il babalorishà se vede che la transe è troppo pronunciata, “manda via il dio” immergendo le mani nell’acqua fredda (come abbiamo già accennato gli Orishà aborrono l’acqua fredda) e tocca la testa, i seni, la nuca e i piedi della yauò. “L’atto di mandare via il dio è un momento pericoloso, si deve vigilare, affinché una persona malintenzionata non approfitti dell’occasione per dare un piatto o una bibita contrarie alla divinità della candidata, altrimenti questa perderà l’uso della parola, non avrebbe più controllo sulla sua testa e si darebbe all’abuso di bevande alcoliche”. La seconda uscita ha luogo nove giorni dopo seguendo sempre lo stesso rituale, con la sola differenza che, questa volta, l’efun si fa con della polvere blu e rossa invece della creta bianca.

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La terza uscita che si farà il diciannovesimo giorno dopo è preceduta dal gran bagno di sangue, il sundidè degli Africani e, questa volta, come noi abbiamo visto, non si tratterà più di sangue d’uccello ma di quello di bestie a quattro zampe. I tamburi suonano fuori dell’aliachè, tutte le porte sono chiuse, non si può assolutamente vedere quello che succede dentro. Alla yauò viene versato sul dorso nudo il sangue di una capra o montone che schizza dalle teste tagliate. Le si fa sulla sommità del capo, un piccolo buco con un coltello vergine, esattamente dentro il cerchio che le era stato disegnato prima. Tutto ciò avviene, ben inteso, nella completa incoscienza della ragazza. Questa è la discesa nelle tenebre più spesse, nella notte totale dello spirito. Il corpo è poi dipinto con polvere bianca dalla punta della testa al pube, braccia e avambracci compresi, ma questa volta l’efun è disegnato in piccoli cerchietti rossi in forma di pallini. A che cosa si deve questo cambio di disegno? Se mi si permette una supposizione: i pallini bianchi sono in Africa una delle caratteristiche di Oshum e Oshum è la dea dell’amore, non sarà forse che questo sia il mezzo per manifestare simbolicamente che la fabbricazione della nuova personalità da parte di Oshalà è terminata e che il momento del suo poter procreare è arrivato? Forse è una semplice supposizione la mia che non mi è mai stata confermata, ma se è Oshum la dea dell’amore voluttuoso e le donne sterili la pregano per avere figli, questa potrebbe essere la spiegazione del rito. Quest’ultima uscita che segue il bagno di sangue e l’apertura del buco sul cranio che indica il cammino attraverso il quale passerà l’Orishà, ogni volta che vorrà manifestarsi, si chiama “il dono del nome”. Il dio della persona è stato infatti spedito in Africa per cercare il nome della nuova personalità che sta per nascere. Si sa che ogni cambiamento di personalità si traduce in un cambio di nome. La babalaò o il babalorishà verificano se il nome portato dal continente nero è adeguato, bisogna che ci sia identità tra la risposta d’Ifa e l’intuizione della yauò in stato di transe. Questo nome comporta sempre tre parole, ad esempio: Shangò Atara Mozambi Il primo nome è quello generico del dio, ma la divinità assume delle forme multiple per cui bisogna scoprire di quale Shangò si tratta e questa è la funzione del secondo appellativo. Il terzo determina la regione di provenienza e, nell’esempio che riportiamo qui, inaspettatamente, questa regione è niente di meno che il Mozambico! La cerimonia del “dono del nome” o, in africano: òrunkò è pubblica e di una grande bellezza: ecco l’entrata rituale della novella iniziata avvolta da un grande velo bianco, ala che forma su di lei come una cupola trionfale. La folla è assiepata in torno e getta fiori sul corpo della giovane ancora tutta tremante e scossa da convulsioni divine. Il corpo della yauò è piegato ad angolo retto, le braccia penzolanti con le mani che quasi sfiorano la terra, esattamente come un bimbo appena nato e che non ha ancora la forza di assumere la posizione eretta. Due ekedy sostengono i suoi passi malfermi, l’uno a destra e l’altro a sinistra e asciugano con un lino bianco il sudore che cola dal suo viso. Le yauò appena iniziate fanno tre apparizioni successive quella stessa sera e queste tre apparizioni condensano e riassumono simbolicamente l’insieme del cerimoniale dell’iniziazione. Durante la prima indossano il vestito di tutti i giorni e questo vuole ricordare il passato che esse stanno lasciando andare, nella seconda giornata sono vestite di bianco e questo simbolizza la loro nuova creazione appena conclusa, come si è detto, sotto il segno di Oshalà. Nell’ultima apparizione invece, indossano ognuna il costume liturgico proprio del loro Orishà, affermando con questo che esse incarnano ormai quel dio dentro la loro testa. E’ durante quest’ultima entrata nel salone del ballo che il babalorishà, oppure la “piccola madre” le prendono una dopo l’altra per farle girare su se stesse. Allora, improvvisamente, i corpi si raddrizzano, il cavallo fa salti alti nell’aria e, tra gli okè, gli applausi e il rullio festoso dei tamburi, ognuna grida alla folla il suo nuovo nome di sposa della divinità. E’ ovvio che, dopo uno sposalizio così mistico, non è possibile ritornare bruscamente al mondo profano. Durante l’iniziazione la vecchia personalità è stata spezzata, distrutta e annichilita per essere rimpiazzata da una nuova. Questo nuovo “io” non sa nulla del mondo in cui, da adesso in poi, dovrà vivere. Si tratta ora di impararlo, d’altra parte, questa nuova personalità appartiene a colui che la ha fabbricata, il babalorishà o la Ialorishà, ma bisognerà pure essere reintegrati nella società ordinaria e rientrare nella famiglia d’origine. In ultimo, l’iniziazione

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costa cara, diverse decine di migliaia di franchi ci saranno da pagare. Si procede allora alla cerimonia del panan che ha luogo la domenica più vicina e che risponde a questa triplice finalità: riappropriamento della vita quotidiana, passaggio dalla società religiosa alla società domestica, una vendita di oggetti e un contributo della collettività alle spese e al prezzo del rituale. Questa nuova cerimonia che conclude il ritmo dell’iniziazione ci fa passare, in qualche modo, dalla tragedia alla commedia. Benché sia una cosa seria (la transizione da una realtà ad un’altra è certamente qualcosa di serio che va fatta secondo le regole per essere effettiva) questa cerimonia permette alle yauò di manifestare in pubblico quel delizioso senso dell’umorismo africano che non è ancora stato studiato a fondo. In questa cerimonia del panan si possono distinguere tutta una serie di rituali; per primo, re introducendo le figlie degli dei nel mondo, bisognerà far loro comprendere, innanzi tutto, che esse non smetteranno di appartenere per questo al Candomblè e che i sacerdoti, non tanto perché sacerdoti, ma come rappresentanti della divinità, devono essere sempre rispettati e obbediti. E’ il rituale della fustigazione. Così i diversi dignitari del terriero frustano, simbolicamente, la yauò. Il riappropriarsi delle attività quotidiane avviene in quel primo momento: la yauò lo fa con l’aiuto di qualche gesto rappresentativo come: cucinare un piatto, lavare un panno sporco, fare il mercato, dedicarsi alla toilette personale, simulare l’atto sessuale, il dormire, cullare un bambino, passeggiare in città con suo marito, spazzolare gli abiti al rientro a casa, fumare persino una sigaretta…, ascoltare la radio o andare alla messa cattolica. La terza parte del panan è “l’acquisto” della ragazza da parte della famiglia. Herskovits descrive questa cerimonia come una specie di “caccia” al padre, il marito o un ogan del terriero soprannominato: “lo schiavo di Ogun” senza dubbio per manifestare il carattere guerriero del rituale che è una specie di persecuzione o razzia. Ma il padre o il marito , prendendo così possesso della yauò, devono prima di tutto riscattarla, donando una somma, convenuta in anticipo, al sacerdote capo del Candomblè. Questo acquisto può avere così una forma di offerta fittizia. Qui di seguito, nella descrizione che ne fa Manuel Querino, c’è il momento in cui, mescolandosi alla gente del mercato, i o il parente della ragazza fa la raccolta di fondi per il riscatto: "Si allestisce un negozio ben assortito di frutta, carni, pesci, legumi, utensili di uso domestico come, ad esempio, ferri da stiro, gavette, legna o carbone ecc..". Inoltre sono esposti oggetti fabbricati dalla yauò stessa durante il suo periodo di reclusione; acquistando questi oggetti, al medesimo tempo si acquista la ragazza, o meglio, se la vendita è fatta a parte, questa serve a pagare una parte delle spese dell’iniziazione. Naturalmente questo riscatto della nuova figlia degli dei lo possono fare soltanto il padre o il marito (se la ragazza è sposata), o il fidanzato se le nozze sono vicine. Solo nel caso che la ragazza sia orfana o troppo giovane per prendere marito, un’altra persona potrebbe pagare il prezzo ed acquistare così il diritto di prenderla. In quest’ultimo caso, chi l’acquista deve essere una persona già conosciuta ed autorizzata dal babalorishà sia per la sua moralità che per la sua situazione finanziaria. C’è un altro aspetto del panan che ben caratterizza il suo ruolo di rito di transizione e che a me sembra, tutto sommato, essenziale; mentre nelle altre cerimonie pubbliche di iniziazione la ragazza è in stato di transe, qui lei sembra in uno stato detto di èrè, che è una specie di estasi calma e infantile. L’èrè è qui considerato come una forma intermediaria tra la possessione da parte dell’ Orishà e lo stato normale. Questo dimostrerebbe che la divinità è in via di lasciare il suo cavallo progressivamente. Quando la cerimonia sarà terminata, la ragazza sarà pure lei ritornata alla sua piena coscienza, ma passerà ancora una notte nel Candomblè. In seguito, e con gran pompa, la si accompagnerà da colui che la ha acquistata. Comunque per un anno intero lei resterà un essere “marginale”, appartenendo sia a chi la ha acquistata, ciò vuol dire alla sua famiglia legale, sia al sacerdote che la ha fatta. Questa sottomissione al babalorishà è simbolicamente rappresentata da una collana speciale detta kèlè che la ragazza deve indossare, questa collana è volgarmente chiamata “cravatta dell’Orishà”. Dopo un anno, o in certi terreiros più tolleranti solamente dopo tre mesi, la ragazza va a deporre la collana ai piedi della pietra del suo dio, nel corso di una cerimonia che può anche essere pubblica. Ciò non significa che lei cessi d’obbedire ai sacerdoti del Candomblè, ma questa obbedienza si restringe al solo cerchio delle obblighi religiosi, perché lei è adesso completamente “libera” nella sua vita “civile”. Infatti, come abbiamo visto prima,

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durante il suo soggiorno nell’aliachè, la ragazza non apparteneva più a se stessa e il rumore che faceva lo shaòrò legato alla sua caviglia era il suono sonoro del fatto che la sua sottomissione era completa sia fisicamente che spiritualmente a colui il quale l’aveva fatta. Questa sottomissione era troppo forte perché potesse cessare d’un sol colpo e, così come da uno stato di transe la ragazza passa a quello di èrè prima di ritornare al suo stato normale, così l’appartenenza al suo creatore si dilegua poco a poco. L’abbandono del kèlé non è che l’ultima tappa di questa progressiva liberazione. Tutti i Candomblè hanno una loro riserva di figli e di figlie, che possono un giorno farsi iniziare oppure occupare delle funzioni importanti dentro della setta, senza necessità di ricevere il loro dio e costoro sono chiamati abià. Gli abià fanno parte del Candomblè, hanno praticato i riti del lavaggio della collana e del bori. Li classificheremo quindi in un gradino più basso della gerarchia sacerdotale. Quando la cerimonia dell’iniziazione è compiuta, o si è yauò o sposa di dio. Quindi un gradino superiore certamente ma non l’ultimo. Nel corso della sua vita questa yauò attraverserà effettivamente tutta una serie di metamorfosi, delle quali ognuna segnerà una più ampia conoscenza dei “segreti” della setta. Dopo sette anni lei diventerà vodum e questa promozione sarà resa pubblica per il fatto che lei indosserà una collana speciale : la rungèfè fatta di perle rosse e grani di corallo intrecciati se lei appartiene alla setta gègè (dahomèenne), oppure ebòmin se fa parte della “nazione” nagò. Solamente a quel punto e cioè quando la ragazza è diventata ebòmin, potrà essere scelta per occupare una funzione ben specializzata dentro del santuario, più importante del ricevere il dio, che le conferirà un’autorità superiore a quella della semplice yauò. Può diventare dagã o, se è di grado più giovane, sidagã, specializzata nella preparazione del padè di Eshù; può aiutare i sacerdoti durante il servizio religioso come iyà mèrò, può essere inviata alla cucina per preparare degli alimenti speciali delle diverse divinità e diventare così iyà bassè. Se poi ha una bella voce e buona memoria, potrà diventare iyà tèbèshè e prendere l’iniziativa di scegliere i canti e lanciarli ai musicisti e ai danzatori, sia nelle feste pubbliche che in quella private. La iyalashè ha, secondo me, un’importanza ancora maggiore, poiché, così come indica il suo nome, è lei che ha cura dell’ ashè, cioè delle pietre sacre del pegi, degli alimenti che vengono loro offerti (alimenti che restano li una settimana prima di essere sostituiti) e della pulizia del santuario. Durante questi lavori può farsi aiutare e servire dalle yauò, ma la responsabilità è esclusivamente sua. Così pure, se il sacerdote capo o la sacerdotessa suprema non si trovano nel Candomblè, è lei che se ne occuperà risiedendovi e che diventerà, in qualche modo, l’amministratrice. Sopra tutte, però, c’è la “piccola madre”, o sacerdotessa in seconda, in africano: iyà kèkèrè o jibonam. Ella sostituisce la “madre” in caso questa abbia qualche impedimento e, in qualche caso, ma non obbligatoriamente, può sostituirla dopo la sua morte. Se il Candomblè è diretto da un uomo invece che da una donna, da un “padre” invece che da una “madre”, il suo ruolo è ancora più essenziale. E’ la iya kèkèrè che si occupa dei candidati all’iniziazione, che li accompagna al bagno mattutino, li lava con il sapone africano, taglia i capelli con le forbici, depila il corpo, traccia lo efun ecc. Come si è visto finora, non ho parlato che delle ragazze che sono infinitamente superiori, come numero, agli uomini, tuttavia ve ne sono anche di questi. Generalmente sono i bambini che si trovavano nel ventre delle loro madri al momento dell’iniziazione, essendo essi iniziati per “partecipazione” al corpo della genitrice. In tutti i casi, anche se il grado di “piccola madre” è ancora più importante quando il terriero è diretto da un uomo, in quelli in cui a dirigere sia una donna ci vuole sempre un uomo per aiutarla, il padrone della casa detto: pegi-gà. Questo ruolo può anche essere ricoperto da una persona che non abbia ancora praticato il rituale dell’iniziazione e alla quale si da il nome di: ogan. Gli ogan sono di due tipi: alcuni sono scelti unicamente per la loro situazione sociale e finanziaria, sono dei protettori della setta, faccia a faccia con le autorità costituite e la difendono contro eventuali incursioni della polizia e, in caso di bisogno, aiutano la setta con le loro proprie finanze. Ma dal loro nome stesso: ougangas (in Gabon significa prete) ritengono qualcosa della origine sacerdotale, costituendo una sottospecie sacerdotale. Ad esempio, il

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pegi-gà di cui ho detto prima, che è il presidente del Consiglio di amministrazione del Candomblè, il responsabile del suo pegi- l’ ashògun che è il sacrificatore - l’ alabè che suona il rum e dirige l’orchestra. Ciò che definisce l’ ogan in opposizione ai figli degli dei non è per il fatto che egli non ha un Orishà (ognuno di noi ne ha uno) ma perché non ne può essere posseduto. In effetti, in tutti i Candomblè ci sono, obbligatoriamente, sia una confraternita di figlie estatiche, che un insieme di persone che non possono, in alcuna maniera, cadere in transe. Gli ogan per quanto riguarda i maschi e le ekedy per le femmine. Quest’ultime, come abbiamo già visto, sono incaricate di aiutare le ragazze in transe durante le cerimonie pubbliche. Infatti, come potrebbero procedere i rituali con l’ordine e la sicurezza necessari se, improvvisamente, una ekedy invece di curare il cavallo di cui è responsabile, si rotolasse per terra, vicino alla ragazza, scossa da movimenti convulsi, oppure se l’alabè abbandonasse per un momento l’orchestra e si mettesse a danzare in mezzo alla folla? Se l’ ogan come pure l’ ekedy non possono cadere in transe, c’è tuttavia, a parte la differenza del sesso, qualcos’altro che li contrappone ed è la loro relazione antitetica con le yauò. Ogni ogan è, in effetti, legato ad una ragazza del suo stesso dio e che è la “sua” ragazza, a cui lui, di conseguenza, da aiuto e protezione e, per contro, ne riceve rispetto e sottomissione. L’ ekedy, invece è la serva, la domestica pietosa e paziente con la sua yauò. Sia Manuel Querino che io stesso abbiamo descritto dettagliatamente il modo in cui l’ ogan è incorporato alla setta. Notiamo che non è il sacerdote che lo sceglie ma è la divinità che lo designa, nel corso di una cerimonia pubblica, con l’intervento della yalorishà o di una ragazza in stato di transe. Il futuro ogan è allora festeggiato dall’assemblea e portato in trionfo. Egli si può rifiutare se pensa di non essere all’altezza del suo futuro incarico; se accetta deve rimanere per tre giorni all’interno del Candomblè per ricevervi una iniziazione speciale (un tempo rimaneva per tre giorni interi, oggigiorno è possibile che, se ha delle occupazioni professionali, vada in città durante il giorno ma torni a trascorrere la notte nel santuario). La festa dell’ “incoronazione” avviene più tardi, a volte anche dopo sei mesi, e comprende obbligatoriamente la confezione di una sedia sulla quale lui si siederà. L’importanza di questo rituale è pari a quella della “incoronazione” della yauò la quale deve anch’essa sedersi su di un banco nuovo nel momento dell’entrata nel Candomblè così come era il culto praticato in Africa, dove si preparavano i troni regali. Al di sopra degli ogan ci sono, nel Candomblè de Ashè de Opo Afonjà, 12 oba o ministri di Shangò. Questi ministri, scelti tra gli ogan più vecchi e stimati del terriero sono tuttavia una creazione piuttosto recente, da dopo Martiniano de Bomfim, ritornato dall’Africa, dove era stato iniziato al suo incarico di babalaò. Lui stesso lo ha raccontato, dopo avere rammentato la sequenza dei re di Oyo, la rivalità di Shangò con Timin e Gbonkà e come Shangò è diventato dio e poi così continua: I due rivali (Timin e Gbonkà) che avevano provocato la sparizione di Shangò, ritornarono alla loro terra di origine. I ministri di Shangò, i mangbà, istituirono il culto dell’ Orishà... Qualche tempo dopo si formò un consiglio di ministri incaricati di mantenere vivo il suo culto. Questo consiglio fu organizzato con i dodici ministri che l’avevano accompagnato sulla terra, sei a destra e sei a sinistra. Quelli della destra erano Abiòdùn (discendente del re Abiodun, principe), Onikòyi, Arèssà, Onanshòkùn, Obà Tèlà e Olugban. Quelli di sinistra: Arè, Otun Onikòyi, Otun Onanshòkùn, Ekò, Kàbà Nnfò e Ossi Onikòvi. Questi ministri – antichi re, principi o governatori dei territori conquistati dal coraggioso Shangò – non hanno voluto che la memoria dell’eroe si spegnesse nelle generazioni che seguivano. E’ per questo che, nel Centro “Sainte Croix du Achè de Opò Afonjà” di St. Goncalves du Retiro, si è celebrato quell’anno la festa dell’incoronazione dei dodici ministri di Shangò, scelti fra gli ogans più vecchi e prestigiosi del Candomblè. I riti dell’incoronazione costituiscono, in qualche modo, i riti di incoronazione di ogan di secondo grado. La loro iniziazione è, di conseguenza, più lunga. Quanto alla loro funzione, questa non è molto chiara, ma, vista la spietata lotta che ha loro fatto l’attuale Ialorishà, figlia di Oshum, fino a farli piegare a forza ai suoi ordini, si può dedurre, senza rischio di sbagliarsi,

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che la loro principale finalità, dal punto di vista spirituale, era quella di vegliare sulla grandezza del culto di Shangò ed è per questa ragione che una sposa di Oshum non poteva accettare il loro incarico senza soffrirne, dato che per lei Oshum è superiore a Shangò. Bisogna poi aggiungere che, a parte questa funzione spirituale che ne fa i successori brasiliani dei mangbà o sacerdoti di Shangò, essi costituiscono, dal punto di vista materiale e civile, il consiglio d’amministrazione de: l’Ashè de Opo Afonjà. Un informatore me li descriveva come dei “custodi dell’harem”, ma bisogna fare bene attenzione al significato di questa espressione: ciò non vuole dire in alcuna maniera che si abbia un diritto sessuale sulle “figlie degli dei” ma solamente un rapporto come quello che ha una figlia del medesimo Orishà con il suo ogan; come pure gli oba hanno sotto di loro l’insieme delle figlie che appartengono alla loro stessa divinità. Tra i privilegi di questo incarico possiamo citare quello di scuotere l’ ashè o zucca di Shangò; e, dopo la loro morte, resuscitare, sette giorni dopo, sotto forma di Egun, per dettare le loro ultime volontà. Ogni oba del lato destro ha un sostituto che lo rimpiazza in caso questi ne sia impedito e che gli succede dopo la sua morte; ed è il suo otun (o ministro del lato sinistro). Tutte queste funzioni di cui abbiamo parlato comunque non esauriscono affatto la ricchezza e la complessità del rituale sacerdotale di Bahia. Finora non abbiamo parlato che degli incarichi più consueti, indispensabili per il buon andamento dei culti e che si trovano più o meno dappertutto. Ci sono, tuttavia, altri incarichi o titoli sacerdotali che si trovano solo nei Candomblè più puri e più rigorosamente tradizionali ma non possiamo sapere se tuttora hanno dei titolari. Abbiamo l’impressione che molti di questi incarichi possano rimanere per anni non attribuiti, in attesa del volere degli dei oppure per caso. Possiamo fare, tra gli altri il nome di Ojuoba “l’occhio del re” che è legato a Shangò e che conferisce il privilegio di agitare lo shèrè; un altro ancora più importante: wessa (soprattutto nei terreiros diretti da donne) che saluta le divinità, canta le loro lodi (deve, per questo, conoscere gli oriki che sono i canti di lode africani degli Orishà) e che presiede ai sacrifici. Un altro ancora: iyanaso, che dirige il culto speciale di Shangò. La prima Candomblè conosciuta a Bahia era già nel palazzo de l’Alafin à Oyo, ridotta in stato di schiava e portata in Brasile dove doveva fondare il Candomblè di Engenho Velho. Al di sopra di tutti si trova il babalorishà, o padre degli Orishà, il sacerdote supremo, se la setta è diretta da un uomo – la Ialorishà, o madre degli dei, la sacerdotessa suprema, se la setta è diretta da una donna. Il babalorishà è il capo del culto e, per questo, ha autorità su tutti i fedeli, persino di frustarli se mancano ai loro doveri. E’ lui che prepara gli oggetti sacri, che dirige le feste pubbliche o private, che individua le divinità al loro manifestarsi, che controlla i sacrifici e le iniziazioni, che getta l’ oubi (e a volte le conchiglie) per conoscere la volontà degli Orishà. Se le figlie della setta si bisticciano deve ristabilire l’ordine e la buona armonia tra di esse, se hanno dei problemi le consiglia e le dirige, per cui, nonostante sia il capo spirituale delle yauò, per via della sua autorità morale, egli si intromette amichevolmente anche nella loro vita privata, dirigendo i loro affari. Ha pure un compito come guaritore, se la malattia ha un’ origine mistica o soprannaturale , per esempio se questa è la conseguenza della violazione di un tabù o se si tratta di un malefizio di qualche macumbeiro o stregone. In questo caso bisogna procedere con un bori per fortificare la testa oppure a un “cambiamento di testa” che è un rituale di contro-magia, (che consiste nel fare passare la malattia su di un animale fregandolo contro il corpo del paziente e poi subito scacciandolo a modo di “capro espiatorio”). Poiché i babalorishà sono più numerosi che le Ialorishà a Bahia, essi dominano soprattutto sulle sette Bantus; nelle sette yoruba, che ci interessano qui, sono soprattutto le Ialorishà che presiedono alla vita del Candomblè. I loro compiti sono identici a quelli dei babalorishà, ma siccome esse non possono fare certi gesti, puramente mascolini, sono obbligate ad avere a lato un pegi-gà o un wèssa. Nella società africana oltre ad avere un’autorità assoluta sui membri della confraternita religiosa che essi dirigono, questi sacerdoti e queste sacerdotesse supremi hanno pure dei reciproci doveri verso di essi come l’assistenza pecuniaria e morale, per cui il Candomblè costituisce, in piena città di Bahia, una vera e propria società di mutuo soccorso, di aiuto fraterno, che fa perdurare lo spirito comunitario africano. Il termine convento che a volte si attribuisce a questi gruppi calza perfettamente. E’ obbligatorio che sia i babalorishà che le Ialorishà siano scelti tra gli ebòmin, o i figli di dio che abbiano almeno sette anni di anzianità

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dalla loro iniziazione; questo significa che anche essi ricevono gli Orishà e che cadono in transe nel corso delle cerimonie pubbliche il che li distingue ancor più nel loro rango dentro della gerarchia degli ogan, oba e altri funzionari del culto. Il loro incarico non si tramanda però di padre in figlio o di madre alla figlia nell’interno della stessa famiglia. Sono piuttosto le divinità che, per mezzo dell’intervento di Ifa, li designano, oppure il sacerdote morto, risorto sotto forma di Egun, al compirsi sette anni, che indica il suo successore. In questo tempo intermediario il culto passa sotto la direzione della “piccola madre”. Babalorishà e Ialorishà godono di un giusto prestigio nella società africana e questo prestigio aumenta con l’età, il numero di anni di servizio, la profonda conoscenza dei miti e dei rituali ed anche per la purezza della loro ascendenza africana, così come il loro contatto, attraverso la tradizione orale, con i templi africani da dove sono venuti i primi sacerdoti introdotti in Brasile e che sono stati i loro predecessori. Bisogna dire che l’ascesa nella gerarchia dipende, in effetti, dalla appartenenza più o meno completa alla civiltà africana, al suo tesoro di conoscenze accumulatesi nel corso degli anni e per provare a staccarci dalla nostra metafisica yoruba, è a loro che occupano i gradi più alti dentro della setta, che noi dobbiamo rivolgerci. Queste persone sono, generalmente, molto intelligenti, fini, educati, raffinati e di una stupefacente memoria. Noi siamo sempre stati accolti da loro come dei figli, ma, proprio per questo, il transfert di queste conoscenze obbedisce forzatamente alla legge africana. All’inizio, come abbiamo già detto, questo transfert non si può fare se non progressivamente e dentro i limiti che si occupano all’interno del Candomblè da parte di chi sta facendo un ‘inchiesta, ogni nuova conoscenza obbliga chi ne è entrato in possesso a dei nuovi incarichi o, se si preferisce, a dei nuovi obblighi, che possono essere di natura finanziaria e si arriva così alla seconda legge. La vita religiosa è dominata dalla reciprocità e dallo scambio. Alcuni Bianchi non lo capiscono e considerano i babalorishà o le Ialorishà come delle persone abili che si approfittano della superstizione popolare per arricchirsi. Non neghiamo che ciò possa accadere in certi terreiros Bantous o Candomblè de cabocles, ma si tratta di sette in netto disfacimento e che sono violentemente respinte da quelle veramente “Africane”. L’informazione è un dono e, come tutti i doni, ha bisogno di un riscontro senza il quale si verificherebbe una rottura nelle relazioni sociali e forse anche nel mondo. Il riscontro, che in questi Candomblè non è quasi mai del denaro vero e proprio, ma un taglio di stoffa, un animale da offrire in sacrificio, una collana ecc., compensa della perdita della sostanza, se così si può dire, di colui che ha donato una parte del “segreto” e ristabilisce l’equilibrio perduto. Se questa offerta di scambio è un animale colui che sta conducendo l’inchiesta è legato all’ Orishà il quale può perfino punirlo se egli fa cattivo uso di quello che ha saputo, oppure può dargli il permesso di servirsene (poiché anche lui ha ricevuto con il sacrificio il suo dono di contraccambio) – se si è trattato di una collana o di un taglio di stoffa, che sarà poi utilizzato dalle yauò, egli entra così in più stretto contatto con la comunità religiosa, cosicché la trasmissione orale si giustifica, proprio perché chi fa l’inchiesta è entrato a far parte di quella società. Siamo ben lontani, come vedete, dalle interpretazioni dei Bianchi che giudicano, con la loro mentalità occidentale, condizionata dalla legge del profitto e della vendita di tipo capitalistico. La necessità del compenso nel transfert della conoscenza prova al contrario che la ricerca intrapresa di scoprire l’Africa in Brasile è cominciata bene, poiché già ai primi passi di questa inchiesta ci troviamo subito di fronte a un aspetto della mentalità africana. Solo con la morte si spezzerà questa doppia solidarietà dell’individuo con il suo Orishà e con la società africana. Le cerimonie per la persona defunta sono chiaramente diverse secondo il grado di quest’ultima, ma, contrariamente a quanto riportano le cronache giornalistiche a proposito dei funerali, la pompa con cui questi sono condotti non è un semplice omaggio alla celebrità del defunto o a quanto egli fosse stimato, ma la complessità del rituale, degli apparati decorativi e la durata delle cerimonie sono imposte de uno statuto religioso. Più i legami con l’ Orishà erano profondi, più difficilmente verranno sciolti. Ad esempio, i tamburi non seguono il funerale di una Yauò, ma quello di una Ialorishà sì, perché, in quest’ultimo caso, è tutto il santuario che è in lutto, sia gli strumenti musicali che gli oggetti rituali e le persone vive. A volte la cerimonia del funerale dura tre giorni, a volte sette; questo dipende dall’origine etnica del Candomblè o dalla nazione, ijeshà, quetu o gègè a cui si riferisce.

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Il nostro compito però non è quello di descrivere qui questo cerimoniale in tutti i suoi dettagli come abbiamo fatto altre volte e il più a lungo possibile, ora ne indichiamo solo il significato dal punto di vista del Candomblè e dei suoi membri. Allorché la morte si avvicina ad un individuo l’ Orishà della sua testa fugge spaventato poiché gli dei temono Iku, la selvaggia mietitrice di uomini. E’ quello un segno della sua prossima sparizione, la sua impossibilità di cadere in stato di transe; ma quella partenza dell’ Orishà non impedisce alla divinità di rimanere ancora nei dintorni e, alla fine della veglia funebre, quando i portatori recheranno sulle spalle la bara uscendo dalla casa, potrebbe succedere che uno degli assistenti piombi al suolo in preda a una crisi di “santo bruto”. E’ il dio della morte che, per poter continuare ad essere adorato e servito, si è scelto un nuovo cavallo. Alcuni autori affermano che questo cambiamento di testa al momento della partenza del corteo funebre, oggi non si verifica più, ma altri informatori sono di parere contrario; diciamo quindi che la cosa può essere possibile ma non obbligatoria. Tutto dipende dallo stato in cui si trova lo spirito dell’ Orishà che è preso fra due sentimenti: la paura della morte che lo fa fuggire il più lontano possibile e il desiderio di avere un altro cavallo che perpetui il suo culto, non si può sapere quindi in anticipo quale di queste due tendenze finirà per prevalere. Il defunto, tuttavia, non è legato al suo dio solo per via del fenomeno della possessione, ma anche, e in modo certamente meno spettacolare anche se più continuo ed effettivo, alla sua pietra e agli oggetti sacri del suo pegi personale, oggetti che avevano valore solo per lui. Di questo ne abbiamo profusamente parlato prima e cioè della cerimonia di partecipazione attraverso il lavaggio e il sangue, per cui non ci torneremo più sopra. Questi oggetti saranno dunque posti nella bara a lato del defunto e tutto questo ben spiega frasi del genere che qui riportiamo scritte da Nina Rodriguez: “Nel cimitero del giardino dei Lazarèens, preferito dalle persone povere, si trovano, quando si riesumano le antiche tombe, vicino agli scheletri, innumerevoli feticci e idoli africani”. Ma il morto ha lasciato degli altri oggetti ancora, che non sono nella sua casa ma nella cerchia stessa del Candomblè; non sono di nessun uso per un’altra persona perché sono stati legati unicamente a chi è morto e sono, in qualche modo, una specie di “appartenenza”, degli elementi costitutivi della sua personalità. Verrà quindi fatto un despacho con questi oggetti liturgici dopo aver chiesto, con l’aiuto delle conchiglie, all’ Orishà o a Ifa il luogo dove questi indumenti, insegne ecc. devono essere abbandonati: in mare, acqua dolce, foresta…, i figli del terriero andranno quindi nel posto designato per gettarli e poi ritorneranno senza mai voltarsi indietro. Nel caso di un sacerdote o sacerdotessa suprema, teoricamente, dovrebbe essere tutto l’insieme del pegi ad essere così “abbandonato” e questo spiegherebbe la scoperta fatta all’inizio del XIX secolo, di mirabili sculture africane gettate sulla spiaggia dal mare stesso. Qui non è come per le ragazze, i cui effetti personali o “appartenenze” particolari sono eliminati. Nina Rodroguez afferma che, se il giorno del funerale l’ Orishà trova un nuovo cavallo, questi prende gli strumenti liturgici del defunto per cui il despacho si effettua solo in caso contrario. “Se l’ Orishà non trova nessuno che accetti la responsabilità di continuare il culto che praticava il morto, oppure se non trova nessuno dei presenti degno di questo onore, le insegne e gli ornamenti, gli idoli e gli altari sono portati, durante le ore morte, in misteriosa processione, dove ci sia dell’acqua corrente affinché il ruscello, il fiume o il flusso della marea li riporti in Africa dove (i Negri ne sono assolutamente certi) essi arriveranno.” Nulla ci permette di non crederlo: Il despacho secondo noi è una parte d’obbligo in tutto il cerimoniale funebre sia che l’ Orishà abbia trovato o no una “testa di ricambio”. La sepoltura in se stessa non è poi così interessante pur se conserva ancora certe caratteristiche africane, per esempio: il morto esige che i suoi portatori camminino in maniera esitante, un passo avanti e un passo indietro, senza che, per questo, il ritmo traballante sia legato a un rituale divinatorio come lo è in Africa e presso i Neri della Guyana: la ricerca di colui che ha scagliato la morte sul defunto. Ci possono essere scene di dolore, di persone che piangano, ma, nell’insieme, non si tratta di una cerimonia triste poiché quello che viene messo sotto terra è solo un corpo. L’ ori, cioè lo spirito, resta e si procederà in seguito alla sua espulsione. Il rituale chiamato ashèshè non ha altro scopo. Questo rituale potrebbe anche essere pericoloso e coloro i quali vi assistono sono tenuti a prendere delle precauzioni speciali come, ad esempio, portare al polso un braccialetto di paglia per non essere posseduti dall’anima del morto e neppure abbandonare il Candomblè funebre prima che l’espulsione sia terminata, per non rischiare di portare la morte con se in un’altra casa. Quando l’ ori se n’è andato per diventare Egun si dovrà fissarlo nella casa degli Egun del terreiro perché gli si

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possano rendere gli onori dovuti. In questo stesso momento interviene un nuovo sacerdote che oltrepassa i limiti dell’uno o dell’altro Candomblè, per cui torneremo su questo argomento. Se il morto è un babalorishà o una Ialorishà la cerimonia funebre non è finita, perché il sacerdote o la sacerdotessa suprema, nel corso della loro vita, hanno iniziato un gran numero di yauò e sono quindi a loro legati e c’è ancora un’ultima partecipazione da sciogliere, dopo quella dell’ Orishà e della testa che si disfa da se stessa durante l’agonia secondo la volontà del dio spaventato – dopo quella degli oggetti liturgici e del defunto – dopo quella dell’ ori e del corpo ed è la partecipazione sociale del sacerdote e della sua confraternita. Il sacerdote ha messo la mano sulla testa degli iniziati per fissarvi il dio e bisogna quindi “ritirare la mano dalla testa” poiché questa mano è la mano di un defunto e gli Orishà temono la morte per cui non potrebbe forse verificarsi che le yauò non potessero più cadere in estasi? In tutti i casi esse vanno ad appartenere ad un’altra autorità vivente e non possono rimanere figlie di un Egun! Purtroppo ci manca ancora una buona descrizione di questa cerimonia, non abbiamo su questo argomento che delle insufficienti informazioni da Manuel Querino che riporteremo, tuttavia, non avendone delle altre disponibili: Alla morte della madre o del padre del terriero una delle prime cerimonie d’omaggio in memoria del defunto consiste nel “togliere la mano dalla testa”. Colui che ha assunto la direzione del Candomblè stabilisce il giorno, di solito dopo la messa offerta all’anima del suo predecessore, per poter realizzare questo rito. Ogni persona fatta (cioè già iniziata) contribuisce con la somma di cinque mila reis, un rasoio nuovo, dei piccioni, dei polli, degli uccelli ecc. Nel giorno stabilito tutti si riuniscono nel del Candomblè, là l’individuo più anziano prende il rasoio offerto da uno dei presenti e procede con questo alla rasatura della testa. Mentre questo viene fatto si sacrifica uno degli uccelli il cui sangue viene sparso sulla testa depilata; le donne conservano questo sangue coagulato fino al giorno seguente o fino al lavaggio della testa. Questa operazione è necessaria e ha per scopo di impedire che la persona sia preda di un malefizio se non lo fa. Noi ci permettiamo di trarre alcune conclusioni: notiamo, prima di tutto, che il rituale è necessario ma, non tanto perché la yauò potrebbe incorrere in un malefizio, come pensa Querino, ma perché essa apparterrebbe ad un Egun, e questa appartenenza potrebbe recarle danno nel senso che potrebbe condurla alla morte per riunirsi con il suo capo spirituale. Notiamo che la sequenza dei riti segue un ordine inverso a quello dell’iniziazione: il lavaggio con il sangue precede quello con le erbe. Notava uno dei miei informatori, del mio stesso parere, che la scomparsa dell’ Orishà si fa nell’ordine inverso a quello della sua creazione, o fissazione, nel corso dell’iniziazione. Sono convinto però che il cerimoniale deve essere infinitamente più complesso di quello che è descritto nel testo e che le diverse specie di partecipazioni della yauò e del suo babalorishà devono essere separate le une dalle altre, incominciando dalle più forti fino alle più deboli. L’iniziazione faceva entrare l’individuo nel Candomblè mentre i riti funebri hanno la funzione di farlo uscire o, meglio, di incoronarlo sotto un altro aspetto: quello di Egun. Perché il “Candomblè è così, se mi si permette un’espressione cristiana, una comunione di Santi e non solo di esseri viventi. Chi studia il Candomblè non deve lasciarsi ingannare dalla sua mancanza di legami organici. Ogni setta o terriero è autonomo, sotto la dipendenza di suo padre e di sua madre i quali non riconoscono nessuna autorità al di sopra di loro stessi. Si tratta di mondi a parte, delle specie di piccole isole africane nel mezzo d’un oceano di civiltà occidentali e non un continente, un blocco ben saldo. Certamente c’è comunicazione tra i membri dei gruppi vicini, per esempio durante le feste pubbliche, o tra amici che vengono ad assistere alle cerimonie, nel cui caso si fa loro una grande accoglienza come, ad esempio: i tamburi cambiano la musica per eseguire quella della nazione dei visitatori, le figlie degli dei li abbracciano seguendo un rituale speciale

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di cortesia, ma si tratta sempre di semplici relazioni di vicinato, che non oltrepassano i limiti dei mutui omaggi , ma che purtroppo a volte non impediscono che si creino dei conflitti tra babalorishà, gelosie o rivalità tra i Candomblè. Questi, comunque, tradizionalmente nascono per scissione a partire da una cellula unica. Il Candomblè più vecchio è quello di Engenho Velho, che ha dato vita in seguito a quello di Gantois e poi a quello di Opò Afonjà; ma questi nuovi terreiros, una volta formati, diventano assolutamente indipendenti dalle cellule madri da cui sono derivati e, nel corso degli anni, può succedere che, alla precedente amicizia, subentri della rivalità. Nel 1937 tutti questi gruppi si sono organizzati in una associazione chiamata: “Unione delle sette Afro-Brasiliane di Bahia” ma si tratta di una istituzione artificiale, di difesa collettiva, sul modello sindacale, che non ha assolutamente nulla di africano, ne nelle sue origini ne nella sua costituzione, che lascia però ad ogni Candomblè la sua autonomia totale. Questa autonomia, che in nessun modo vogliamo negare, non può nasconderci tuttavia un altro fenomeno e cioè l’esistenza, al di fuori dei Candomblè propriamente detti e pur collegati ad essi, di sacerdoti che raccolgono, in qualche modo, l’insieme del sistema o, per lo meno, raccolgono i terreiros di una stessa nazione. In effetti abbiamo visto che i rituali di entrata necessitano, come condizione preliminare, la consultazione della collana di Ifa oppure delle conchiglie. Abbiamo pure visto che uno dei momenti più importanti dell’iniziazione è il lavaggio della testa con un bagno di erbe e, infine, che dopo la morte l’ Egun era fissato in un santuario speciale, dove si avrà la possibilità di evocarlo in seguito. Tutto ciò sfugge al babalorishà o alla Ialorishà, dispensa i sacerdoti speciali, i babalaòs, i raccoglitori di erbe, gli evocatori dei morti, che possono essere chiamati da molti Candomblè differenti. Secondo noi a costoro si è data troppo poca importanza e noi, invece, in questo nostro lavoro, daremo loro il posto di primo rango che essi meritano. Si può rischiare, in effetti, se si esamina il mondo del Candomblè unicamente attraverso i Candomblè di lasciarsi sfuggire quello che per noi è l’essenziale e cioè: la struttura della civiltà africana; o la corrispondenza stretta che c’è fra le strutture mentali e quelle sociologiche. Se pure dei Candomblè sono separati o rivali essi sono comunque legati da una stessa realtà a cui tutti fanno parte e cioè la civiltà africana. E’ questo legame che a noi interessa; i babalaò, i sacerdoti degli Osain o degli Egun esprimono questa unione di credenze e di mentalità poiché essi sono, per la maggior parte del tempo, a cavallo di diverse sette. Come si è già potuto notare nel capitolo di presentazione noi non abbiamo descritto il Candomblè come un’istituzione ma piuttosto come un sistema di partecipazioni (l’istituzione non è, a nostro avviso, che la cristallizzazione di tutto un insieme di partecipazioni, tra uomini, cose e gli Orishà) e, cioè, fin dall’inizio in termini di civiltà e di metafisica africana.

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CAPITOLO II - LO SPAZIO E IL TEMPO SACRO "I Neri di Cuba conservano, con una stupefacente tenacia, la credenza nella spiritualità della montagna" dice Lydia Cabrera all’inizio del suo libro El Monte Igbo Finda e cita, a questo proposito, tutta una serie di testimonianze caratteristiche, tratte dalla bocca dei vecchi Neri di Cuba: "I ’Santi sono più sulla montagna che nel cielo"; "i Santi nascono dalla montagna e così la nostra religione nasce dalla montagna"; "là risiedono gli Orishas, gli Elegguà, gli Oggùn, gli Ochosi, Oko, Ayè, Changò, Allàguna e gli Eggun, - i morti, Elèko, Ikùs, Ibbayès". Se abbiamo citato questo testo è perché proviene da una regione dove il culto degli Orishà è conservato come a Bahia. Essi indicano, con una chiarezza che non lascia nulla a desiderare, la stessa opposizione tra la montagna selvaggia e la città civilizzata, che Varagnac scopre nel nostro folklore tra il bosco sacro, dove vivono le fate e i morti, e i campi coltivati chiusi intorno al villaggio. In Brasile si trova un’analoga opposizione su cui torneremo quando parleremo della raccolta delle erbe. Come pure, per lo meno a Bahia, il carattere "spirituale" della montagna: "Un padre di un terreiro mi ha assicurato", scrive Nina Rodriguez, "che c’è a Bahia, nei sobborghi della Plateforme, un ponticello che è adorato come un Orisha Okè, perché i Neri, dopo aver adorato Obatala su un monte o su di una collina, hanno finito per divinizzare e adorare la montagna stessa". Questo culto di Okè figlio di Yemanjià, dio delle alture, è attualmente scomparso; per contro il legame di Obatala con le eminenze continua tutt’oggi e, senza dubbio, per nessun’altra ragione che per il fatto che i Neri di Bahia amano, sopra tutte le altre, la chiesa cattolica, dove essi si recano vestiti di bianco, che è il colore di Obatala, ad esempio la chiesa di "Notre Seigneur de Bonfim" che è costruita su una piccola collina dominante il mare. Malgrado tutto, c’è una differenza radicale tra Cuba e Bahia ed è che gli Orishà qui non vivono sulla montagna o nella foresta, ma vivono ancora in Africa, in quella terra lontana da cui hanno strappato a forza gli schiavi per portarli in America e che loro chiamano:”Itù Aigè (o iù aò) la terra della vita”. E’ di la che gli Orishà vengono, attirati dal sangue dei sacrifici o dal rullio dei tamburi, o per danzare negli amorosi corpi delle loro figlie. E’ indubbio che, come abbiamo già visto, ogni divinità è "fissata" per mezzo di rituali speciali, nelle pietre, nei pezzi di ferro o sulla testa dei loro figli, ma la divinità stessa risiede nel paese degli antenati. Ho pure trovato, in un terreiro, il mito simbolico di un albero le cui radici attraversavano l’Oceano per riunire i due mondi ed è lungo queste radici che gli Orishà arriverebbero quando sono chiamati. Allo stesso modo le anime dei morti, sebbene anch’esse "fissate" in un santuario presso il Candomblè, lasciano il Brasile, dopo la sepoltura, per raggiungere la grande legione degli spiriti ancestrali. Il suicidio degli schiavi Neri non aveva spesso altra ragione. Tschudi ne formula un’ipotesi per spiegare un fatto che lo aveva colpito: la gran quantità di suicidi nelle piantagioni di "padroni buoni" piuttosto che in quelle di padroni crudeli. Ma quello che per lui non era altro che un’ipotesi è confermato dall’Assier che ci riferisce, a questo proposito, la testimonianza orale dei propri schiavi: "per ritornare il più presto possibile nella nostra terra". Così la differenza tra sacro e profano è, prima di tutto, la differenza tra l’Africa e il Brasile per cui non è possibile che il sacro esista a Bahia, così come nelle altre città del Brasile, se non dove l’Africa sia stata precedentemente trasportata da un lato dell’Oceano all’altro. E’ la prima sacralizzazione di cui ci dovremo occupare (ce ne saranno, in seguito delle altre, ma che sempre presuppongono la prima): l’africanizzazione della patria dell’esilio o, se si preferisce, il Candomblè come un pezzo di Africa. Siamo obbligati a fare qui riferimento ad un altro culto che non è lo Yoruba; ma tra un po’ vedremo che non stiamo rischiando di sbagliarci generalizzando per tutti i terriero quello che è vero, prima di tutto, per le sette di origine dahomèenne. La "Casa de Minas" di San Luiz do Maranhaò, all’intorno di una serie di sale, in una corte ombreggiata o, se si preferisce, un giardino con alberi da frutta, piante medicinali e fiori che si chiama gume; tra le sale, quella dove si trova il pegi (o pendomi o Pòdòne) è chiamata con un termine simile: quello di comè. Questi due nomi non sono che la corruzione del nome del paese da cui sono venuti i fondatori della casa, il Dahomey. Mi ricordo ancora con quale tenera insistenza Mae Andreas, ogni volta che le parlavo del Dahomey, lei mi correggeva: "no, figlio mio, Dagomè (o Dagumè)". Nunes

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Pereira, la cui madre era una delle figlie degli dei di quel terriero, scrive: "Quel Gumè come il pegi fu sacralizzato... Hanno messo sulla terra degli oggetti portati dall’Africa, simili a quelli che si trovano nel pegi, sotto il triangolo simbolico del sole". Così pure le parti sacre della casa dei vodouns sono designate sia le une che le altre con uno stesso termine che significa Dahomey. Pensiamo che quel termine gumè o gomè o Dagomè non era sconosciuto neppure a Bahia; un babalorishà celebre e discusso: Joào da Gomea, fa derivare il suo nome dal luogo dove è situato il suo terriero, Gomea e, se quel terriero è attualmente bantu, il termine di Gomea sottolinea evidentemente l’esistenza anteriore e nello stesso locale di un Dagomè portato dall’Africa.

Mappa del Candomblè

Gli Yoruba, al contrario, non danno il nome del proprio paese ai loro santuari, ma, ciononostante, anche questi sono dei pezzi d’Africa trapiantati nel cuore del Brasile e non dell’Africa profana, ma dell’Africa mistica. La porta d’entrata è segnalata dall’altare di Eshù, esattamente come ogni villaggio yoruba possiede, al limite che lo separa dai campi, una dimora di Eshù. Tutti i diversi e grandi templi che sono disseminati lungo tutta la Nigeria, si ritrovano tali e quali nel Candomblè ed è stata loro data una posizione equivalente a quella, geografica, che essi occupano in Africa. Per esempio, l’altare di Oshum è situato il più vicino possibile alla sorgente o alla fontana sacre, esattamente come il tempio di Oshum a Oshogbo, vicino al fiume che porta il nome della dea; l’altare di Oshossi si trova nascosto nella parte boscosa del santuario, quella parte che più assomiglia a una foresta, poiché egli è il dio dei cacciatori africani; quello di Omolù e costruito, obbligatoriamente, fuori della casa principale così come i templi di Buku, sua madre, o i conventi di Schankpanna in Nigeria che devono essere al di fuori della cerchia del villaggio; l’altare di Oshalà è nel terriero tradizionale di Opo Afonjà distinto da quello di Shangò, poiché i templi nagòs di queste due divinità si trovano in due differenti città, benché siano tra loro legati, Ilè Ifè e Oyo; il santuario di Ogun è lontano, in mezzo agli alberi, come quello di Oshossi poiché, presso gli Yoruba non è più situato in città, ma in mezzo ai boschi; quello di Iya (la yemanjà dei Grunci) è una specie di grotta di mare incrostata di conchiglie, a contatto con l’acqua che è l’elemento di Iya. Così vediamo che un Candomblè è un’Africa in miniatura, dove i templi sono diventati casette sparse nella macchia, se le divinità sono quelle dell’aria aperta, mentre sono stanze separate della casa principale, se le divinità sono adorate nelle città. Quando il terriero è molto piccolo

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tutte le divinità urbane possono trovarsi concentrate in un unico pegi, ma le altre restano fuori. Il luogo di culto a Bahia appare, tuttavia, come un vero microcosmo della terra ancestrale. Microcosmo che non sarebbe che un semplice arredo di teatro impiantato sul suolo brasiliano se, per mezzo di particolari cerimonie, non si infondesse loro la forza degli Orishà, seguita poi da una seconda sacralizzazione in aggiunta alla prima, per dargli, infine, tutto il suo significato. Non c’è Candomblè senza ashè. Nune Pereira ci dice che la Casa des Minas di San Luiz do Maranhào posa su degli oggetti portati dall’Africa, non sappiamo se succeda lo stesso con i grandi Candomblè tradizionali di Bahia. Questo è assai possibile poiché sappiamo che durante le varie guerre per la successione delle dinastie, alcuni sacerdoti furono fatti prigionieri e inviati come schiavi in America (sappiamo, tra gli altri casi, di due sacerdotesse di “Oshossi”; sarebbe strano che quei sacerdoti non avessero portato con se alcuni dei loro oggetti sacri. Sappiamo anche che, quando il Candomblè che era situato sulla “Barroqinha” fu trasportato a Engenho Velho, gli ashè furono dissotterrati per essere portati nel nuovo santuario. Da questo si può notare quanto valore si desse a questi antichi ashè che conservavano la loro origine africana. Altre ipotesi su questo stesso argomento possono essere ugualmente valide. In ogni modo, ed è questo che ci interessa, il Candomblè diventa luogo di culto solo dopo una consacrazione e questa consacrazione consiste nel seppellimento degli ashè. Si sa che l’ashè significa in nago la forza invisibile, la forza magica e sacra di ogni divinità, di ogni essere animato e di tutte le cose. Si tratta, scrive B. Maupoil, del corrispondente “yoruba” del corrispondente arabo detto “baraka” nei paesi magrebini, del “mana” polinesiano e melanesiano, del “orenda” irochi, del “manitou” algonchino. Il termine è rimasto in Brasile per designare delle cose molto differenti ma che hanno tutte in comune il fatto di essere depositarie della forza sacra: innanzitutto gli alimenti offerti agli dei, poi le erbe raccolte per il bagno delle ragazze iniziate, così come per guarire le malattie, infine sono il fondamento mistico del Candomblè. Un proverbio riportato da A. B. Ellis dice che: “il sangue è l’ashè di tutto ciò che respira”, ed è per questo che, come abbiamo già detto, è attraverso il bagno di sangue che si stabiliscono, nel mondo africano di Bahia, tutte le relazioni tra gli oggetti, gli esseri umani e gli Orishà e che formano tutte le partecipazioni e tutti gli scambi di forze. Il terreiro costruito nei dintorni della città, potrebbe benissimo imitare l’Africa e sarebbe solo una caricatura se non partecipasse anche al mondo soprannaturale. Da lì deriva la cerimonia del seppellimento dell’ ashè. Questa cerimonia è analoga a quella che viene praticata in Africa, ma con una differenza su cui vorremmo spendere una parola. Poche sono le informazioni che abbiamo circa il rito della consacrazione che non è un rituale pubblico, ma, Parrinder, è riuscito ad ottenere da alcuni sacerdoti dei dati sul modo in cui si adoperavano per elaborare delle cose sante. Bisogna capire che gli ashè variano secondo gli dei: gli ingredienti che entrano nel santuario di Sakpata non sono uguali a quelli che entrano in un santuario di Shangò e che, a loro volta sono diversi da quelli che servono per un tempio di Ogun. L’unica cosa in comune è che, in tutti i casi, viene scavato un buco nella terra e che gli oggetti sono deposti in questo buco. Ma, fatto nuovo in Brasile, il Candomblè non è il tempio di un solo dio, ma è, come abbiamo già detto, un insieme di tutta l’Africa mistica. Ci potrà essere un tempio dedicato a questo o a quel dio che è quello della “testa” del suo fondatore, ma, anche così, comprenderà delle stanze per tutto l’insieme del pantheon yoruba e, durante le feste, anche tutti gli altri Orishà saranno invocati a comparire per danzare. Farà così parte nella sua confraternita di figli e di figlie che appartengono alle divinità africane che “discendono”. E’ per questo che l’ ashè del Candomblè deve essere un condensato di tutti gli ashè esattamente come il terriero è un insieme di tutti i territori nagò. Quello che si sotterrerà, in generale sotto un palo centrale o un albero liturgico, sarà dunque l’ “acqua degli ashè”, secondo l’espressione di Edison Carneiro, e cioè il liquido che contiene un po’ di sangue di tutti gli animali sacrificati”, ogni divinità ha i suoi animali obbligatori, e così pure un po’ di tutte le erbe che appartengono ai diversi Orishà. Fatto tutto questo, si potrà aprire il terriero e sarà così pronto per ricevere i suoi fedeli e riempirsi della presenza divina.

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Ogni Candomblè è naturalmente obbligato ad adattarsi al luogo dove è stato costruito: su un piccolo pianoro o sul fianco di una qualche altura e così pure alle dimensioni più o meno estese del terreno che si possiede. Ci saranno quindi delle variazioni nella sua costruzione, nondimeno, tutti quelli che appartengono a delle nazioni “yoruba” avranno dei caratteri comuni. Prima di tutto l’esistenza di almeno due “Eshù”. Il primo è situato in una casetta presso la porta d’entrata e veglia sul Candomblè; apre o chiude la porta e rappresenta , in un certo modo, il portiere del luogo. Egli non è proprio a suo agio, anzi dimostra forte gelosia e, a volte, è pure cattivo; la sua casa è chiusa con un catenaccio per impedirgli di uscire e ogni visitatore, entrando, gli deve offrire un piccolo dono per non provocare la sua collera: sia un sigaro, un pezzo di foglia di tabacco o delle monetine. Il secondo “Eshù”si trova sotto il pavimento della casa principale o rannicchiato dietro la porta principale, il suo nome è: “padrino” perché, al contrario dell’altro “Eshù”, questo è un bravo ragazzo. Egli protegge la casa così come i suoi abitanti a patto che si dia pure a lui il suo dono. Questa dualità è tipicamente africana ma, come scrive Maupoil a proposito del Dahomey:" Non c’è alcun conflitto tra il Legba del portone e quello della camera, l’uno protegge la casa contro ogni disgrazia, soprattutto i malefici, l’altro impedisce alla disgrazia di entrare, arresta le influenze estranee, mentre il Legba della stanza garantisce le persone della casa contro quelle stesse". Dopo essere entrati attraverso il portone e reso omaggio all’Eshù di guardia, ci si trova davanti ad un vero villaggio africano, brulicante di persone nei giorni di festa ma mai vuoto anche nei giorni normali, immerso tra gli alberi, i cespugli e le erbe selvatiche. Spesso una capra o un montone girano da una parte all’altra, in attesa di essere sacrificati agli dei. Subito dopo ci imbattiamo nella dualità dei culti africani che si manifesta qui nelle due parti contrastanti del Candomblè: l’ “isola Orishà”, o casa delle divinità e l’ “isola saim” o casa dei morti. Questa dualità che corrisponde al doppio culto degli Orishà e degli antenati in Africa, si trovava, definita con gli stessi vocaboli, nella capitale del Brasile all’inizio del XIX secolo e si trova oggigiorno anche a Recife ma, l’ “isola-saim” prende il nome di “camera di Balè”. A Porto Alegre questa parte del santuario sembra che sia scomparsa, senza dubbio a causa del carattere più proletario della religione che impedisce al sacerdote di acquistare un terreno sufficientemente ampio per includere più di una abitazione. La casa dei morti è il più lontano possibile da quella degli Orishà, questi, come abbiamo visto, aborrono la morte, eccetto Yansà che l’ha vinta e che, per questo, viene chiamata a volte la dea dei cimiteri. L’ “isola-saim” comprende due locali: una stanza dove sono appesi i ritratti degli antichi membri deceduti e una stanza che costituisce il vero santuario e dove si trovano, chiusi dentro dei vasi, gli “Egun” “fissati” sette anni dopo la loro morte. A Recife esiste questa stanza solamente, vigilata alla porta da un Eshù e presidiata da un ritratto della Yansà di “Balè”, la guardiana divina delle anime dei morti. Una delle caratteristiche di queste “isole-saim” è la totale assenza di aperture a parte la porta d’entrata, tale è la paura che i morti vengano a disturbare i vivi o ad importunare i vicini Orishà. L’ “isola-Orishà” è molto più ampia poiché ricopre quasi tutta l’estensione del terreiro e si divide in un certo numero di locali di cui ognuno ha una sua funzione ben differenziata. L’ “isola-Orishà” è, prima di tutto un tempio e, come tempio, rappresenta l’unione di tutti gli oggetti su cui le divinità si sono “fissate”: pietre, pezzi di ferro, tamburi ecc. ed è pure un convento dove sono iniziate o formate le “yauò” le quali, una volta “fatte”, incarnano i grandi dei nelle danze pubbliche. Infine, siccome ci vuole del personale per sorvegliare e curare i templi e il convento, l’isola è allo stesso tempo una casa d’abitazione. Possiamo tralasciare quest’ultimo aspetto per quanto certe stanze dell’abitazione non manchino di avere un ruolo nella vita mistica dell’ “isola-Orishà”, per esempio la cucina, dove sono preparati i cibi per gli dei e per gli uomini, o come la stanza delle visite, che spesso è piena di persone venute per dei consigli o un ordine del “babalorichà” o della “Ialorishà”. Il convento comprende l’“aliachè” cioè la camera dove si fa l’iniziazione e il salone delle danze che, naturalmente, è la stanza più spaziosa di tutto l’edificio. Questo salone è diviso in due da una balaustra che delimita lo spazio dei danzatori e delle danzatrici da quello dove si trovano gli spettatori, da un lato gli uomini e dall’altro le donne, poi, in un angolo, su una piccola pedana, l’orchestra. Nel tempio, come già abbiamo detto, c’è il posto per dividere gli Orishà dell’aria aperta dagli altri. I primi: Omolù, Ogun e Oshossi hanno i loro santuari separati dal grosso degli edifici, gli altri vivono in

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uno o più locali della casa principale; ma, sia che l’edificio si trovi fuori o dentro e che gli si dia un nome speciale esempio: stanza del trono di “Shangò”, stanza del bagno di Yemanjà…., o no, tutti sono dei pegi dove si trovano le pietre “fatte”, le scodelle o i piatti con gli alimenti loro offerti, coperti da teli ricamati, oppure le insegne delle divinità, a volte delle sculture africane come pure delle immagini di santi cattolici. Le vesti liturgiche delle “yauò” sono spesso conservate dentro cofani o armadi in quella parte dell’ “isola-Orishà” consacrata della casa. I tamburi, negli intervalli che separano le cerimonie, rimangono vestiti con le loro “ojas”. Questi gli elementi indispensabili di ogni Candomblè. Molti hanno anche una sorgente sacra, dove le figlie degli dei vanno a prendere il loro bagno, fonti da cui si attinge l’acqua per il lavaggio delle pietre o per farla bere come test di “purezza corporale” (se si sono avute relazioni sessuali nella notte precedente, berle significherebbe ammalarsi). Queste sorgenti hanno dei nomi diversi, secondo la divinità che le protegge: fontana di Oshum, acqua di Shangò, sorgente di Oshalà… Spesso si nota nella macchia, tra i cespugli, la presenza di uno o due alberi ai cui rami sono appese delle strisce di stoffa bianca dette “oja” (foglia) sotto le quali si trovano delle bottiglie o dei piatti o, ancora, dei recipienti di vario tipo. Uno di questi alberi, la “gameleira branca” (ficus dolciaria, religiosa?), è identificata con il nome di “iròco”, l’albero sacro degli Africani ed è preparato esattamente come si prepara una pietra o una figlia degli dei, cioè a dire che si fissa la divinità dentro di lui e quindi diventa un oggetto sacro, di culto e nessuno può più toccarlo e, se ne fosse tagliato un ramo, da questo colerebbe sangue. Durante certe festività in suo onore si canteranno inni a lui dedicati, specialmente a Recife, ma quest’albero non ha figli e non cavalca un cavallo. Questi alberi sacri non devono essere confusi con quelli dei terreiros Bantu che costituiscono i loro ilè-saim dove, tra i loro rami, vengono ad abitare le anime delle ragazze morte (e dove, forse, come succede in Africa, esse si incaricano di entrare nel ventre della donna che passi di lì, continuando così il ciclo delle reincarnazioni). Lo spazio sacro è quindi lo spazio sacro chiuso tra le mura o i limiti del terreiro. Ci sono poi, al di fuori dei Candomblè, degli altri luoghi che gli Africani considerano sacri; ad esempio, nell’epoca di Nina Rodriguez, la “pietra di Ogun” che si trova in un municipio vicino a quello della capitale: formato da un parallelepipedo irregolare, situato in fondo ad una valle, ai bordi della strada, con la faccia in direzione sud, per metà interrato, ma con il lato nord, di oltre due metri di altezza, tutto coperto. La pietra è lunga più di tre metri e presenta sulla sua faccia nord un incavo naturale che si estende fino alla faccia superiore. Su queste pietre si trovano costantemente delle tracce di sacrifici, del sangue, delle piume d’uccello e delle conchiglie marine. La prima volta che andai a vedere una di queste pietre fui stupita di trovarci un bel pugnale nel suo fodero di cuoio… Le tracce di ruggine che incominciava a formarsi indicavano che era stato messo lì pochi giorni prima… Il pugnale apparteneva a un negro sposato che aveva cercato con questo di assassinare la propria moglie e che, per ordine di Ogun, aveva dovuto essere messo in quel posto. Il dio, quel giorno stesso, si era manifestato alla Madre del terriero. Anche a Bahia esiste sempre la pietra di “Oshumarè”, vicino al mare, che presenta una anfrattuosità simile a una pila d’acqua, il che fa si che le giovani madri si rechino lì per battezzare a loro modo i propri figli, l’acqua di questa pila è piena di pioggia mescolata con l’acqua delle onde marine. Se in quell’esatto momento apparisse in cielo l’arcobaleno, sarebbe il segno che “Oshumarè” ha dato la sua benedizione al bimbo presentatole. Soprattutto i culti di Yemanjà e di Oshum, dee rispettivamente dell’acqua salata e dell’acqua dolce, esigono delle offerte, lanciate sia dalla riva che da una barca in alto mare. Queste offerte, rappresentate da saponi, acqua di colonia, fiori, piccoli specchi o pettini, poiché sia l’una che l’altra divinità sono ugualmente vanitose, sono effettuate con delle vere e proprie processioni solenni come quelle di “Joana de Ogun” o a delle grandi feste popolari come quelle della “offerta a Yemanjà”. In quest’ultimo caso la nave che si allontana dalla riva per portare l’offerta lontano sull’oceano, è un vero Candomblè marino, con le ragazze, i tamburi, tutti intorno all’ enorme cesto pieno di regali portati dai fedeli. Anche se non ha una specifica importanza il luogo della riva utilizzato

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per tale manifestazione, ci sono tuttavia dei luoghi privilegiati: il “Dique”, “Monserrat”, la spiaggia di “Rio Vermelho” ecc. Non vi è quindi contraddizione tra quello che abbiamo appena detto e la nostra affermazione anteriore e cioè che lo spazio sacro è quello che delimita il solo Candomblè. I luoghi profani non hanno infatti un ruolo religioso se non quando diventano un prolungamento esterno del terreiro. Il testo citato da Nina Rodriguez specifica che la pietra di Ogun era legata a un santuario vicino e che una “Ialorishà” ne aveva cura. La pietra di Oshumarè è anche in stretto rapporto con la vita delle sette africane e, il 24 di agosto, si celebra in suo onore una festa che Edison Carneiro chiama: “la festa della purificazione”. Quanto a quelle di Oshum o di Yemanjà esse sono sempre organizzate, controllate e dirette da un Candomblè determinato e il mare o il lago diventano sacri nel solo tratto in cui passa il Candomblè e durante il solo rito della cerimonia. Così, quando ci fu la festa della presentazione del 2 di febbraio, uno dei nostri amici neri ci fece togliere le scarpe per bagnarci i piedi dove si infrangevano le onde e dove numerose persone erano venute con delle bottiglie vuote per prelevare un po’ dell’acqua toccata dalla scia del battello, poiché quell’acqua possedeva ogni specie di virtù, curativa e profilattica; l’indomani però, in quello stesso luogo, l’acqua non era altro che pura e semplice acqua di mare. Questa ci pare la miglior prova che l’unico spazio sacro è quello del Candomblè e che gli altri spazi acquistano un carattere mistico solamente in quanto vengono, in un modo o nell’altro, a far parte del primo. Ma questo spazio sacro è anche lo spazio mistico? La costruzione del tempio ricorda la creazione del mondo? Il presente rappresenta le gesta delle antiche divinità? A prima vista sembra di no. Le case sparse sul terreiro sono fatte di cannicci o di mattoni, come tutte le case di Bahia, quadrate e non rotonde e che non hanno nulla di africano. L’uomo si è adattato al suo nuovo ambiente sia geografico che culturale, ha preso dai Bianchi il modo di lavorare dei suoi muratori e i progetti delle case. Tuttavia, già durante il nostro primo viaggio a Bahia, siamo rimasti vivamente sorpresi da un particolare architettonico che nessuno ci aveva ancora fatto notare: l’esistenza, in mezzo alla sala delle danze, di un palo centrale. Questo palo non poteva avere una funzione dal punto di vista strutturale, non sorreggeva il tetto e, nei terreiro bantu, non esisteva affatto, qualsivoglia fossero le dimensioni del salone delle danze e, in un solo caso: il Candomblè di Oshumarè, non arrivava che fino al tetto. Quel palo aveva però un’evidente funzione rituale, poiché era attorno a lui che le figlie degli dei giravano durante il loro girotondo estatico e così pure era alla base di quel palo che, durante le cerimonie mortuarie, o ashèshè, erano deposti i piatti con le offerte, le brocche della morta, le scodelle di farina o delle monetine. Per mezzo di uno studio comparato arrivammo a ritrovare quel palo nelle altre regioni americane toccate dalla civiltà africana. Innanzitutto nel Brasile stesso, a Piauì, come rara testimonianza africana all’interno di una regione che ha subito una forte influenza amerindia. Anche ad Haiti, nel centro della terrazza coperta dove si svolgono le danze, si trova un pilastro chiamato: “poteau-mitan”, alla base del quale si disegnano i “vèvè”, si depongono gli oggetti sacri, si salutano gli dei e, intorno al quale girano in ronda, come sempre, le “vodun-si”. Questo palo è entrato perfino nel culto protestante alla “Trinitè”, contornato di fiori e di candele. Perché un simile oggetto architettonico si sia conservato con una tale forza, che si sia introdotto persino nelle sette così poco tradizionali come quelle degli “Enchantès” di Piauì o quelle degli “Hurleur” della Trinità bisogna bene che rivesta un ruolo molto importante. In effetti è alla base di questo palo che, a Bahia, viene generalmente sotterrato l’ ashè del terreiro. Eppure questa non è ancora la ragione della sua importanza, sarà piuttosto il suo effetto, poiché questo palo rappresenta qualcosa di simbolicamente straordinario ed è per questo che è scelto come luogo dove sarà deposto l’ ashè della sacralizzazione. Jaques Roumain riporta una cantica diretta a Lòko, cioè alla stessa divinità corrispondente all’ “Iròko” brasiliano (Lòko è il suo nome del Dahomey), che dice:

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“Eya! Poteau-a plantè Nègue Atisou” E qui non si può trattare d’altro che del Lòko, poiché non si parla ancora del “poteau-mitan” nella cerimonia descritta. Questo palo appare solamente alla fine, al momento del sacrificio a Tambour Assoto(r), quando si scava un buco in terra e si introduce un paletto cantando: Eeh! Piantate il palo Eeh piantate il palo Piantate il palo (bis) Piantate il palo (bis) Eeh! piantate il palo Eeh! piantate il palo Assotò Micho piantò il palo li Assetò Micho ha piantato il suo palo Eeh! Piantate il palo Eeh! Piantate il palo Abobo (ter). Abobo (ter). Ci si potrebbe quindi domandare se questo palo non rappresenti semplicemente l’immagine di pietra dell’albero “Iròko”, ma si potrebbe anche pensare che “Iròko” sia sacro perché ricorda, con il suo tronco vetusto, il palo centrale. Tanto più che ad Haiti la mitologia tradizionale si è completamente disgregata e che il “vodoun” è diventato un culto nazionale piuttosto che una vera sopravvivenza della tradizione africana. Il legame tra il palo e l’albero può essere considerato ragione valida, ma non ci da sufficiente informazione sul senso di questo legame, se parte dall’albero al palo oppure se, al contrario, va dal palo all’albero. Dovremo quindi tornare su questa questione. Si sa che presso gli Yoruba, la primitiva coppia divina è formata da: Obatalà, il cielo, e da Odudua, la terra e che dall’unione del cielo con la terra nascono: Aganjou, il firmamento e Yemanjà, l’acqua. Si sa pure che questa coppia durante la sua unione è rappresentata da due mezze zucche chiuse l’una sull’altra a rappresentare la volta celeste e la terra fecondata, il nome di questa zucca sacra è “Igba”. Talvolta questa zucca, e qui siamo più vicini al Brasile, è definita come il simbolo di Oshalà e Oshalà è considerato un ermafrodito, cioè che la sua metà superiore è maschile e quella inferiore è femminile. Frobenius ha confrontato a lungo questo mito e certi oggetti africani con delle rappresentazioni simili di certi popoli asiatici e degli oggetti archeologici per trarne un certo numero di ipotesi che qui non ci interessano, ma per arrivare pure a una conclusione generale che , invece, avrebbe un senso per il nostro lavoro: “Il tempio è l’immagine riflessa del cosmo. Con emozione l’uomo ha visto in questa scena il fenomeno dell’eclissi come l’accoppiamento del cielo con la terra, l’ascensione al cielo!” E poi riprende: “Questa unione diventa l’immagine di un mondo in forma di un complicato edificio. Il grande palo centrale sostiene la catena degli antenati, il frontone rappresenta l’immagine dell’astro, i quattro pali di sostegno diventano il sostegno del cielo” (questi quattro pali non sarebbero altro che i segni dei quattro punti cardinali). E’ un peccato che Frobenius abbia complicato la sua teoria, sminuendo così il valore della sua giusta intuizione, parlando del fenomeno dell’eclissi come “gioco”, ma a noi interessa il concetto di unione cosmo-tempio, come punto di partenza per la nostra interpretazione. In effetti, come fa notare Nina Rodrigues, a dispetto dei suoi pregiudizi razziali e a proposito, giustamente, del carattere androgino di Obatalà (altro nome di Oshalà a Bahia): “La rappresentazione di questa divinità …sotto forma di due mezze zucche… sovrapposte l’una all’altra a simbolizzare il cielo, Obatalà e la terra, Odudua, che si toccano all’orizzonte, o per la giustapposizione di due organi della procreazione in funzione … tutte queste rappresentazioni di cui Ellis parlava a proposito della Costa degli Schiavi, io li ritrovo qui a Bahia dove, d’abitudine, le coppe o piatti fatti con le zucche dipinte di bianco sono sostituite da una scodella di porcellana bianca, con il suo coperchio, contenenti, come ho già detto, del fango della Costa, venuto dall’Africa, delle “cauries”(?) e un arco in metallo”. Tutto nel Candomblè è, in effetti, immagine o simbolo. L’adattamento alle novità occidentali, al tipo di costruzione o, come qui, alla ceramica europea, non impedisce il rispetto delle norme mitiche che garantiscono il valore religioso degli oggetti utilizzati. Il riflesso del divino che qui

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vediamo, lo troveremo sia nel più piccolo che nel più grande degli utensili del culto come negli strumenti musicali e nella costruzione del “Ilè-Orishà”. La doppia zucca rimane la rappresentazione di Obatalà, anche se le due metà della zucca sono state sostituite da una specie di zuppiera con il suo coperchio. La stessa metamorfosi si è verificata a Cuba. La zucca riappare, tuttavia, come immagine del mondo, in uno strumento musicale, di cui ho già brevemente parlato, e che è utilizzato solamente nelle cerimonie funebri. Questo strumento si trova anche a Cuba ed è stato studiato a fondo da Fernando Ortiz. Orbene, è sufficiente confrontare questo strumento musicale con l’immagine del mondo tal quale l’ha descritta Maupoil nel suo: “Géomancie à l’ancienne Còte des Esclaves”, o con il disegno di Dennett per rendersi conto della identità di questo strumento con la concezione del mondo e la doppia zucca di Obatalà. Ciò che risulta strano è che la zucca di Obatalà, dio della creazione, sia utilizzata nei rituali funebri. Ma, oltre a chiedersi se l’ ashèshè non sia pure una creazione, quella dell’Egun, così come abbiamo visto nell’iniziazione, per questa ragione anche il rito funebre è posto sotto il segno di Oshalà; c’è pure una ragione ancora più semplice ed è che l’acqua che circonda da tutte le parti la superficie della terra abitata e la separa dal cielo con la linea dell’orizzonte, è considerata come il soggiorno dei morti. Ciò che qui soprattutto ci deve intrigare è che quel cielo e quella terra che si toccano, che sono uniti insieme sui bordi delle due mezze zucche, si stanno per sposare e che la stessa rappresentazione del mondo può essere fatta considerando gli organi della riproduzione. I santuari africani, a volte, non hanno il tetto, ma è il cielo che ne costituisce la volta , però essi comprendono, tra gli altri elementi architettonici, dei pilastri e questi pilastri sono, a volte, chiamati dalla gente: bastoni di Oranyan, “Opa Oranyan”, cioè il pene di “Oranyan” secondo i preti.

Il carattere sessuale del palo è ben definito dal primo termine, il secondo potrebbe naturalmente variare secondo le divinità. Il Candomblè ha perduto la sua forma rotonda cedendo a quella delle case quadrangolari del Brasile, il suo soffitto non è più una cupola. Non resta che, a mio parere, l’immagine stessa dell’universo, con il cielo e la terra, il palo che non è altro che il sesso che riunisce le due metà della zucca e che realizza l’unione tra il sopra e il sotto. Le figlie degli dei girano attorno ad esso danzando e così percorrono il cammino che riunisce i quattro punti cardinali, poiché, in questa rappresentazione del mondo, i quattro punti cardinali si situano in rapporto all’asse centrale. Abbiamo così due visioni: quella verticale che riunisce l‘ ashè della terra con il cielo degli Orishà e quella orizzontale che riunisce i punti cardinali e che, in qualche modo, mantiene , in una casa quadrata o rettangolare, la forma circolare dei bordi della zucca. L’intersezione dei due piani o, più esattamente, il piano verticale e quello orizzontale, dovrebbe essere il luogo sacro per eccellenza; nulla, è vero, ci permette di affermarlo in quanto a Bahia, ma ad Haiti è incontestabile, poiché è il luogo delle offerte o dei “vèvè” e così pure a la Trinità. Il

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legame dell’asse del mondo con i quattro punti cardinali non si nota soltanto nella costruzione del “Candomblè, ma così pure in un certo numero di oggetti liturgici. Nell’ Istituto Storico di Bahia, tra le varie collezioni, si trova una sedia chiamata “palo di Shangò”, che si può paragonare con le sedie del re Apai-Togo descritte da Frobenius, oppure il trono di “Schankpanna”. Questo “palo di Shangò” è formato da un appoggio leggermente ricurvo e da una base posta sulla terra; tra le due, a modo di unione, si trovano , al centro, una colonna grossa e vuota e, ai quattro lati, quattro colonne più sottili. Il palo di Shangò riveste una grande importanza in una particolare cerimonia di cui parleremo più tardi, dentro lo stesso capitolo e che ha per titolo la festa dell’ “acqua di Oshalà”; non è facile chiarire più di così il legame tra lo strumento con il dio della creazione, con la doppia zucca e gli organi della fecondazione in atto. Nel corso della cerimonia Shangò offre del cibo a Oshalà, questo cibo è preparato con il suddetto palo ma, siccome il nutrimento è destinato al dio del cielo, il palo assume la forma simbolica della creazione dello spazio, con il suo asse e i suoi quattro punti cardinali. Si deve aggiungere ancora che, se si stacca il palo centrale, quello propriamente detto, da tutto l’insieme, troviamo il prototipo dei tamburi cilindrici utilizzati nel Candomblè. E’ interessante notare che un fenomeno analogo lo ritroviamo a Cuba con questa differenza: che il palo di Shangò ha la forma di una clessidra e non di una colonna centrale, per cui i tamburi dell’ “ilè-Orishà” detti tamburi “bata” avranno anch’essi la forma di una clessidra e non saranno cilindrici come quelli di Bahia. In ogni caso il tamburo imita sempre la forma del palo. Si trova pure nel “pegì”, accanto alle pietre, degli strumenti in ferro che prendono il nome di “ferri” o “lance degli Orishà”. Alcune di queste lance riprendono la stessa immagine del mondo che abbiamo studiato, con un fusto centrale e, tutt’attorno, altri quattro fusti che si incurvano per indicare i quattro punti cardinali. In un altro caso questa “lancia di Orishà” assume l’aspetto dell’ “albero della vita”, come Renè Guenon lo ha studiato, con un tronco centrale che mette in comunicazione il mondo della creazione con quello soprannaturale ed ha, sia in alto che in basso dei rami divergenti a simbolizzare l’idea che le “manifestazioni” dal basso non sono altro che il riflesso di quelle dall’alto. L’abbondanza di queste rappresentazioni dello spazio, nelle pietre, nel legno e nel ferro, testimoniano l’importanza, anche se i fedeli ne hanno dimenticato il significato, di quel simbolismo della creazione. Il simbolo più importante resta tuttavia il palo centrale nel salone delle danze, poiché da a questa parte dell’edificio un ruolo che va singolarmente al di là del puro spettacolo coreografico. Quando gli Orishà danzano nei corpi delle figlie possedute, questo salone diventa l’immagine stessa del mondo. Il pavimento è la terra, il tetto il cielo e tra queste due divinità gli Orishà mimano la vita degli elementi della natura: il temporale violento (Yansà), lo zig-zag del lampo (Shangò), il mormorio dei fiumi (Oshum), le onde dell’oceano (Yemanjà) e così le azioni degli uomini che vivono nel mondo, cacciatori (Oshossi), fabbri (Ogun) od anche il passaggio delle malattie epidemiche (Omolù); il salone delle danze rappresenta allora il microcosmo o, se si preferisce, il mondo ricostruito nella sua realtà mistica e che è la sua vera realtà. Questo mondo non si cancella poiché è perpetuamente ricreato per mezzo di un’unione sessuale che non ha mai fine, simbolizzata dal palo centrale. Se la nostra interpretazione è esatta, vediamo che questo salone ha una funzione capitale nell’insieme dell’ “ilè-Orishà”: il tempio è ben più che un pezzo di Africa trasportato da un lato all’altro dell’Oceano, è ben più che un luogo reso sacro dal sotterramento degli ashè, copiando il matrimonio del cielo con la terra, da supporto al mondo creato perché duri e rinchiuda, nelle due mezze zucche, lo svolgimento armonioso delle forze della natura come delle strutture e delle funzioni della società. Se i quattro punti cardinali non si trovano sotto forma di colonne come nel “palo di Shangò”, o le lance degli Orishà, le incontreremo, nondimeno, sotto la forma dei quattro angoli della stanza: all’inizio della cerimonia, al momento del “padè di Eshù”, l’offerta a questo dio che è il dio delle strade, il regolatore dello spazio, è presentata in ordine ai quattro angoli della sala, come immagini del Nord, del Sud, dell’Est e dell’Ovest. Gli Orishà non potranno scendere che in seguito, quando i quattro punti saranno resi sacri dal gesto sacerdotale, cioè una volta che lo spazio simbolico si trasformi in spazio religioso. Se lo spazio del Candomblè ci porta qui a un aspetto religioso della geografia, lo studio del tempo ci conduce allo stesso modo, al calendario delle feste. Ogni mese, ogni giorno e forse anche ogni ora, hanno le loro specifiche qualità, le loro virtù speciali, che separano e

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distinguono i momenti del tempo ed impediscono loro di confondersi nell’impersonalità, l’omogeneità del calendario degli astronomi. Lo studio del tempo è più complesso di quello dello spazio, poiché il calendario africano si differisce dal calendario cattolico che i Bianchi hanno imposto ai Neri schiavi. Per poter danzare impunemente secondo i loro gesti divini, questi ultimi erano obbligati a celebrare i loro riti davanti ad una chiesa cattolica e questo serviva loro da maschera od alibi. Il padrone li osservava allora con divertita indulgenza pensando che celebrassero a loro modo la fede cattolica. E’ così che, per ingannare i propri censori, come ad esempio il cappellano del mulino dove si produceva lo zucchero, ogni divinità Yoruba è stata abbinata a un santo, e le feste africane spostate nei giorni degli anniversari dei santi. Il calendario africano si è inserito o adattato al calendario portoghese. In questo modo i Bianchi non vedevano niente di male in quello che facevano i Neri delle proprie piantagioni e questi ultimi potevano mantenere, senza alcun rischio, le loro cerimonie ancestrali. Riportiamo qui di seguito un primo calendario, che è un calendario comune ma africano e che si può sintetizzare come segue: 20 gennaio 2 febbraio

giorno di S. Sebastiano

festa di Obaluaiè (Omolù)

giorno della Purificazione

festa di Oshum e Yemanjà

23 aprile

giorno di S. Giorgio

festa di Oshossi

13 giugno

giorno di S. Antonio

festa di Ogun

24 giugno

giorno di S. Giovanni Battista

festa di Shangò

29 giugno

giorno di SS. Pietro e Paolo

festa di Orishà-là

26 luglio

giorno di S. Anna

festa di Nanan

24 agosto

giorno di S. Bartolomeo

festa di Oshumarè

27 settembre giorno di SS. Cosma e Damiano festa dei gemelli (ibejì) 30 settembre giorno di S. Geronimo

festa di Shangò

2 novembre giorno dei morti

festa degli Egun

4 dicembre

giorno di S. Barbara

festa di Yansà

8 dicembre

giorno dell’Immacolata

festa di Oshum e Yemanjà

Non ci soffermeremo più a lungo su questo calendario poiché è adottato più agli yoruba di Pernanbuco che a quelli di Bahia anche se lo troveremo pure in quest’ultima città, ma è usato di preferenza nei Candomblè bantous, più permeabili a tutte le influenze che derivano dall’ambiente esterno. La seconda osservazione che dobbiamo fare è che, siccome i Candomblè sono autonomi, ci saranno tanti tempi sacri quanti sono i terreiros. Ognuno di questi si apre per celebrare, una volta l’anno, tutti gli Orishà insieme. Si tratta dunque di eventi praticati nelle sette quetu, ijeshà o nagò di Bahia molto lontane dal calendario cattolico; gli dei sono separati dai loro equivalenti cristiani, per essere adorati in uno stesso, ristretto ciclo di rituali. Questo ciclo, tuttavia, non corrisponde affatto al ciclo africano perché, trovandoci dall’altro lato dell’equatore, il calendario agricolo è capovolto. Le grandi feste della Nigeria si concentrano all’inizio della stagione delle piogge, nei mesi di maggio e di giugno. Nella maggior parte dei Candomblè esse sono invece celebrate in settembre e dicembre. Come possiamo notare questo cambiamento non è altro che una fedeltà supplementare poiché, se maggio e giugno sono all’inizio dell’estate in Africa occidentale, settembre e dicembre sono ugualmente l’inizio dell’estate sub-equatoriale. Ancora una volta, ogni terreiro sceglie la data delle sue proprie feste e, quello che abbiamo qui detto a proposito di settembre e dicembre, vale per una buona parte dei Candomblè di origine yoruba ma non per tutti. I Gantois celebrano le loro feste alla fine di settembre. Nina Rodrigues ci ha descritto come si svolgevano ai suoi tempi nel modo seguente:

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Il terreiro dei Gantois celebra la sua grande festa annuale alla fine del mese di Settembre, iniziando di Sabato e dura generalmente un mese... Nella notte del Sabato incominciano i preparativi; la Domenica mattina le figlie dei santi vanno a cercare l’acqua santa, in grande processione, ad una vicina fonte... Quest’acqua servirà per lavare i santi e a riempire i recipienti e i piccoli vasi del pegi. A sera, l’affluenza della popolazione del terreiro è enorme... migliaia di persone... Dopo aver effettuato, la Domenica sera o nella notte della Domenica, il sacrificio propiziatorio a Eshù, le feste sacre hanno inizio seguendo quest’ordine: il lunedì è per Eshù, il martedì per Osunmanrè, il mercoledì per Sangò, il giovedì per Oso-si, il venerdì per Oubatalà o Orishalà, il sabato per Osuguinan, la Domenica a tutti i santi o Orishà. Queste feste si ripetono nel medesimo ordine nei giorni corrispondenti della settimana che segue, con altri sacrifici, cambio di cibo ed acqua per i santi. In certi giorni, tuttavia, possono essere celebrati allo stesso tempo, diversi altri santi i quali, sovente, portano dei nomi che non sono altro che diversi appellativi con cui si invocano gli stessi personaggi divini... Il Candomblè termina sempre con una messa celebrata nella chiesa del “Signore de Bonfim” l’ultimo Venerdì e con un pranzo finale la Domenica seguente. Le feste di Gantois continuano sempre, analogamente a quelle di cui parlava Nina Rodrigues ma, a meno che quest’ultima non si sia sbagliata, non durano che quindici giorni, alla fine di Settembre. La prima cerimonia è quella del lavaggio, argomento su cui ritorneremo in seguito, e che segna l’inizio della stagione santa. L’ultima, detta “baiani”, che si celebra in un giorno il più vicino possibile al 30 Settembre, giorno di S. Geronimo, uno degli equivalenti cattolici di Shangò, è una cerimonia di chiusura dove i fedeli, portando sulla testa il casco “baiani”, visitano le diverse parti del Candomblè come segno di saluto e per indicare inoltre che “le funzioni obbligatorie dell’anno sono terminate”. Se dal Gantois passiamo ad altri santuari le cose cambiano. In un “Candomblè di Ogun le feste durano dalla seconda settimana di Settembre alla prima di Dicembre e le cerimonie non hanno luogo che la domenica. La prima per Oshalà, la seconda per Oshoguiàn, le seguenti tre per Ogun (che è il dio del “babalorishà” del luogo); le altre domeniche sono dedicate rispettivamente a Shangò, Oshum, Oshossi, Yemanjà e Yansà: la domenica dopo e il lunedì seguente sono per Omolù; la dodicesima domenica e il lunedì seguente per tutte le divinità dell’acqua; il Candomblè termina con un pranzo in comune offerto a Ogun. Nella casa di Oshumarè, le feste si svolgono domenica dopo domenica, ma durante il mese di gennaio e all’inizio di febbraio. Questi esempi, fra i tanti, servono senza dubbio a dimostrare come varino i tempi sacri da un terreiro all’altro. Queste feste annuali possono, tuttavia, non verificarsi affatto se il Candomblè è in lutto e, per questa ragione, rimane chiuso tutto l’anno. Al tempo della mia prima visita a Bahia, il Gantois non celebrò le sue feste perché aveva perduto uno dei più stimati ogans della setta. In occasione della mia ultima visita era la casa di Oshumarè che aveva chiuso le sue porte, la “Ialorishà” che la dirigeva con grande amore ed autorità era mancata. Il lutto è l’unico impedimento; in ogni altra circostanza le feste annuali hanno comunque sempre luogo e sempre con un’affluenza enorme. Comunque, se nei Candomblè tradizionali di Bahia, il culto degli Orishà si riduce a un ciclo di feste che vanno da due a quattro settimane circa, questo non vuol dire che il santuario non resti aperto anche per altre cerimonie pubbliche o private, durante il rimanente anno. A volte dei membri della setta, ricchi e pii, offrono un sacrificio e una danza nel giorno dell’anniversario della loro divinità personale e vi invitano i loro amici. Accanto alle cerimonie cosiddette fisse, ci sono le cerimonie straordinarie, per esempio: se il terreiro ha l’incarico di iniziare qualche giovane donna, una parte del rituale dell’iniziazione, come si è già visto, consiste in feste brillanti e molto frequentate, tra le altre: l’orunkò e il panan. Se un membro della confraternita muore, si celebre un ashèshè, ecc. Qui si vede che le grandi feste annuali non fanno che dividersi, come l’epoca della sacralizzazione più grande, su una base temporale religiosa continua. Tutti i giorni dell’anno formano una trama di momenti differenziati, qualitativamente eterogenei. Abbiamo forse il diritto di confondere il calendario africano con quello gregoriano? A prima vista potrebbe

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sembrare di si, poiché il primo dell’anno è segnato da una festa speciale, l’a-i-è, cioè la festa di tutti, destinata a chiedere agli dei la felicità dei fedeli e la prosperità dei campi. Ma, anche se elementi mistici si infiltrano nell’a-i-è, quest’ultimo è piuttosto una festa profana che una festa religiosa, destinata più a cementare i legami sociali tra i membri di una stessa setta che ad aprire il calendario dell’anno africano. L’anno del Candomblè non si identifica con l’anno legale; non va dal 1° di gennaio al 31 dicembre, ma va dalla fine di agosto all’inizio del seguente mese di agosto, o dal primo venerdì di settembre alla fine di agosto dell’anno seguente, a seconda dei terreiros. Manuel Querino non si sbagliava quando scriveva: “E’ l’inizio delle feste del feticismo”. La cerimonia che apre l’anno religioso è definita sia con il nome di: “igname nouvelle”, fatto che la collega al ciclo delle feste agricole Africane, così come il nome de “l’acqua di Oshalà” che la collega al ciclo delle adorazioni divine . Questo doppio appellativo indica bene la molteplicità delle funzioni implicate nei rituali; noi dobbiamo, per la comodità della presentazione, separarle, senza dimenticare peraltro che esse sono inestricabilmente unite. In Africa nessuno può gustare i frutti dei nuovi raccolti senza prima procedere a dei sacrifici alle divinità ed agli antenati, ed è solo quando il sacerdote ha toccato il primo frutto del piatto di igname, che tutti i fedeli ne possono mangiare senza danno. Questo rito di offerta di primizie e di desacralizzazione degli alimenti ha luogo nella cerimonia brasiliana: il pranzo comune riveste, in effetti, una grande importanza: "si sacrifica una capra (per quel pranzo) e la si cuoce con degli ignames, l’olio di palma non è permesso nella preparazione del piatto, ma solamente della “boue” (?) della Costa. Quando il piatto è ritirato dal fuoco, è distribuito fra i presenti, che subito si allontanano". Ma questo pasto non è che un momento della cerimonia che si inserisce tra il lavaggio degli oggetti del pegi e la danza finale della notte. Il rinnovamento della vegetazione, simbolizzato dall’ ingestione dei primi ignames, si accompagna ad un rinnovamento infinitamente più importante: quello delle forze sacre, poiché queste possono esaurirsi se non sono ricreate o, per lo meno, periodicamente fortificate. Arriviamo così alla seconda funzione della festa. Si tratta della rappresentazione del mito di Oshalà, di cui P. Verger ed io, abbiamo dato due versioni, molto simili: Oshalufà, cioè Oshalà il vecchio, viveva nel regno di suo figlio Oshoguiàn, ossia Oshalà il giovane, ma era già da tanto tempo che non vedeva il suo altro figlio Shangò e il cuore gli doleva. Oshalufà non voleva così morire prima di averlo abbracciato per l’ultima volta e si decise quindi di mettersi in viaggio. Prima di partire consultò, come era d’obbligo, il babalaò per sapere se la sua impresa avrebbe avuto successo; il “babalaò” gli consigliò di non partire se non voleva rischiare la morte. Oshalufà, tutto rattristato, se ne tornò a casa, ma il desiderio di rivedere Shangò era troppo forte così andò un’altra volta dal babalaò per chiedergli se, con un sacrificio, non avrebbe potuto scongiurare il destino sfavorevole. L’indovino, di fronte alla sua insistenza, dopo avergli ripetuto che il suo viaggio avrebbe comportato molti pericoli, gli assicurò che avrebbe evitato di morire a condizione di non rifiutarsi mai di rendere un servizio richiesto e di non lamentarsi mai. Lungo la strada Oshalufà incontra tre volte Eshù che gli chiede di aiutarlo a caricarsi sulla testa, successivamente: un barile di olio di palma, un carico di carbone ed un altro barile di olio di mandorle; ogni volta Eshù lascia cadere il contenuto sul vecchio Oshalufà. Quest’ultimo non si lamenta mai, si lava solamente e continua a rendere i servizi richiesti. Quando, finalmente, entra nel regno di Shangò, egli vede il cavallo di quest’ultimo che era scappato, così lo acchiappa per riportarlo al suo proprietario, ma i servitori incaricati di andare a riprendere il corsiero fuggito, pensano che Oshalufà sia un ladro di cavalli, gli piombano addosso, gli spezzano braccia e gambe a colpi di manganello e lo gettano, in fine, in una prigione. Sette anni doveva restarci. Nel frattempo Shangò sul suo trono, avverte una indefinibile tristezza. Le donne del suo regno sono sterili, i giardini non producono più raccolti... Così consulta un babalaò che gli rivela che tutta la sua

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infelicità gli deriva dal fatto che un innocente soffre ingiustamente in prigione. Shangò fa condurre davanti a se dei prigionieri e riconosce fra questi suo padre. Manda allora i suoi schiavi a cercare dell’acqua vestiti di bianco, senza parlare, in segno di tristezza, alla vicina fontana per lavare Oshalufà. Poi offre al vecchio per via delle sue braccia e gambe rotte un aiuto: Aira, che lo riporterà al palazzo di Oshoguiàn caricandoselo sulle spalle o anche portandolo in braccio. Oshoguiàn, molto preoccupato per l’assenza del padre, quando lo vede ritornare manifesta la sua gioia facendo preparare un gran banchetto in suo onore. Il rituale dell’acqua di Oshalà non fa che seguire il mito: gli ashè di questa divinità sono ritirati dal pegi per restare per sette giorni in un’altra custodia e questo è il viaggio di Oshalufà da suo figlio Shangò. Il mattino del settimo giorno, le figlie degli dei, vestite di bianco, recando sulla loro testa i vasi liturgici, vanno, senza parlare ne cantare, con il loro gentile passo ritmato, come un tempo le Greche delle Panatenee, a cercare la fontana dell’acqua sacra che servirà per lavare le pietre. Un velo bianco, l’ala, copre i loro corpi ieratici e pure il cielo, come se volesse partecipare alla festa, è di un biancore diffuso e luminoso. E’ il lavaggio di Oshalufà. Non solo gli ashès di Oshalà saranno in tal modo purificati ma l’acqua lustrale irrorerà tutte le pietre, tutti gli oggetti rituali ed è per questa ragione che noi abbiamo affermato che è questa la cerimonia che segna l’apartura dell’anno africano. Tutte le macchie che gli uomini peccatori hanno lasciato sulle cose sacre sono ormai cancellate e una nuova vita può ricominciare. Una seconda processione simbolizza il ritorno di Oshalufà al palazzo del suo altro figlio Oshoguiàn: le ragazze riportano le pietre di Oshalà dalla custodia dove erano state riposte provvisoriamente nel pegi del terreiro. Questa seconda processione, al contrario della precedente silenziosa, all’alba, è accompagnata da canti gioiosi: Pèrè quètè Pèrè quètè Iua, ònianbadò Pèrè quètè baba. Una settimana dopo ha luogo la cerimonia del “pilon” (pestello) che commemora il pranzo offerto da Oshoguiàn al suo vecchio padre. La sala delle danze è adornata da piccole strisce di tela bianca che oscillano appese al soffitto, sui muri sono stati dipinti innumerevoli “pilon” (pestelli) ed è proprio nel "pilon de Shangò" che sarà macinata la farina di mais bianco che costituirà la base del pasto. E’ qui che la cerimonia dell’acqua si unisce a quella degli “ignames” (primizie) e che il cambiamento dell’anno mistico si collega al ciclo della vita vegetale. La terza funzione dell’ "acqua di Oshalà" è quella della purificazione dei membri della setta. Purificazione che può essere al tempo stesso un rito di fecondazione: la frustrazione vegetale. La Ialorishà, munita di un piccolo ramo o di un pezzo di liana, batte sulla schiena dei membri della setta. Questa “disciplina” ha per effetto di fare perdonare le azioni più praticate nel corso dell’anno (male azioni?)(?U?80). Frazer ha lungamente insistito sul carattere di fecondazione di rituali analoghi e, a favore della sua teoria, bisogna notare che questa flagellazione simbolica ha luogo durante la festa degli “ignames nuovi” (primizie), nel momento in cui la natura dona tutti i suoi frutti. Tuttavia noi pensiamo che la cerimonia prolunghi piuttosto quella del lavaggio lustrale degli uomini. Manuel Querino non ha torto di farne una specie di “riscatto” o “perdono dei peccati” al momento in cui sta per iniziare il nuovo anno africano. L’ “acqua di Oshalà” ci appare così nel suo triplice aspetto: festa agraria, apertura del tempo sacro ed, infine, purificazione della comunità. Questo tempo sacro è, al medesimo tempo quello del ritmo della vegetazione e quello del ritmo sociale. La natura, il soprannaturale e il sociale non costituiscono che una stessa e unica realtà. Dopo questa purificazione annuale, il ritmo delle grandi feste può incominciare, le iniziazioni possono svolgersi e i figli degli dei possono compiere i loro doveri verso i loro "padroni della testa". Pur tuttavia, questa continuità mistica che congiunge l’acqua di Oshalà dell’anno precedente con quella dell’anno che segue, ad un certo momento è interrotta da un periodo

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profano. Un periodo di espulsione degli Orishà che sono tenuti a ritornare in Africa, periodo che va dal Carnevale alla fine della settimana santa. E’ chiaro che questo periodo di dissacrazione del Candomblè o del suo, diciamo, allontanamento dalla suo carattere Africano, ha la sua origine nelle costrizioni dovute alla schiavitù. I padroni non permettevano ai loro schiavi Neri di danzare durante la settimana di Passione; tutti dovevano dimostrare tristezza e così pure gli schiavi africani, a forza, furono obbligati a seguire gli ordini ricevuti. I Candomblè serravano quindi le loro porte durante la Settimana Santa. Questa chiusura però era preceduta da una cerimonia speciale, quella dell’espulsione provvisoria degli Orishà, chiamata lorogun. Il cattolicesimo non fa altro che fornire la data del lorogun ma non la sua funzione. Il tempo sacro, in effetti, si compone sempre di periodi di caos e poi di ri-creazione, di distruzione dell’ordine normale e del ristabilimento dell’armonia perduta. Ci sono momenti di confusione e, giustamente, sia il Carnevale che la Settimana Santa ne danno un’immagine con la loro irruzione nel mondo. Durante il Carnevale gli uomini si travestono da donne e le donne da uomini, le classi sociali si mescolano nei tre giorni e nelle tre notti di danze senza fine, tutti i tabù di contatto e mescolanza che garantiscono la perpetuazione del cosmo sono violati. La natura è ordinatamente suddivisa in un certo numero di compartimenti stagni, di domini separati che devono restare separati e non comunicare fra di essi affinché le cose non ricadano nel primitivo disordine. Il Carnevale distrugge questi compartimenti della realtà, facendo partecipare tutti a tutto. La Settimana Santa, a sua volta, distrugge agli occhi dei cristiani i fondamenti stessi della gerarchia cosmica; questa gerarchia presuppone che le cose esistano solo per l’irradiazione delle forze divine; ora l’uomo, giustamente, uccidendo il Cristo, si rivolta contro queste stratificazioni e, distruggendo il “logos” che assicurava la razionalità del reale, rischia, per questo, di rigettare la terra nella notte del caos primitivo. L’Africano di Bahia può ben accettare queste date del calendario occidentale, poiché anche lui ha bisogno di fare passare, ogni anno, il mondo nella notte del caos prima di ristabilire con un rituale l’ordine e l’armonia. Il “lorogun” è considerato come la partenza degli Orishà per la guerra, le rivalità latenti tra le divinità e, fin qui, contenute, potranno adesso scatenarsi in piena libertà, producendo lotte violente: Shangò contro Ogun, Shangò contro Ossain, Ogun contro Odè, Oshum e Yansà contro il loro comune marito... Per comprendere bene il significato di questa cerimonia bisogna dunque metterla a confronto con quella dell’"acqua di Oshalà". I diversi compartimenti della realtà che distinguono ogni divinità, invece di formare degli aggruppamenti complementari e ordinati, si distruggono con le lotte degli dei, e questo non ci da nient’altro che un’immagine del caos. L’"acqua di Oshalà", invece, il dio più grande di tutti gli Orishà, colui che regna nel cielo e che, in fondo, ha rimpiazzato Olorun quando quest’ultimo si è ritirato, lavando indistintamente tutti i “feticci” del Candomblè e infondendo loro tutta la stessa forza unificante e purificatrice, ristabilisce l’ordine perduto tra i diversi domini del reale che qui ritrovano la loro complementarietà allo stesso tempo che il loro funzionamento armonioso, a beneficio di tutti i mortali. Ciò vorrebbe dire che il Candomblè non può apparire durante il Carnevale? Sicuramente no, ma non vi compare più come istituzione religiosa. Esiste a Bahia un detto che alcune volte ho ascoltato e che mi ha piuttosto colpito ed è: “Candomblè per ridere”. Questo termine ha un significato equivoco: come se volesse definire la caricatura di una festa religiosa, una commedia irriverente verso delle cose sacre. Ma non è così. Il “Candomblè per ridere”non è un semplice divertimento, può avere anche una funzione seria. Vi descriverò dove io ne ho trovati di questi particolari Candomblè: il primo presso i pescatori di Itapoan; prima che inizi la stagione della pesca, domandano a Yemanjà, la dea dell’Oceano, di essere loro favorevole, di riempire le loro reti con pesci chiamati sharèu. Le offrono dei regali e celebrano allora dei “Candomblè per ridere”: Dammi il permesso ai Dammi il permesso ai àlo dè Yemanjà i àlo dè Yemanjà i

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Come si vede quello che si richiede non manca di gravità, poiché si chiede alla dea dell’Oceano il permesso necessario per entrare nel suo regno. L’espressione "Candomblè per ridere" si ritrova ancora nell’afochè. La maggior parte di questi afochè appartengono alla nazione Bantù ma ne conosco pure altri tra i Nagò. E’ dunque la discesa della confraternita africana nelle movimentate strade della città, ma non più sotto forma di un insieme di sacerdoti e fedeli, ma piuttosto sotto quella di una corte reale, con il suo re, la sua regina, le principesse, le guardie e le dame d’onore. Ora, questa discesa della corte in mezzo alla gioia esuberante del Carnevale è preceduta da un padè per Eshù e una serie di canti e danze in onore, via via, di tutti gli Orishà del panteon africano. Si tratta ancora di un "Candomblè per ridere", ma, tuttavia, anche qui la sua funzione originale è seria. Il più celebre di questi afochè è, in effetti quello di Otum, Oba d’Africa, o Gantois: ora, i due termini di Oba, re e di Otun, capo della destra, indicano bene che questa processione rappresentava la visita che i sovrani facevano al proprio popolo che si stava divertendo e quindi il Candomblè che precedeva non era altro che il simbolo della festa religiosa di fronte alla festa profana. Una pura reminiscenza africana. Che cosa significa dunque l’espressione "Candomblè per ridere"? Semplicemente un Candomblè senza transe né possessioni delle figlie da parte dei loro rispettivi Orishà. Come mi diceva una regina di Maracatù (il Maracatù è l’ afochè di Pernanbuco equivalente a quello di Bahia) : "I Santi non possono discendere perché i tamburi che usiamo sono dei tamburi che non hanno mangiato". Si tratta degli ilus e non dei tre tamburi “battezzati” delle cerimonie religiose. Il lorogun ha cacciato gli Orishà, ma se oramai non è possibile nessuna possessione, si può, tuttavia, celebrare un Candomblè assolutamente identico a quello vero, salvo l’assoluta mancanza di transe, con l’uso di strumenti musicali profani. I peccatori, di cui parlavo prima, non possiedono tamburi che abbiano bevuto il sangue degli animali sacrificati per cui le loro danze non possono, allo stesso modo, essere accompagnate da transe. Il “Candomblè per ridere” non è quindi che questo. Non è un gioco, una mancanza di rispetto o un segno di scetticismo religioso ma, al contrario, è un omaggio, ma un omaggio in cui gli uomini restano soli, senza ricevere la visita divina. Il Candomblè può quindi continuare, anche se è "chiuso", continua a ricordo di antiche corti reali e non come istituzione religiosa, ma anche così l’afochè non è ammesso dalle sette più tradizionali, i terreiros più antichi ne percepirebbero un odore di sacrilegio. Così l’anno non ci sembra tanto come una successione di mesi ma piuttosto come un periodo composto da momenti eterogenei, interrotti da periodi di caos che terminano, alla fine con una ricreazione del mondo. Tutto questo vale anche per la settimana. I giorni che la compongono non sono solo una sequenza di ore scandite da orologi o da quelli a polso (così amati dai nostri Afro-brasiliani), ma ognuno di essi è in corrispondenza con una o più divinità della stessa natura, che da a questo giorno una speciale sfumatura religiosa e lo differenzia, in modo mistico, da quello che lo precede così come da quello che lo segue. Queste corrispondenze possono variare da una città all’altra, i rapporti tre questo o quel dio, questa o quella giornata, non sono esattamente gli stessi a Bahia, a Recife e a Porto Alegre, per non parlare poi di Rio. Queste varianti non ci devono sorprendere, esistono anche in Africa. La distribuzione degli Aroun-Osè non è la stessa a Ibadan che a Ifè; a maggior ragione poi quando si passa dalla settimana di cinque giorni degli Yoruba alla settimana di quattro giorni dei Fons. Nelle pagine seguenti tratteremo solo della distribuzione degli Orishà a Bahia. La sequenza che abbiamo dato corrisponde, il più delle volte, nei Candomblè di questa città , allo “shirè”, cioè a dire l’ordine nel quale i cantici e le danze sono eseguiti durante le feste pubbliche ed anche presso i Gantois, secondo i rituali di celebrazione degli dei durante le grandi feste annuali: Il Il Il Il Il Il

lunedì è consacrato a Eshù e a Omolù martedì a Ananburucù e a Oshumarè mercoledì a Shangò e a Yansà giovedì a Oshossi e Ogun venerdì a Oshalà (Obatalà) sabato a Yemanjà e a Oshum

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Infine la domenica è il giorno di “tutti gli Orishà”, esattamente come in Africa il 5° giorno della settimana yoruba è l’odjo-osè "il giorno santo, perché in quel giorno si festeggiano tutti gli dei, anche quelli di cui non si era fatta menzione prima". Si comprende come sia Eshù ad aprire la settimana poiché egli è il dio delle aperture; infatti sta vicino alla porta del Candomblè per sorvegliarne l’entrata, facendo pure da guardiano del portone del tempio. Eshù reclama il primo sacrificio, come abbiamo già detto, per la sua funzione di intermediario tra le divinità e gli umani; è quindi imprescindibile che egli si trovi all’inizio della settimana. Ma perché gli hanno messo accanto Omolù? Ci sono due possibili interpretazioni e neppure contraddittorie. Eshù è un ragazzaccio, a cui piace fare degli scherzi e che si comporta da birichino durante tutta la giornata, è diventato l’aiuto di maghi e stregoni ed è per questo che si ha paura di lui. Omolù è il dio del vaiolo, delle malattie della pelle, delle epidemie che, così di sovente, hanno decimato gli schiavi in Brasile, per questo è considerato una divinità pericolosa da adescare all’inizio della settimana. Questi dei, in verità, sono così crudeli solo con quelle persone che non rendono loro omaggio come dovuto. Al contrario sia l’uno che l’altro, si rendono favorevoli se viene offerto loro del cibo o il sacrificio che reclamano dai loro fedeli. Non a caso Edison Carneiro chiama Omolù "il medico dei poveri", il protettore degli umili neri di Bahia. C’è, pur tuttavia, un’altra ragione ancora: Eshù e Omolù sono due divinità chtoniennes (?U?85 – sotterranee, oscure). Frobenius ha molto insistito sul legame tra Eshù-Legba e lo spazio per doverci tornare sopra in questo contesto; Le Hèrissé, da parte sua, ha scoperto che Salpata-Omolù è, più che il padrone del piccolo vaiolo, il "feticcio del sole", per usare la sua espressione, o per usare quella degli Africani: "il re della terra". Il piccolo vaiolo non è che il castigo inflitto da Omolù a tutti quelli che tralasciano o smettono di adorarlo, non è la sua caratteristica principale. Riassumendo: il lunedì è, di conseguenza, consacrato agli dei della terra. Dopo che ci si è conquistati il benvolere di Eshù e Omolù, la tradizione vuole che, per rispetto, si inizi dalle divinità più vecchie; e qui vediamo una caratteristica africana legata alle classi anziane e alla differenza dei sessi. Il martedì è il giorno di Ananburucù o Nananburucù o, più semplicemente e affettuosamente ancora, Nanan, che è considerata a Bahia come la più "vecchia delle divinità" una divinità delle acque, poiché rappresenta l’arcobaleno e la funzione dell’arcobaleno è quella di prendere le acque dei laghi o del mare e portarle in cielo per nutrire le nuvole. Non definiremo, tuttavia, il martedì come il giorno delle acque come il lunedì era per noi quello della terra, ma riserveremo questa definizione per il sabato. Qual è dunque il legame vero tra Nanan e Oshumarè? Anche qui ci sono due possibili interpretazioni. Le vecchie nonne sono sempre bambinaie per i più piccoli che potranno domandare loro quello che vogliono e saranno sempre ascoltati. D’altra parte Oshumarè è considerata l’intermediaria tra la terra e il cielo che lei unisce con il suo lungo velo multicolore e può, di conseguenza e se è favorevole, portare più in fretta le preghiere dei mortali agli dei del cielo. La seconda giornata, se questa interpretazione ha un suo fondamento, sarebbe dunque la giornata delle intercessioni; ma c’è un’altra causa ancora di questo legame e che è, forse, la più importante (gli odierni Neri di Bahia non conoscendo più le ragioni che i loro padri avevano a proposito di queste connessioni, ci obbligano a interpretarle, invece di accontentarci a raccogliere delle informazioni). Nanan e Oshumarè vengono dal paese che la gente di Bahia chiama con il nome di Gègè Mahi sono delle divinità del Dahomey incorporate (ma incorporate già dall’Africa) al panteon yoruba. Il martedì sarebbe quindi il giorno dell’omaggio nagò al paese gègè. In quanto al mercoledì, non troviamo nessuna difficoltà. E’ consacrato al dio del fulmine Shangò e alla sua principale compagna Yansà che presiede alle tempeste più torrenziali e ai venti più tempestosi. Shangò ha due altre spose: Oba e Oshum, qui, però, è raffigurato in compagnia di quella delle sue mogli che lo aiuta nel suo lavoro di "lanciatore di fulmini". C’è un mito, a proposito di Shangò, ed è che lui aveva una "magica capacità": quella di sputare fuoco dal la bocca, abilità che Yansà gli aveva rubato diventando, pure lei, capace di farlo. Ma se anche non lo sputava, con la sua spada "tracciava nell’aria dei cerchi lampeggianti" che imitavano il lampo:

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Shangò e Yansà se ne andarono tutti e due nel paese dei Malès (Musulmani); questi continuavano a sgranare i loro rosari senza fare caso a Shangò, questi pregò Yansà di mettersi dietro a lui e interpellò i Malès, ma questi non si muovevano proprio allora Shangò scaricò su di loro un fulmine, mentre Yansà, brandendo la sua spada e fendendo l’aria creava il lampo. I Malès che non conoscevano il fulmine si spaventarono e, gettandosi per terra, fecero sottomissione a Shangò... Il capo dei Malès cantò: E oba emode emole loce riconoscendo l’autorità e il dominio di Shangò su di essi. Ed è con questo canto che si apre il culto dei Musulmani. Il mercoledì è dunque il giorno consacrato all’adorazione del fuoco. Il giovedì non presenta difficoltà particolari, le due divinità che corrispondono a questo giorno sono: Oshossi, che è il protettore dei cacciatori e Ogun che è quello dei fabbri. Essi sono doppiamente legati l’uno all’altro prima di tutto perché sono fratelli e poi perché sono quelli che noi abbiamo definito: “le divinità dell’aria aperta”. Il giovedì è dunque sia il giorno degli dei le cui pietre si trovano al di fuori del pegi della casa e il giorno dell’omaggio ai gruppi o caste degli artigiani e a quelli che presiedono alle loro attività sociali. Secondo il parere dei membri dei Candomblè più tradizionali, è il Cattolicesimo stesso che spiega il legame tra Oshalà e il venerdì. Essendo Oshalà figlio del grande dio Olorun, il suo equivalente cattolico è Jesù Cristo e Gesù Cristo è morto di venerdì. Gli Africani di Porto Alegre che, al contrario, lo festeggiano di domenica, mi hanno dato una spiegazione analoga: la domenica è il giorno della messa. Nei due casi la posizione di Oshalà nella settimana è determinata dalla sua equivalenza con il Cristo. Dunque, per Bahia, il venerdì è il giorno del culto del cielo. Sabato è il giorno dell’acqua. Sotto la sua duplice forma di acqua salata con Yemanjà, e di acqua dolce con Oshum. Le genti di Bahia le uniscono facilmente nel medesimo culto. Quindi la festa della Purificazione che è consacrata a Oshum è anche quella dell’omaggio a Yemanjà, per lo meno per uno dei Candomblè figli di quello di “lingua di Vacca” e che, tra i canti che ho potuto ascoltare durante la cerimonia di offerta alla dea del mare, ne ho notato uno dedicato pure alla dea dell’acqua dolce: lè – iè – queè – èèdèè è iè – è minha shau èlè ondé mora iè – ièè ora iè è Oshum. La domenica, infine, riunisce tutti gli Orishà, sia quelli celebrati durante la settimana, che quelli che non vi avevano preso parte, per mescolarli tutti in una stessa adorazione. C’è dunque sempre una specie di accordo tra le divinità all’interno della stessa giornata. Ma se da qui passiamo alla sequenza dei giorni della settimana vi troveremo un ordine logico? Gli schiavi arrivati in Brasile, abituati a delle settimane di quattro o cinque giorni, hanno dovuto adattarsi a quelle di sette giorni ridistribuendo i loro dei in una maniera differente. E’ chiaro che questa faccenda non si è potuta svolgere se non con qualche confusione ed è per questo che si riscontrano variazioni da città a città. Non si sarebbe potuto seguire un ordine genealogico e, i seguenti frammenti ne sono un esempio: il mercoledì lega il marito alla moglie: Shangò e Yansà; il giovedì a due fratelli: Oshossi e Ogun. Ma Nanan è la madre di Omolù e lei si trova posta accanto a suo figlio. Oshalà è il padre di Yemanjà, che gli segue immediatamente dopo, ma, per contro, tutti gli altri figli di Yemanjà sono situati molto più avanti della loro madre. L’ordine delle adorazioni non segue quindi quello dei matrimoni, delle nascite e delle fratellanze divine. Un’ipotesi è quella di attribuire le sequenze ai quattro elementi:

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• • • •

La terra (lunedì) Il fuoco (martedì) L’aria (mercoledì) L’acqua (sabato)

A queste aggiungerei la società degli uomini (giovedì) spezzando i quattro elementi in due coppie o parità divine come se la società degli uomini fosse la loro intersezione, ma, anche qui, c’è da fare un’obbiezione che rende difficile da sostenere questa interpretazione ed è che il primo paio è diviso in due dal martedì dove si rende omaggio a una divinità dell’acqua e al dio che trasporta l’acqua dalla terra al cielo. Una terza possibilità è che l’ordine di distribuzione degli Orishà obbedisca ad un piano progressivo che ci porterebbe poco a poco dall’uomo supplicante al dio benedicente, il che fa sembrare che, in un certo qual modo, coloro che hanno organizzato il calendario delle feste ci abbiano pensato con cura. Avremmo così una divisione in due serie di tre giorni interrotta da una giornata di transizione assai logica: • • • •

tre giorni sul rapporto tra gli uomini e gli dei, cioè: il lunedì consacrato alle divinità che aprono il tempo il martedì a quelle che intercedono per gli esseri viventi il mercoledì a quelle che puniscono gli uomini quando non compiono i propri doveri religiosi, malgrado le intercessioni, (in effetti sia a Bahia che in Africa, la morte causata dal fulmine è considerata come un castigo, una punizione per le cattive azioni).

La fine della settimana sarebbe consacrata agli dei, per i quali Eshù ci ha aperto il cammino, a cui Oshumarè ha portato le nostre preghiere e che non perdonano la nostra empietà o infedeltà, gli dei del cielo, del mare, dei fiumi, tutto l’insieme degli Orishà. La giornata di giovedì ben dimostra una transizione tra due gruppi, poiché si tratta di divinità certe ma ancora legate a quegli uomini che, sulla terra, pregano, celebrano i culti e che sono organizzati in “clan” di cacciatori o in caste di fabbri. Tuttavia c’è ancora qualcosa che non ci convince in questa spiegazione dell’organizzazione dei giorni ed è che, nell’ultimo gruppo, le divinità dell’acqua vengono dopo quelle del cielo: Oshalà sarebbe più appropriato se messo il sabato, perché la graduazione fosse più marcata. Le divinità sociologiche passerebbero a quelle dell’acqua, che pure coinvolge la società visto che Bahia è la città sei marinai e dei pescatori e poi a quelle del cielo, le più alte di tutte, che presiedono la domenica in onore di tutti gli Orishà. Si sente qui l’influenza del cattolicesimo imperante nel paese che ha portato in un ordine che, senza questo unico cambiamento, sarebbe logico, un elemento di disturbo. In Africa, se si eccettua il quinto giorno degli Yoruba che è quello di tutti gli Orishà, i quattro primi giorni sono legati ai quattro punti cardinali: • • • •

il il il il

primo all’est, che è la casa di Eshù secondo al nord, che è la casa di Ogun terzo all’ovest, che è la casa di Shangò quarto al sud, che è la casa di Oshalà

E l’ordine della loro distribuzione è quello stesso delle figlie che danzano intorno al palo sacro. C’è una qualche somiglianza con il nostro calendario della settimana, il che non dovrebbe sorprenderci perché questo calendario è lo stesso per tutti i Candomblè e che non può quindi essere fatto da babalorishà autonomi ma che, piuttosto, deve essere stato opera di “babalaò” dato che essi dominano l’insieme delle sette. Un ordine analogo, abbiamo detto, ma pur sempre differente, poiché invece che seguire il movimento della danza religiosa, seguirebbe piuttosto il disegno con il quale i “babalaò” rappresentano lo spazio composto da due linee che si incrociano, come le braccia di una croce: est – ovest, nord – sud. Si comincia dall’est, con Eshù – per passare all’ovest, che è il paese dei Gège-Mahi. Il movimento est – ovest e nettamente segnato da una linea orizzontale che unisce i due punti. E’ l’inseguimento di Shangò dietro a Yansà, inseguimento che prende la forma del percorso solare, da oriente a

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occidente o, come dice il mito, fino al punto in cui Oia-Yansà si getta in mare, quel mare dove, giustamente, va a dormire il sole.

Al mito dell’inseguimento di Shangò dietro a Yansà corrisponde il giorno seguente, quello della ricerca di Oshossi da parte di suo fratello Ogun. Benché quest’ultimo mito non ci dia un’indicazione sul senso della peregrinazione, notiamo tuttavia che si svolge a partire dalla costa per penetrare nella foresta (Osain) e quindi, seguendo la cartina della Nigeria, da sud verso nord; questi due punti cardinali si ritrovano alla fine della nostra distribuzione settimanale degli dei con Ogun, che abita a Nord e Oshalà che abita al sud. Yemanjà è anche il mare che si infrange sulle rive meridionali del paese Yoruba. Tutto quanto detto resta pur sempre un ipotesi di lavoro, che a volte si complica, come per esempio per il fatto che Omolù, messo a lato di Eshù, è anche un dio gègè-mahi e, di conseguenza, venuto dall’ovest. Concluderemo dunque pensando soprattutto che forse Ogun è separato da Oshossi per presiedere il martedì, il secondo giorno dunque della settimana, come in Africa, che i Neri di Bahia non sono arrivati a stabilire un ordine così preciso come quello, nel “turnus” sacro intorno ai quattro punti cardinali, della settimana Yoruba. Di altre preoccupazioni, di cui abbiamo accennato all’inizio di questo argomento, non siamo riusciti a trovare un senso armonico. La distribuzione degli Orishà secondo i giorni della settimana sembra più un lavoro del caso secondo gli eventi che di un piano teologico ed è più legata alla storia dei Candomblè brasiliani che alla mistica africana. Se la nostra perplessità a questo proposito da un valore negativo alla corretta ricerca, resta pur tuttavia che ogni giorno ha la sua sfumatura religiosa ed è questo che ci importa per definire il tempo sacro che coinvolge una diversità corrispondente: quella dei rituali privati. I primi studi fatti sui Candomblè erano come ipnotizzati dalle grandi feste pubbliche; ora queste lasciano intravedere quello che mi sembra il punto essenziale: la profonda influenza che la religione africana esercita sui suoi membri. Che diremmo se una descrizione del cattolicesimo si concentrasse solamente nella descrizione dei gesti della messa e lasciasse nell’ombra i comportamenti quotidiani dei fedeli? Il culto individuale o domestico presso gli Africani di Bahia occupa un posto infinitamente più grande del culto pubblico. Sembra che si incominci a capirlo e, nei libri più recenti, già si trovano molte informazioni a proposito di questo, seppure ancora troppo incomplete e assai azzardate.

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Ogni figlia degli dei che ha un Orishà e questo Orishà è legato a un giorno della settimana, deve rendergli un culto particolare in quel giorno. Non solamente astenendosi da rapporti sessuali, ma rinnovando l’acqua delle offerte del suo particolare pegi, poiché ogni figlia degli dei ha, in un angolo della sua casa, un altare consacrato alla divinità della sua testa. La sequenza dei giorni è in tal modo segnata da tutta una serie di "doveri", come si dice a Bahia, dei tabù e dei gesti sacrali, ma che sono, ogni giorno, eseguiti da persone differenti. La città è là, davanti a noi, con le sue stradine contorte, le sue case dipinte di rosso sangue o di giallo oro, di azzurro come il mare, con i suoi cortili brulicanti di bambini seminudi e si può essere certi che in qualcuna di quelle strade o case, in fondo ad un cortile, c’è una ragazza che sta compiendo i suoi doveri religiosi; un giorno l’una, un giorno un’altra, secondo il proprio Orishà. Possono conoscersi l’un l’altra o ignorarsi, possono abitare nello stesso quartiere o in quartieri differenti, ma è certo che i loro gesti sono simili. Si ha bisogno che tutte le divinità siano favorevoli e per questo ognuna di esse ha bisogno che un drappello di figli suoi, nel giorno consacrato e per il bene comune di tutti i figli dell’Africa, compia esattamente i doveri dovuti al suo culto privato. Il nostro è forse un tentativo un po’ ridicolo, quello di trovare un ordine nella distribuzione degli Orishà nel corso della settimana, poiché quello che conta in fondo è solo questa complementarietà di gesti e "obblighi" personali per il bene comune, affinchè l’insieme degli dei sia soddisfatto dei propri fedeli e li ricambi con benedizioni. L’ordine delle adorazioni importa poco, ciò che più importa è che ogni dio abbia ricevuto il dovuto omaggio. E’ per questo che ogni giorno un certo numero di “yauòs”, ma anche di ogans, di “babalaò” ecc..celebrano il loro Orishà, quello che corrisponde alla giornata, in tal modo che ognuno riceva le sue offerte, ad una data fissa, per cui la settimana diventa un’unica lunga sequenza di adorazioni. Accanto ai pegi personali, nel pegi del Candomblè, ci sono le pietre che, nel corso del “bori” o dell’iniziazione, sono state messe in rapporto ai membri della setta o "fatte" nello stesso momento. Anche queste pietre, per non perdere la loro potenza d’incarnazione, devono ricevere degli alimenti appropriati. Per questo, all’interno del Candomblè vi è tutta una serie di cerimonie private che potrebbero dilungarsi durante tutta la settimana, come le altre, ma che tendono a concentrarsi in un giorno determinato, generalmente il venerdì, quando si rinnovano le offerte del pegi. Cerimonia detta dell’ “ossè” quando si tratta delle offerte per Oshalà, Ogùn, ecc., dell’ “amalà” quando si tratta di offrire a Shangò il suo piatto preferito: il "quiabe" (hibiscus excelentus) Nota: Esiste a Bahia un mito speciale per spiegare la cerimonia dell’ “ossè”. Eccola: "Obatala manda nel mondo tutti i suoi dei per vedere quale sarà il più intelligente di tutti. Così gli Orishà partono indossando i migliori vestiti e le insegne regali, soltanto Ossè, che è il più povero di tutti, ha per abito un vecchio sacco. Gli dei vengono ricevuti ovunque con grande onore e grandi festini ma, al povero Ossè riservano solamente gli avanzi del pasto: le teste, le zampe e le punte delle ali. Ossè rosicchia quegli avanzi seduto davanti alla porta che per lui rimane chiusa e poi mette le ossa nel suo sacco. Al ritorno gli Orishà fanno il loro rapporto a Obatalà il quale chiede: mi dite che siete stati ben ricevuti e festeggiati, ma quale prova mi portate? – Solamente Ossè poté affermare la veridicità delle loro testimonianze, aprendo il suo sacco pieno di ossa. Obatalà cedette allora il suo posto a Ossè dicendogli: - sarai tu il mio successore e tutti gli Orishà saranno sottomessi a te -. E’ da allora che la testa e le ossa degli animali (sacrificati) devono essere presentati con i sacrifici per essere graditi alle divinità". In questo caso di concentrazione di culti privati in una sola giornata o, più precisamente, un quarto di giornata (dalle sei di sera alle nove) 1. si consulteranno le conchiglie per sapere qual è la ragazza che sarà incaricata di buttare le offerte vecchie, quelle che gli dei hanno finito di mangiare, se questa ragazza è figlia di Yemanjà o di Oshossi, ecc.

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2. una seconda volta per sapere dove bisognerà buttarle, nel mare, sulla strada, nei cespugli ecc. 3. si preparano delle nuove offerte, 4. le si deposita davanti alle pietre divine, dove rimarranno durante tutta la settimana fino allo “ossè” o “amalà” seguente. Ma non è tutto: una volta all’anno, ben inteso il giorno scelto è quello dell’Orishà che si possiede, si deve offrire al dio, nell’interno del Candomblè, un sacrificio di sangue, poiché il sangue, ben più del cibo, è principio di vita e le divinità non possono farne a meno. E’ ben inteso, inoltre che l’importanza di questi doveri e il loro nome varia secondo il posto occupato nella setta. Per esempio, le figlie degli dei hanno più obblighi degli ogans. Una figlia di Shangò di mia conoscenza, andava tutti i martedì sera nel santuario per passarvi la notte e preparare, il mercoledì, gli alimenti per il suo dio. Il primo mercoledì di ogni mese faceva un “dovere più grande” e, infine, il 29 giugno, offriva un sacrificio. Le oba non si muovono tutte le settimane ma solamente una volta al mese e, in più, offrono un sacrificio una volta all’anno. Infine gli ogans devono fare solo il sacrificio annuale, il giorno dei loro dei e le offerte le fanno in casa propria. Ci può essere anche l’eventualità che, accanto alle cerimonie obbligatorie ci siano dei “doveri straordinari” come, ad esempio, quando si deve chiedere a un dio una grazia speciale o che gli si faccia una promessa, od anche nel caso che si debba ringraziare il dio per una grazia concessa. In questo caso l’obbligo dura tutta la giornata, con un sacrificio al mattino presto e delle danze rituali alla sera. Gli amici che accompagnano la persona che offre il sacrificio, non possono andarsene prima che la festa sia terminata. Come si vede la durata delle cerimonie è un continuo nel tempo in cui ogni momento ha il suo valore mistico ma, su questa base continua di celebrazioni eterogenee, si staccano momenti di più forte sacralità. La continua durata religiosa è fatta da tutta la molteplicità dei culti individuali che si susseguono giorno dopo giorno; i momenti in cui la sacralità è più pronunciata sono i culti privati del venerdì, per esempio, fatti nel Candomblè, nell’interno del pegi comune, poi le feste, sempre private, d’anniversario dei membri della setta che offrono sacrifici di sangue alle loro pietre, feste che possono verificarsi di mese in mese e, infine, in 3° luogo le grandi cerimonie annuali della setta che sono pubbliche, e segnano il culmine del “continuum”, con il dramma rappresentato dalle danze estatiche. Saremmo quasi tentati di definire il Candomblè come una società di mutuo soccorso. Ogni ragazza ha degli obblighi verso solo un Orishà, ma non lo compie solo per se stessa ma per tutte quelle figlie degli dei che hanno altre divinità fissate nella testa a scopo naturalmente di rivalsa. Così lei si aspetta che anche le altre compiano i loro rispettivi doveri, durante gli altri giorni della settimana al fine che i benefici di questi gesti qualsiasi essi siano e a cui lei non prende parte si riversino beneficamente anche su di lei. La società è cosi a immagine del tempo, così come il tempio era, e l’abbiamo visto, l’immagine del cosmo. La continuità religiosa è fatta dalla complementarietà dei rituali giornalieri e di quelli successivi, dall’eterogeneità di quei momenti del tempo dentro una unità superiore che li riunisce per farne un tutto. La comunione sociale, allo stesso modo, è basata in ultima analisi su questa diversità di funzioni liturgiche: ogni ragazza lavora per le altre così come le altre lavorano per lei, il che fa si che ognuna di esse non può fare a meno delle sue compagne. La solidarietà mistica deriva dalla divisione del lavoro religioso. Qui bisogna aggiungere che la celebre distinzione che fa M.G. Gurvitch tra comunità e comunione, questi due gradi della solidarietà, corrisponde, nella nostra categoria del tempo sacro, ai momenti più profondi o di più intensa sacralità della durata. La comunità è realizzata nella complementarietà dei gesti individuali, accompagna la continuità dei giorni della settimana e ne è un effetto. La comunione ha luogo nell’unificazione di tutte le estasi particolari, quelle di ogni figlia posseduta dal suo Orishà, durante la cerimonia annuale pubblica e cioè nel momento più alto della sacralità del tempo. I concetti sociologici si rapportano pur sempre a dei concetti religiosi. Il sociale è frutto del mistico o, come dice M. Griaule: l’organizzazione spirituale e quella materiale vanno di pari in pari.

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CAPITOLO III - LA STRUTTURA DEL MONDO Se ci sono diversi sacerdoti, incaricati di adempiere a delle funzioni che non possono essere ricoperte, benché siano complementari e tutte assolutamente necessarie, è forzatamente necessario che il mondo sia diviso in un certo numero di compartimenti e che ogni tipo di sacerdote presieda all’uno o all’altro dei suoi domini. La conclusione del nostro precedente capitolo era che il sociale non era altri che il riflesso dell’eterno. La società sacerdotale non fa eccezione alla regola, ciò guida il nostro metodo. Per comprendere la concezione del mondo che si fanno i discenti degli Africani a Bahia, bisogna partire dallo studio della loro casta sacerdotale. Purtroppo, come abbiamo fatto notare nel nostro primo capitolo ,non ci si è interessati ad altri che i sacerdoti del Candomblè, con le loro gerarchie che vanno dal babalorishà o dalla Ialorishà fino alle yauò, agli ogan e agli ekedy. Si è fatta pure menzione ad un’altra specie di babalaò, ma senza approfondirne il ruolo, la sua importanza e il suo posto in un insieme strutturale particolarmente coerente. Senza dubbio, questo modo di vedere rispondeva a dei fatti storicamente certi: i babalaò che, in Africa, occupavano i primi ranghi nella classifica sacerdotale, hanno perduto il loro posto preponderante nell’opinione pubblica. Lo splendore delle grandi feste annuali, la drammaticità delle possessioni estatiche, la bellezza dei ritmi dei tamburi che lacerano le notti con la loro musica "barbara", colpiscono molto di più la gente di quanto non lo facciano i gesti, per così dire, clandestini dei babalaò che lavorano nelle stanze chiuse, senza accompagnamento di strumenti musicali, cantici o danze, circondati solamente da poche persone. Un Martiniano di Bomfim, per un momento, ha potuto avere un ruolo prestigioso per via del suo viaggio in Africa, dimostrando la sua scienza e la sua cultura, sia profana che africana. Dopo morti sembra che i babalaò spariscano dalla scena. Ci sono state, effettivamente, delle vere guerre tra i babalorishà e i babalaò in lotta per sapere chi avrebbe ricoperto il più alto strato sociale ed è evidente che questo conflitto si è solidamente concluso con la vittoria dei primi; ma, come sempre, “la struttura è più forte della storia”. Se c’erano i babalaò voleva dire che questo gruppo sacerdotale era adibito a determinate funzioni che, comunque, dovevano rimanere a cura loro, qualsiasi cosa succedesse. In fatti questo si è verificato e ne troveremo le ragioni: non si tratta di un gruppo di sacerdoti scomparso ma che una forma di divinazione è stata sostituita con un’altra, o tende ad essere sostituita. La conchiglia è, salvo possibili interpretazioni ambigue, vincitrice sul “collier d’ Ifa” e non, come si dice, i babalorishà sui babalaò. Quando abbiamo iniziato i nostri studi sul mondo del Candomblè, abbiamo subito orientato le nostre ricerche sui babalaò, poiché questi ultimi erano stati trascurati dagli etnografi che ci avevano preceduto. Al principio fu una semplice curiosità di Africanista, che non vuole ricalcare i passi già fatti dagli altri anche se ben fatti, ma che vuole invece addentrarsi in un terreno vergine. La raccolta di notizie, però via via trasformava l’immagine stessa del mondo del Candomblè che noi ci eravamo fatta. Innanzi tutto dovemmo notare che la lotta tra babalorishà e babalaò non era finita, al contrario, i babalaò avevano la convinzione della loro superiorità: “Il babalorishà non si occupa che di un solo Candomblè mentre il babalaò è incaricato di molti Candomblèe, in tutti questi , nulla viene fatto senza prima consultare i babalaò” Lo stesso informatore mi diceva pure: “Noi formiamo una massoneria, ci sono 33 livelli di babalaò, da 1 a 33; sì, vi dico che la nostra religione è una massoneria”. Di questa cifra, cioè 33 livelli, io non sono sicuro perché non l’ho mai potuta verificare. Quello che ho, in seguito, compreso è che quel babalaò era, in realtà, un raccoglitore di erbe. D’altro canto gli articoli scritti da Frikel, specificavano che una delle funzioni dei babalaò era legata al culto dei morti. Queste affermazioni di Frikel non vengono da informatori attendibili e l’interpretazione che lui da non ha un vero fondamento. Tuttavia, a proposito di questi legami, abbiamo avuto, per lo meno, una conferma indiretta dai vecchi articoli dei giornali che parlavano di un’incursione della polizia nella casa dei morti dell’ isola di “Itaparica” e dell’arresto del suo proprietario chiamato “Alaba”. Ora, questo termine è quello che in Africa si da al primo babalaò d’ Ife e :"allorché Alaba lascia questa vita, lo si sostituisce e tutti i suoi successori porteranno il nome di Alaba".

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Comunque questo non era che un punto di partenza. Scoprimmo, via via che ci addentravamo nella ricerca, diversi Alaba, uno come divinità (citato da Joào de Rio), l’altro come figlio dopo la nascita dei Gemelli (citato da Edison Carneiro), per cui è verosimile che questo termine variasse secondo l’accentuazione. Per questo non abbiamo il diritto di mischiare in una sola "massoneria" tutti i sacerdoti fuori del Candomblè. Scriveva, a questo proposito, M.P. Verger: "C’è un Alàgba che significa un anziano, termine di rispetto attribuito spesso a un Babalawo". Così, proseguendo le ricerche, arrivammo a che la triple funzione: divinazione, raccolta e culto degli antenati non include uno solo ma un triplice sacerdozio, che si aggiunge a quello dei babalorishà. Uno dei nostri informatori parlando con noi del rituale dell’iniziazione, ci diceva: "Prima di farsi iniziare bisogna consultare Ifa per sapere qual è il dio a cui si appartiene e questa è la funzione del babalaò, allora la ragazza entra nel Candomblè ed è il babalorishà che la fa; ma prima di questo ha bisogno di lavare la sua testa con le foglie della sua divinità e allora è il babalosaim che è incaricato di andare a raccoglierle, dopo aver chiesto il permesso agli antenati, permesso che è richiesto dal babaogè” ed aggiungeva: “Il babalorishà ha bisogno del babalaò, del babalosaim e del babaogè: non può fare niente senza di loro egli non è altro che il capo di un terreiro e di un gruppo di ragazze". Questi discorsi confermavano le prime informazioni raccolte e tracciavano lo schema della struttura sacerdotale degli Africani di Bahia che oltrepassa i limiti dei terreiros come santuari autonomi. Non è ancora chiara la questione delle tre specie di sacerdoti: quelli che si occupano della divinazione, delle foglie e degli Eguns, cioè se formano o no una sola e unica società, una “massoneria” gerarchizzata composta da strati di funzioni sovrapposte. Il babaosaim che avevamo conosciuto ma che era morto aveva forse il desiderio di mettersi al di sopra del babalorishà, spinto a inserirsi nella gerarchia dei babalaò, ad unirsi nella lotta dei sacerdoti per lo status sociale su l’insieme di tutti i gruppi sacerdotali dei terreiros esterni, seguendo la legge che l’unione fa la forza? Oppure la sua affermazione corrispondeva ad una realtà sociologica? I babalaò d’Africa hanno, in effetti, al loro lato degli assistenti incaricati della raccolta delle “foglie” indispensabili per i sacrifici di Fa e che fanno parte dei loro gruppi sacerdotali. Attualmente non possiamo rispondere a questa domanda ma, che i sacerdoti, a parte i babalorishà, formino o no un’unica “massoneria”, per lo meno a Bahia noi abbiamo, dal punto di vista funzionale, quattro specie di gruppi sacerdotali: • • • •

i i i i

babalorishà (o Ialorishà) che presiedono al culto degli Orishà babalaò propriamente detti che presiedono al culto d’Ifa babalosaim che presiedono al culto di Osaim, “la padrona delle foglie” babaogè che presiedono al culto degli Egun.

Questo quadruplo gruppo sacerdotale corrisponde ad una struttura quadruple del mondo, gli dei, gli uomini, la natura e i morti. Lo scopo di questo capitolo è quello di analizzare questa struttura, incominciando dalla sua immagine simbolica, quella dei sacerdoti che presiedono a ciascuno dei quattro compartimenti del cosmo.

I - I Babalao Gli Orishà possono far sapere agli uomini le loro volontà in due maniere differenti, sia possedendo i loro fedeli e predicendo loro l’avvenire durante il transe, oppure per mezzo di noci, conchiglie o altri procedimenti divinatori. Potremo chiamare questi due modi: divinazioni soggettive e divinazioni oggettive. La prima avviene solo per mezzo della celebrazione di un rituale speciale che ha luogo durante il periodo dell’iniziazione delle yauò, o subito dopo la sua conclusione e che si chiama :"il rituale del dono della parola" fortunatamente non abbiamo nessuna indicazione su come questo dono profetico, durante lo stato di transe, sia dato ai "cavalli degli dei". Potremmo citare molte piccole storie nelle quali questo dono si manifesta, ad esempio: una Ialorishà avvertita di essere perseguita dalla polizia alla quale viene raccomandato di nascondere gli oggetti del culto, oppure un babalorishà che viene a sapere che dei poliziotti vogliono entrare nel suo terreiro riceve dei consigli su come comportarsi al loro arrivo o, ancora, una Ialorishà messa al corrente di un futuro movimento rivoluzionario che sta per scoppiare nella regione ha la possibilità di fare delle provviste per non dovere soffrire la fame se quell’evento si verificasse ecc. Questa divinazione soggettiva riguarda, ben

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inteso, i membri del Candomblè e non ha niente a che vedere con i babalaò che, contrariamente ai babalorishà e alle Ialorishà, non possono mai "cair no santo" cioè: "cadere in stato di possessione". Ma gli Orishà non si scomodano personalmente che in casi gravi, per cui è importante sapere in ogni momento che cosa desiderano. Non si può neppure consultare sempre il babalaò, soprattutto se si ha bisogno di una rapida risposta. Esiste dunque un procedimento divinatorio all’interno del Candomblè, di cui abbiamo già visto l’utilizzo, nelle pagine precedenti, da parte del babalorishà o di uno dei suoi assistenti, per esempio nell’ obori ed è il procedimento per mezzo delle noci di kola (obi, oubi o oròbo) divise in quattro parti. Dopo la sacralizzazione della sala e delle preghiere, si gettano queste quattro parti per terra. • • • •

se questi quattro pezzi cadono con la parte interna rivolta verso l’alto, gli dei rispondono di sì alla domanda posta (Alafia); se solo tre frammenti cadono con la parte interna rivolta verso l’alto la risposta è no (Etawa); se solo due pezzi hanno la parte interna rivolta verso l’alto e le altre due no, la risposta è favorevole(Ejiala Ketu); se un solo pezzo ha la parte interna rivolta verso l’alto, la risposta è sfavorevole (Okanran); infine, se tutti i pezzi delle noci hanno le loro parti interne rivolte verso il basso, la risposta è disastrosa (Oyaku).

In caso di risposta negativa si ripete per tre volte il lancio delle noci. Con la promessa poi di un sacrificio appropriato il dio si calma e finisce per accettare quello che prima aveva rifiutato. Questa tecnica per sapere quale sorte toccherà, riguarda dunque i membri del Candomblè e non interessa il babalaò, ma non può darci grandi indicazioni. Gli Orishà rispondono solamente sì o no e non aggiungono nessun’altra “parola”. Il babalaò chiamato anche “il veggente” (Oluò) dispone invece di due procedimenti che gli permettono molte altre “parole”: la collana d’Ifa o “kpelè), le conchiglie di Eshù o “edilogum” (dilogun). Solamente il babalaò, in quanto sacerdote d’Ifa, ha il diritto di toccare l’ opelè che non è lo stesso che l’ “edilogum”. In effetti, un mito raccolto a Bahia ci spiega come Elegba, un altro nome di Eshù, ha regalato alle figlie di Oshum la possibilità, unitamente al babalaò, di predire la sorte con delle conchiglie: Ifa era un povero pescatore, assai miserabile. Egli fece, un giorno, un contratto con Elegba compromettendosi a servirlo come schiavo devoto per la durata di 16 anni. Elegba lo mandò nella foresta a cercare delle noci di palma e gli insegnò a prepararle e utilizzarle per le divinazioni. Ma la gente che lo veniva consultare era talmente tanta che Ifa sentì il bisogno di cercarsi una moglie che si occupasse della sua casa e così prese una “apatebi” che non era altri che Oshum. Le persone che non riuscivano ad arrivare a Ifa stesso, domandavano a Oshum di predire lei le sorti per loro. Allora Oshum si lamentò con suo marito che non conosceva l’arte di leggere l’avvenire e, a forza di insistere, Ifa prese 16 conchiglie, le preparò e domandò a Elegba che, per mezzo loro, rispondesse alle richieste poste da Oshum, Elegba accettò di mala grazia e, se adesso risponde bene alle domande delle “apatebi”, per rappresaglia, perseguita i figli di Oshum con maggior furore di quanto non perseguiti i figli degli altri Orishà. Ogni babalaò ha dunque con se una moglie che è figlia di Oshum ma non una figlia qualunque di Oshum, poiché ogni dio è multiplo, ma deve essere la più vecchia di tutte le Oshum, Yaba Omi, la sua apatebi. Ma non equivochiamo: è una sacerdotessa, una specie di babalaò femmina e non la legittima moglie del babalaò. Un tempo si dice che fosse anche condannata alla castità. E’ evidente che la poligamia, che i Neri hanno conservato in Brasile reinterpretandola naturalmente secondo le regole occidentali che considerano una moglie legittima e una o più concubine, può far si che l’apatebi sia una delle mogli dell’indovino.

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Alcune apateb e i babalaò di rango inferiore utilizzano solamente quattro conchiglie, queste ultime non possono rispondere che con un si o un no come le “oubi”. Le apateb e i babalaò di un grado superiore si servono di 16 conchiglie. In fine certi babalaò hanno un insieme di 32 cauries(?U?). Le apatebi, per contro, non hanno il diritto di oltrepassare le 16 "lettere", come spesso si dice nella cerchia africana. Anche se ci sono delle cauries lungo il litorale del Brasile, non ci se ne serve per le divinazioni, quest’ultime si possono fare solamente con le conchiglie arrivate dall’Africa e che si vendono assai care sul mercato. Ogni conchiglia ha una delle sue facce tagliata in modo da presentare un lato aperto e uno chiuso. L’indovino le scuote tra le sue due mani chiuse e poi le lancia, secondo come queste cadono viene letta la "parola" composta. Le più utilizzate sono le 16 conchiglie. Ecco, qui di seguito, la lista delle loro possibili combinazioni con i loro speciali significati a Bahia: Nome dell’odu: 1 aperta

15 chiuse

Okaran: Eshù parla

2 aperte

14 chiuse

Ejioko: Ogun parla

3 aperte

13 chiuse

Etaogunda: Ogun parla

4 aperte

12 chiuse

Orosun: Shangò parla

5 aperte

11 chiuse

Oshè: Yemanjà-Oshum parlano

6 aperte

10 chiuse

Obara: Yansà parla

7 aperte

9 chiuse

Odi: Eshù parla

8 aperte

8 chiuse

Ejionilè: Oke parla

9 aperte

7 chiuse

Osa: Aganju parla

10 aperte 6 chiuse

Ofu: Ogodo parla

11 aperte 5 chiuse

Owanrin: Omolù parla

12 aperte 4 chiuse

Ejila Sebora: Segno nefasto

13 aperte 3 chiuse

Eji ologbon: Omolù parla

14 aperte 2 chiuse

Ika: Oshumarè parla

15 aperte 1 chiusa

Obatalà parla

16 aperte o 16 chiuse il colpo è annullato, bisogna ricominciare. All’interno dei Candomblè ci sono delle figlie di Oshum le quali hanno il diritto, per la loro affiliazione spirituale, di divinare con le conchiglie. Questo significa che l’ “edilogun” non è solamente competenza del babalaò. Lo si può vedere praticato, all’interno dei terreiros, anche dalle yauò che appartengono a Oshum. Al contrario la collana di Ifa è privilegio dei soli babalaò i quali, per poterla utilizzare, hanno dovuto ricevere un’iniziazione e un apprendistato

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particolari. Questa collana, o opelè, è composta da quattro mezze noci di kola attaccate ad una catenella di ferro che viene lanciata su una tavola di modo che, rimbalzando, formi una U la cui apertura sia di fronte all’indovino (secondo il metodo yoruba, che si distingue su questo punto da quello del Dahomey); le due estremità della U sono di sesso differente e, in questo sistema yoruba, l’estremità maschile è alla destra del consultante mentre l’estremità femminile è alla sua sinistra. Questa differenza di sesso è indicata, simbolicamente, da un piccolo nodo per il sesso maschile e da una piccola frangia di quattro o cinque fili per il sesso femminile. Le mezze noci che cadono presentano sia le loro facce convesse che quelle concave. Si ottengono così 16 parole o Ifa. Un tempo esistevano a Bahia e forse esistono tuttora, delle tavolette di legno o fatè su cui si scriveva l’ Ifa come descritto dall’ opelè: due linee per ogni mezza noce caduta sulla sua faccia convessa, una linea per quella caduta sulla sua faccia concava. Siccome esistono due lati: maschio e femmina e quattro mezze noci per ciascuno, abbiamo due serie di linee che si scrivono e si leggono da destra a sinistra. E’ ben inteso che questo scrivere per mezzo di linee non è necessario in tutte le cerimonie ma è obbligatorio per colui il quale vuole fare il suo fa personale o kpoli. Quando si tratta di una consultazione ordinaria, il babalaò si accontenta di riferire l’ Ifa senza scriverlo, di pronunciare a voce alta il suo nome e di interpretarlo. Non abbiamo mai visto a Bahia, forse a parte quando abbiamo fatto fare il nostro kpoli, un babalaò scrivere gli Ifa, ma siccome è più comodo, per la loro lettura, disegnarli che descriverli minuziosamente, diamo qui di seguito e a titolo indicativo una tavola di 16 segnali doppi. 1. Destra: 4 mezze noci cadute sulla faccia concava Sinistra: 4 mezze noci cadute sulla faccia concava: Ogbe-meji 2. Destra: 4 mezze noci cadute sulla faccia convessa Sinistra: 4 mezze noci cadute sulla faccia convessa: Oye Ku-meji 3. Destra e sinistra: due mezze noci cadute sulla faccia convessa tra due mezze noci cadute sulla Faccia concava: Iwori-meji 4. Dai due lati, due mezze noci cadute sulla faccia concava tra due mezze noci sulla faccia Convessa: Ode-meji 5. Dai due lati, due mezze noci sulla faccia concava, seguite da due mezze noci sulla faccia Convessa: Irosun-meji 6. L’ Ifa che segue è assolutamente l’opposto del precedente: Dwonrin-meji 7. Dai due lati, una mezza noce sulla faccia concava e tre sulla faccia convessa: Obara-meji 8. L’opposto della precedente coppia: Okaran-meji 9. Dai due lati, tre mezze noci sulla loro faccia concava e una sulla faccia convessa: Oguda-

Meji

10. L’opposto della precedente coppia: Osa-meji 11. Da ciascun lato, una mezza noce sulla sua faccia convessa, una sulla sua faccia concava E le ultime due sulla loro faccia convessa: Ika-meji 12. La figura al contrario: Oturuson-meji 13. Da ciascun lato, una mezza noce sulla sua faccia concava, una sulla faccia convessa E le ultime due sulla loro faccia concava:Otura-meji 14. La figura al contrario: Irete-meji 15. Dai due lati alternativamente, una mezza noce sulla sua faccia concava e una mezza noce Sulla sua faccia convessa: Ose-meji 16. Dai due lati, alternativamente, una mezza noce sulla sua faccia convessa e una mezza Noce sulla faccia concava: Ofu-meji

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Questi segni sono sistemati in un certo ordine: gli Ifa sono considerati come i figli di Ifa. Essi sono nati uno dopo l’altro e i più vecchi sono, di conseguenza, considerati più forti dei più giovani. A questa prima precisazione c’è da aggiungerne un’altra altrettanto importante ed è che è assai raro che le mezze noci, sia dal lato destro che sinistro, cadano esattamente simmetriche; i 16 Ifa che abbiamo dato sono gli odu-meji ma possono combinarsi tra di loro fino a formare 256 figure, di cui ogni metà è una delle metà di uno degli odu-meji; per esempio: il braccio destro dell’ opelè può essere una delle metà dell’ “Irete” e il braccio sinistro una delle metà dell’ Irosun. In questo caso è la metà dell’ odu-meji più forte che la vince; nell’esempio che abbiamo appena fatto sarà l’ Irosun, che ha il numero 5, mentre l’ “Irete” ha il numero 14 ed è, di conseguenza, molto più giovane. Notiamo così che il modo di procedere a Bahia non presenta teoricamente niente di difficile. Ma questo ci dice che ogni Ifa, simmetrico o complesso, presente un differente significato; esso è legato a certi sacrifici che deve fare il consultante e che variano, per importanza e composizione, da un segno all’altro, come a tutta una serie di piccole storie che danno un significato mistico, fasto nefasto o neutro dell’ Ifa. Tutto questo è vero non solamente per i 16 segni dell’ opelè, ma anche per i 16 segni dell’ “edilogun” di cui abbiamo parlato prima. Da ciò si capisce che la qualità principale di un babalaò deve essere la memoria e, per venirle in aiuto, si conserva la lista di questi sacrifici, e di queste piccole storie, scritte su dei quadernetti scolastici, al riparo da occhi indiscreti. Noi ne abbiamo uno tra le mani. E’ interessante notare che gli stessi miti si ritrovano a Cuba e in Africa. Riassumendo, questi sono i quattro principali procedimenti di divinazione degli Africani di Bahia. Soltanto gli ultimi due appartengono ai babalaò, anche se i babalorishà oggi tentano di usurpare loro l’edilogun ed è vero che, anche se i babalorishà riuscissero a vincere in questo campo, i babalaò non resterebbero i soli detentori della collana di Ifa. Purtroppo, attualmente, hanno la tendenza ad abbandonare Ifa per Eshù, l’ opelè per l’ edilogun. Gli informatori ai quali ho chiesto ragione di questo strano cambiamento mi hanno dato due differenti risposte, ma che non si contraddicono affatto: la prima è che un sacerdote di Ifa deve, obbligatoriamente, prima di morire, avere addestrato un apprendista in quest’arte, se no Ifa condannerà la sua anima a vagare intorno alla terra senza potersi reincarnare ne trovare riposo; al giorno d’oggi è difficile trovare qualcuno disposto a consacrare la sua vita ad Ifa... La seconda risposta che, come si vede, è ben lontana da contraddire la prima, ne spiegherebbe, al contrario, le ultime amare frasi di condanna ed è che, più si sale nella gerarchia sacerdotale e più numerosi sono i tabù che coinvolgono la persona. Gli obblighi o i divieti dei babalaò che lavorano con l’opelè sono infinitamente più rigorosi di quelli dei babalaò che si accontentano di fare le divinazioni con 16 o 32 conchiglie. Oggigiorno i giovani vogliono godersi la vita e, poiché la cauries rispondono altrettanto bene che la collana di Ifa, i babalaò della nostra epoca, per evitare di dover sopportare un carico troppo pesante per le loro spalle, preferiscono lavorare con l’ edilogun. Il culto di Ifa è dunque minacciato, anche se sussiste tuttora a Bahia. Sia però che i babalaò lavorino con Ifa o Eshù essi devono obbedire, nelle loro divinazioni, a un certo numero di regole che adesso dovremo definire. Anzitutto la consultazione non può avere luogo in un posto qualsiasi. E qui ritroviamo lo spazio sacro che già avevamo incontrato nel Candomblè.

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Ogni casa di babalaò possiede, al di fuori delle stanze dell’appartamento, una camera speciale nella quale si interrogano Ifa o Eshù. Ma non è tutto, in questa camera già consacrata per la sua funzione, e, sovente, per suo portamento, c’è una parte che è come consacrata una seconda volta ed è la tavola su cui si gettano la collana o le conchiglie. Ci può essere un cestino di giunchi intrecciati, molto piatto, con i bordi leggermente svasati – oppure su una grande tavola un cerchio apposito per le collane degli dei (la prima, più esterna, di Shangò, la seconda di Oshalà, la terza di Ogun e la quarta, quella più interna, di tutti i colori, per tutti gli altri Orishà; l’ opelè o le conchiglie devono cadere all’interno di questo cerchio "incantato". Troveremo pure, durante la consultazione, quella legge delle partecipazioni che ci aveva tanto colpito quando ne scrivevamo nel capitolo anteriore. Affinché Ifa o Eshù possano rispondere , bisogna che si faccia precedentemente una partecipazione dentro la collana, le conchiglie e colui che consulta da una parte e il mondo soprannaturale dall’altra, poiché ogni consultante obbedisce al seguente schema: 1. il babalaò incomincia con una preghiera in lingua africana per domandare a Ifa o a Eshù di voler rispondere alle domande che saranno loro poste: 2. il consultante prende nella sua mano sinistra una conchiglia non spezzata o due conchiglie incollate insieme alla base: l’akoueo e, nella mano destra, una piccola pietra: l’adjiokoni. La piccola pietra risponde di si e il risultato è positivo: ibo lotum, la doppia conchiglia risponde di no e il risultato è negativo: ibo losi. 3. Prima di incominciare il babalaò fa partecipe del suo lavoro il consultante toccando le sue conchiglie o la sua collana e successivamente la fronte di quest’ultimo, che è la sede dell’ori o spirito, il cuore che è il centro della personalità e le due mani che tengono le conchiglie e la pietra poiché esse devono rispondere secondo la volontà di Ifa o Eshù. 4. Il babalaò parla con voce bassa alla sua collana o al suo insieme di conchiglie; 5. La consultazione ha inizio. Il babalaò pone una domanda e poi getta l’ opelè. Riprendiamo l’esempio che abbiamo dato precedentemente, immaginiamo che il lato destro della collana, cadendo, presenti una metà di “irete e l’altra una metà di Irosun (dato che l’ Ifa si legge sempre da destra a sinistra). In questo caso Irosun vince come il più vecchio dei figli di Ifa. Il babalaò fa aprire al consultante la mano corrispondente cioè la sinistra. Se questa contiene la piccola pietra, la risposta alla domanda posta è affermativa; se c’è la doppia conchiglia la risposta è negativa. Ad ogni domanda posta, ben inteso, il consultante unisce la due mani e le scuote in modo che conchiglie o pietre possano cambiare di posto. Non è però il caso che fa andare la piccola pietra nella mano destra o nella mano sinistra, così non è per caso che la collana caschi nello spazio sacro presentando l’una o l’altra metà delle noci sulla faccia concava o convessa. La doppia partecipazione del consultante con l’ opelè e, con la preghiera, l’ opelè di Ifa, fa si che il modo di cadere delle mezze noci come il posto della pietra, obbediscano alla volontà del signore del destino. A volte la risposta è ambigua, in questo caso si fa una seconda gettata e forse anche una terza. Con l’ “edilogun” il modo di procedere del babalaò è simile. Perché certe risposte possono essere ambigue? La risposta dell’ Ifa è data dall’insieme dei miti, delle leggende o delle storie dell’ Ifa e queste storie vanno interpretate nel senso in cui è posta la domanda. E’ possibile sbagliarsi in queste interpretazioni, il dovere del babalaò è quindi quello di chiedere sempre una conferma agli dei per essere ben sicuro di non essersi sbagliato. E’ in gioco la sua responsabilità di indovino e lui ha il senso del dovere riguardo al suo lavoro. Per questo si dice che non basta che lui abbia buona memoria per essere un buon babalaò, ci vuole anche un’altra dote: l’intuizione. Questa intuizione la dimostra nella lettura dell’ Ifa nella maniera in cui lui arrivi a una conclusione dei miti, applicabile al caso particolare a cui sta dando una risposta.

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II - Il Babalosaim Il babalaò lavora sia per gli individui, in caso di malattia, matrimonio, partenza per un viaggio ecc., sia per la collettività: all’inizio della giornata si gettano le conchiglie e la vita del Candomblè nelle 24 ore che seguono è interamente determinata dall’ Ifa che è uscito. Egli, sovente, è portato anche a dare consigli o, più esattamente, a ordinare agli assistenti dei bagni di foglie, dei rimedi vegetali, cioè a passare dal culto di Ifa a quello di Ossain. Come dice Lidia Cabrera: il babalaò senza il suo Eshù e il suo Ossain "non è sicuro". D'altronde una delle leggende africane che accompagnano gli Ifa ci insegna che ashè era stato fatto conoscere da Ifa e che lui aveva spiegato come procedere, per mezzo di erbe, per rendere i suoi effetti efficaci. Ma i babalorishà o le Ialorishà, da parte loro, non possono fare niente senza le erbe sacre. Abbiamo ben visto l’importanza dei bagni di foglie nei rituali delle iniziazioni, bagni di foglie che, secondo l’Orishà a cui si appartiene, vengono presi sia fuori che dentro della casa, poiché ci sono degli Orishà dell’ “aria aperta” e degli Orishà che vivono nel pegi interno del santuario. Il battesimo dei tamburi, l’offerta che si fa loro una volta all’anno, ha pure bisogno della preparazione di un bagno o un lavaggio speciale di foglie macerate. Non esiste yauò che, nella sua quotidiana esistenza, non abbia bisogno di ricorrere alle virtù delle erbe; una volta per settimana, nel giorno consacrato al suo "padre della testa", la yauò prende un bagno preparato con foglie speciali proprie del suo Orishà: il bagno di amasin che significa “purificazione”. Tutto questo ci porta quindi alla stessa conclusione, la primordiale importanza delle “foglie” nella vita degli Africani del Brasile; potremmo così ripetere quello che Frobenius ha detto degli Yoruba d’Africa: “è l’osseni” (il nostro Ossain) soltanto che emana la forza magica che vivifica gli uomini e gli dei”. Frobenius però fa del sacerdote di Ossain un indovino, esattamente come in America, la conoscenza delle erbe, quelle velenose o quelle che fanno nascere l’amore nei cuori ribelli, ci riconduce al legame del culto di Ossain con la stregoneria. Infatti, nella lotta degli schiavi contro i loro padroni bianchi, il veleno era uno strumento facilmente usato e le donne nere che volevano migliorare il loro stato sociale diventando concubine dei bianchi, utilizzavano dei filtri d’amore. Gli stessi signori dei mulini o i proprietari terrieri, spossati dai loro eccessi amorosi, dalla loro sfrenata poligamia, spesso, giunti alla vecchiaia, chiedevano ai neri delle loro piantagioni che conoscevano i segreti delle foglie, degli afrodisiaci per risvegliare i propri sensi. La virtù delle erbe non è comunque una virtù magica ma una forza di natura religiosa e il babalosaim, anche se in certe circostanze tende a ricorrere alla stregoneria, non è un mago, ma un sacerdote e come tale lo dobbiamo esaminare. Tutti gli autori che, in modo più o meno profondo, si sono occupati del culto di Ossain, sono d’accordo nel riconoscere la sua importanza. Arthur Ramos, per esempio, ci ricorda che in Africa i sacerdoti di questa divinità fanno parte della prima categoria sacerdotale a fianco dei babalaò, molto al di sopra dei sacerdoti degli altri Orishà. Manuel Victorino dos Santos, nella conferenza tenuta al Congresso Afro-Brasiliano di Bahia, dove parlava a nome dei membri dei Candomblè, dichiara: "tutte le erbe sono magiche", intendendo dire, con questo, che tutte hanno una virtù la cui conoscenza è indispensabile nella conduzione del Candomblè. Quando Clouzot fece un patto con un babalorishà per poter assistere alle cerimonie di iniziazione, dovette, a sua volta, "non cercare di scoprire i segreti delle foglie". Più volte io stesso ho citato la frase di uno dei miei informatori: "Tutti i segreti dei Candomblè risiedono nelle sue foglie". Se pure alcune divinità come Shangò di Ouro non "discendono" più al giorno d’oggi, è perché non si trovano più le loro erbe che li facevano incarnare nella testa dei fedeli. Sfortunatamente non disponiamo che di poche informazioni a questo proposito, perché, giustamente, tocchiamo qui un "segreto" del Candomblè; i sacerdoti tacciono quando si entra in questo argomento. Anche su quello che si può divulgare, quello che è "pubblico" nel culto di Ossain, non abbiamo informazioni circostanziate. Gli africanisti, non so perché, non hanno mai mostrato grande interesse circa la curiosa figura di questo dio e, quando ne parlano, commettono degli errori che rendono i loro testi oltre che brevi anche totalmente inutilizzabili. Arthur Ramos, ad esempio, presenta in una delle sue fotografie, l’insegna di Ossain (un ferro appuntito per poter essere conficcato nella terra e che ha in cima un piccolo uccello circondato da sette bracci) come una delle insegne di Eshù, indotto senza dubbio in errore dalla

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definizione di uno degli Eshù come l’ “Eshù delle sette strade”. Manuel Querino connette Ossain, che lui scrive “Ossonhe” come uno spirito amerindio, il “Caipòra” poiché sia l’uno che l’altro hanno una gamba sola. Se si tratta di un semplice confronto tra due mitologie non c’è niente da dire, ma se Manuel Querino vuole dare ad intendere che i Negri hanno adottato il mito di Caipòra allora l’equivoco è chiaro. Più esattamente, l’identificazione tra le due genie che hanno una sola gamba, ha luogo solo nei Candomblè bantù, è sconosciuta nei Candomblè yoruba. Si capisce come dei non iniziati possano confondere due genie che hanno in comune un certo numero di caratteristiche, ma, se Ossain non ha che una gamba sola, non è per corruzione e assimilazione con il Caipòra, semplicemente quella divinità, ha dovuto subire, un giorno, la collera di Shangò e, durante la lotta, ha perso una gamba (a Cuba ha perso in più un occhio e un braccio). Gli autori che citano Ossain come dea della medicina non è sbagliato, ma questo non è che uno degli attributi di questa divinità. Come detto prima ella presiede a tutti i rituali nei quali è indispensabile l’uso delle foglie, l’iniziazione, bagni di purificazione ecc. per cui sarebbe meglio considerarla la padrona delle erbe e delle piante, la divinità della vegetazione più che quella della medicina. Ossain, come Ifa, non discende mai. Il suo sacerdote, il babalosaim o olosaim, così come il babalaò, non conosce la transe, è, anzitutto, un raccoglitore di erbe e non di erbe qualsiasi prese da qualsiasi parte e in qualsiasi momento. Ecco ancora uno degli elementi che distinguono il babalosaim da un semplice guaritore. Manuel Querino fa un breve riferimento a questo rituale della raccolta delle foglie a proposito delle cerimonie di iniziazione: "Una persona capace e di confidenza" egli scrive (in realtà si tratta del nostro babalosaim), "che sia – puro di corpo – (cioè che non abbia avuto relazioni sessuali la notte precedente), si dirige verso il locale portando un “oubi” e del pepe africano nella bocca, li mastica e, dopo averli ben triturati, li butta sulla vegetazione della campagna; poi danza, canta e posa per terra una qualsiasi somma di denaro". La descrizione è sempre valida ma deve essere completata. Prima di tutto le piante possono trovarsi nel cortile della casa, o nel giardino particolare e pure nella boscaglia. Se addomesticate, queste piante non hanno alcun valore, è necessario andarle a cercare nella foresta. C’è contrasto tra la parte del mondo della cultura e il mondo selvaggio. Ossain non va la dove l’uomo ha lavorato la terra, costruito delle case oppure la dove ha domato la natura. E’ il dio della boscaglia e non della vegetazione coltivata. In secondo luogo il babalosaim penetra nel regno di Ossain masticando un “obi” (e forse anche del pepe); giunto nel suo dominio si gira, successivamente, verso i quattro punti cardinali e sputa l’ “obi” masticato nelle quattro direzioni. In questo modo delimita lo spazio sacro in cui va ad agire. Addentrandosi nella boscaglia incomincia a cantare e non smetterà fino a quando non ne sarà uscito; anche quando stacca un ramo, una liana, se strappa delle foglie o dissotterri una pianta, non può interrompere il suo canto. Non sempre è lo stesso; come vedremo, se Ossain regna su tutte le foglie non impedisce che queste si classifichino in categorie legate ai differenti Orishà. Di questi canti speciali ne abbiamo alcuni del terreiro di Recife detti: "canti per prendere gli ashè dalla foresta". Tutti questi canti obbediscono ad una forma molto semplice e monotona, si compongono di due versi che indicano la divinità legata alla pianta che si deve raccogliere, seguiti da un terzo sempre uguale a se stesso: io cercherò (o estrarrò) il mio ashè. Ad esempio per le piante di Ogun: Ashè di Ogum nikà Di Ogum panà Eu arei meu ashè Per quelle di Omolù:

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Ashè di Omulù omam Di Omulù òbetam Eu arei meu ashè...ecc. Queste piante non possono essere raccolte in qualsiasi posto, sacro o nella boscaglia selvaggia, ma devono essere raccolte a certe ore determinate. Ognuna di queste piante non può, in effetti, essere raccolta che in certi giorni o in certe notti, a determinate ore della giornata o della notte. Per alcune la raccolta deve essere effettuata al mattino presto ai primi chiarori dell’orizzonte, per altre a mezzanotte. Molte devono essere prese con la nuova luna, mentre certe altre non hanno nessuna virtù se non sono raccolte con la luna piena oppure nelle notti senza luna. In più ciascun Orishà ha un giorno della settimana a lui consacrato, cosa che non ho potuto chiarire del tutto parlando con i babalosaim, ma che ci sono comunque dei giorni prestabiliti per la raccolta di questa o quella pianta. Infine, bisogna chiedere il permesso ad Ossain e pagarlo ed è per questo che, vicino alle piante raccolte si deve lasciare una piccola somma di denaro o un pezzo di foglia di tabacco. Per tagliare il ramo, la liana o il ciuffo di foglie ci si serve di un coltello speciale, un Obè. Anche a questo proposito troviamo degli errori da parte di certe informazioni pubblicate. Barbara Rodrigues chiama il coltello di Ossain con il nome di abébé invece di obè. L’ abébé è un ventaglio con cui amano farsi vento le dee dell’acqua, Yemanjà o Oshum, e non è mai un coltello. Il babalosaim non solo raccoglie le piante ma le prepara anche, ma, mentre abbiamo sia da Cuba che da Haiti, delle buone descrizioni circa la confezione dei “pacchetti”, non sappiamo come vengano fatti in Brasile. L’unica informazione che abbiamo è che i canti degli ashè si fanno anche all’interno dei santuari, che le figlie degli dei intonano quelli corrispondenti alla pianta o alla divinità, secondo la loro appartenenza, per esempio: le figlie di Ogun cantano l’ashè di Ogun, quelle di Yemanjà l’ashè di Yemanjà ecc., mentre il coro di tutte le figlie ripete all’unisono: “Ashè biu ashè meu ashè mio”. Queste informazioni sembrano indicare che la preparazione delle piante, sia in Brasile che in altre parti dell’America nera, dia luogo a delle celebrazioni speciali, però non sappiamo se queste preparazioni si fanno o no nel pegi speciale di Ossain, perché Ossain è un dio della “aria aperta”. Nella mappa del Candomblè si vede chiaramente che il pegi è separato dagli altri, in pieno campo. A Recife e a Porto Alegre, Ossain (o Ossanhe) mi è stato sempre presentato come una delle tre divinità adorate, obbligatoriamente, all’interno della casa principale, le altre due sono Eshù (o Bara) e Oshossi (o Ode). Uno dei nostri informatori sottolineava che, per preparare i bagni e i lavacri, bisogna che l’erba sia “viva”. Ecco perché, aggiungeva, le erbe delle erboristerie non servono, hanno perduto la loro forza…. Sono vendute "dissecate". L’erba va stropicciata, pressata e triturata con le mani e non con un palo o un altro strumento, si deve spezzarla viva fra le dita vive. La preparazione varia, naturalmente, a seconda della funzione delle piante. Già abbiamo detto che per il rituale dell’iniziazione ci vogliono 21 specie di erbe e che, per ogni specie, si devono usare 17 foglie. Quest’ultima cifra può non essere sufficiente per provocare l’estasi, allora si raddoppia o triplica, ma sempre con un multiplo di 17. Contrariamente, a volte, l’estasi è troppo violenta e allora si utilizzano altre specie di foglie, incaricate di attenuare le virtù delle precedenti, di rendere più blanda la forza selvaggia dell’Orishà dentro il corpo del suo cavallo. Per la fabbricazione delle pietre, dei ferri e per il lavaggio delle collane ecc. si usano soltanto le foglie della divinità che si deve incarnare nella pietra, nel ferro o di fare partecipare la collana alla sua forza, per esempio: se si fa una pietra di Shangò o se si lava la collana dai grani rossi e bianchi di un figlio di Shangò, si useranno solo le foglie legate a Shangò, "puitoco", "mangerona", "nega mina" ecc. mai quelle che appartengono a Oshalà come la “neve bianca” o quelle che appartengono a Oshum come: l’ orepèpè. Così come a Cuba, il nome delle piante può variare secondo la divinità, 5 per Oshum, 7 per Yemanjà, 8 per Obatalà ecc. In fine, se il babalosaim è stato chiamato per curare un malato con le sue erbe, si tratterà di altre specie vegetali diverse da quelle dei bagni di “amasi” o dei lavaggi delle teste. Gli studiosi del folklore brasiliano si sono molto interessati alla medicina popolare e hanno pubblicato molti libri contenenti liste di piante medicinali includendo quelle della città di Bahia. Ma tutti (eccetto Luis da Càmaraa Cascudo e Consalves Fernandes per il catimbò che non riguarda il nostro lavoro

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per via delle sue origini amerindie) si sono basati sulle informazioni degli erboristi e altri commercianti. E’ possibile che alcune di queste piante medicinali siano conosciute dai babalosaim, così come è possibile che i sacerdoti di Ossain forniscano il mercato di Bahia delle piante che hanno raccolto nella boscaglia e di cui conoscono le virtù e il modo di usarle (tisane, pomate, cataplasmi ecc.) Ma anche nel caso che le piante degli erboristi e quelle degli Olosaim si confondano, le due medicine non si identificano poiché la prima è empirica, la seconda religiosa. Quali sono dunque queste piante? Un “babalosaim” di Bahia di cui mi ero fatto amico e che voleva fare di me un apprendista, aveva incominciato ad istruirmi, ma la morte, di li a poco, se lo doveva portar via. Così dovevo completare la lista iniziata, ma a caso, sempre con molta difficoltà e in differenti terreiros o città. Su alcune di queste piante torneremo in seguito, ci accontenteremo, per il momento, di fornire una lista in ordine alfabetico: ALECRIM il nostro rosmarino, nelle sue tre forme alecrim de caboclo (baccharis sylvestris, Linneo), alecrim de campo (lantana microphylla, Martius) e alecrim do taboleiro (poligala panicolata, L.) nei bagni di iniziazione. Senza indicazione di quale specie nei bagni di “amansi” dei figli di Oshalà. ALEVANTE, vedere: Bradamundo ALFAVAQUINHA, ? bagno di “amasi” dei figli di Oshum. Per alcuni serve anche per lavare le pietre di Oshossi. AROEIRA (schinus Aroeira, Vellozo). Pianta consacrata a Ogun. Utilizzata anche contro i reumatismi, l’artrite e la sifilide. ARIORO’ ? pianta consacrata a Eshù a Porto Alegre, terreiros oyo. BRADAMUNDO (Amomum cardamon, L.) Uguale a Alevante. Pianta consacrata a Shangò e a sua moglie Yansà a Bahia, a Eshù a Porto Alegre. Indicazioni terapeutiche: soffocamenti; aromatica per i bagni di amasi . BAMBOUS consacrata agli Eguns a Bahia. Le case dei morti sono, a volte fatte di bambu. BETIS Che iroso (Piper eucaliptifolium, Rudge). Appartiene a Shangò e a sua moglie Yansà. Indicazioni terapeutiche: sudorifico, stimolante, febbrifugo. BREDO DE ST. ANTONIO o PEGA-PINTO (Boheravia irsuta, Wedd.) Appartiene a Oshossi. Indicazioni terapeutiche: febbri intermittenti. CAICARA, (croton Euphorbiacee). Pianta consacrata a Oshossi. Indicazioni terapeutiche: dermatosi. CAJARANA, ? Pianta consacrata a Ogun a Recife. CANELA de VELHO (Miconia albicans, terapeutiche:disturbi digestivi.

Trin.) Pianta consacrata a Omolù. Indicazioni

CARRAPATEIRA (olio di Carica papaia) Quest’olio si produce con i semi della papaia per “fissare” Eshù o per innaffiare il suo feticcio, soprattutto a Recife. Dal punto di vista terapeutico quest’olio serve anche per la cura delle adeniti. A Bahia, con questi semi, si fabbricano delle specie di rosari che fanno seccare il latte delle donne, o che fanno sparire il gozzo.

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CASADINHA, (Susp. Mikania) composita. Pianta consacrata a Omolù e chiamata volgarmente Omolù. Indicazioni terapeutiche: disturbi gastrici. CARURU fatto con quiabes(?U?117) ? (hibiscus esculentus) Nome africano: Fetri. Il caruru è il piatto preferito di Shangò, ma a Porto Alegre è messo in relazione con Eshù. Proprietà terapeutiche: emolliente e rilassante. COTON pianta consacrata a Oshalà sia a Bahia che a Recife, come pure a Cuba. Serve per i bagni lustrali dei figli di quel dio. CYPRES (Cupressis pyramidalis) Consacrato a Nanan che, a causa della sua età ha dei rapporti con i morti. A Cuba è consacrata ai morti. Proprietà terapeutiche: antiblenorragica ESPADA DI OGUN (Sansevieria ceylanica, Willd.) Funzione religiosa: bagni di amasi dei figli di Ogun. Sembra pure che si usi nei bagni di iniziazione. Funzione terapeutica: diuretica. ERVA SANTA (Peltodon Ricano ?) Consacrata a Yansà a Recife. FOLHA da COSTA chiamata anche “saiao” (Bryophillum Piematum). Nome africano: odudù Bagni di amasi dei figli di Oshum. Per altri di Oshossi. Utilizzato per il lavaggio della testa nei rituali del “mangia testa”. FOLHA de FOGO chiamata anche “foglia di Yansà” (Sosp. Tournefortia Borraginea) Bagni di amasi dei figli di Yansà. Consacrata anche a Shangò. Indicazioni terapeutiche: febbrifugo. FLOR da FORTUNA ? erba di Eshù a Porto Alegre. GAMELEIRA (Ficus Dolciaria, Mart.) Quest’erba è adorata con il nome di Iròko. E’ messa in rapporto a Nanan a Recife, mentre le foglie del ficus comune sono utilizzate nella preparazione degli Eshù a Porto Alegre. Si crede che queste foglie provochino delle verruche o delle pustole. GUINE (Petiveria tetranda, Gomes). Utilizzata nei rituali di iniziazione per lavare le future yauò. I raspi servono a fare degli amuleti o degli esorcismi. MAL-ME-QUER, (Weddelia paludosa). Consacrata a Oshum a Recife. Indicazioni terapeutiche: vulneraria, antisettica contro le emorragie. MANACA (Brunfelsia Hopeana, Hooker) Solanacee. Consacrata a Nanan a Recife. Depurativa, antiluetica, contro i reumatismi. MANGERICAO (Ocium basilicum, L.) Labiate. Utilizzata nei bagni di purificazione dei figli di Oshalà. Indicazioni terapeutiche: febbrifugo, stimolante, contro le cefalee. MANGERONA, (Origanum majorona). La nostra maggiorana. Consacrata a Shangò, per i bagni di “amasi” dei suoi figli. Indicazioni terapeutiche: vulneraria, stimolante e per la cura delle ferite. NEGA MINA, ? per i bagni di “amasi” dei figli di Shangò. NEVE BRANCA, ? per i bagni di “amasi” dei figli di Oshalà. OREPE’PE’, ? per i bagni di “amasi” dei figli di Oshum. ORTIE, (Urtica urens) consacrata a Omolù. Indicazioni terapeutiche: diuretica, affezioni renali e dermatosi.

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PALMES de OSHALA’. E’ evidente che la palma, per via della sua bellezza e utilità, non può essere consacrata che al più grande di tutti gli dei. Le sue palme sono utilizzate nei bagni di “amasi” dei figli di Oshalà. PAVOT. Il pavot ha fiori rossi ed è consacrato, a Recife, a Yansà. Si tratta forse del nostro rosolaccio? PLATANE, (Musa paradisiaca ?) Le sue foglie sono utilizzate per la fabbricazione degli Eshù a Porto Alegre. A Cuba il banano-platano è un albero di Shangò. PUITOCO, ? utilizzato nei bagni di lustrazione dei figli di Shangò. TAPETE d’ OSHALA’, (Peltodon sp. Labiacee) Pianta consacrata al culto di Oshalà come indica il suo nome. Indicazioni terapeutiche: cefalee e cattiva digestione. UEPEPE, ? rientra nella composizione dei bagni di foglie nei rituali di iniziazione. VELAME, (Croton), può essere campestre, Euforbiacee. Appartiene a Omolù. Una cantica ascoltata da Edison Carneiro nei terreiros Bantù allude a questa pianta: C’era un vecchio, molto vecchio, viveva in una catapecchia di paglia. Nel suo villaggio c’erano “Velame e Sanga” “Sanga e Velame” nel “mèlungué “I Negri mi informarono che i termini “sanga, velame e melunguè” corrispondono, le due prime, a delle piante medicinali e l’ultima il “velame” mescolato con il miele”. Indicazioni terapeutiche: depurativi. YEUX de Sta. LUCIE, (Croton antiriphiliticum). Pianta che ha dei piccoli fiori bianchi che sono consacrati a Yemanjà. Indicazioni terapeutiche: oftalmie.

III - La Società degli Egun Lo schiavismo aveva distrutto le strutture famigliari tradizionali, per lungo tempo si è creduto che il culto degli antenati fosse sparito dal Brasile. Nina Rodrigues dichiara che soltanto i Negri che avevano vissuto in Africa ed erano stati portati come schiavi, conservavano l’ideologia di una “Massoneria delle Anime, nella quale le donne non potevano prendere parte e dove l’Anima compariva e passeggiava nella città a suo piacere.” (nel primo libro comparso sul Candomblè), soltanto molto dopo se ne è riscoperta la sopravvivenza a Bahia: "in alcuni Candomblè funerari si trova ancora l’ “Egungun”, grottesca apparizione dell’anima del defunto. Non è altro che una farsa tra i capi o direttori del Candomblè e la persona di fiducia che, vestita con una lunga camicia bianca, risponde alle invocazioni che gli sono fatte in un dato momento. La credulità degli assistenti è delle più curiose. Alcuni mi hanno pure detto di avere visto il morto partecipare alla festa, in generale notturna, ma alcune volte anche di giorno , mangiare, danzare e poi ritirarsi così come era arrivato. L’apparizione di Oro è dello stesso tipo di quella che mi ha raccontato ed esiste solamente nei terreiros più lontani". La descrizione di Manuel Querino è ancora più chiara: "durante la veglia della messa funebre d’anniversario, durante la notte, un africano “medium” che nella setta non esercitava altre funzioni... metteva per terra una bacinella d’acqua e la foglia corrispondente al dio del morto, pronunciava alcuna parole cabalistiche, ripetute dalle persone presenti. Con un bastoncino batteva tre volte per terra, il che corrispondeva all’invocazione dello spirito. Rispondendo a quella chiamata il

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“medium” domandava se lo Spirito era stato chiamato dal Dio o disturbato da qualcheduno. Dopo la risposta, lo Spirito faceva le sue rivelazioni, dava consigli e suggerimenti e dettava degli ordini da compiere". Ma nessuno provava ad andare più in la di queste osservazioni. Pertanto, anche uno studio circoscritto al mondo del Candomblè, avrebbe dovuto mettere in evidenza l’importanza degli Egun. Non esisteva forse nei terreiros più antichi di fianco alla “Casa degli Orishà” una "Casa dei morti"? Il “padè” di Eshù non era forse allo stesso tempo un "padè dei morti"? Infatti ogni cerimonia incomincia obbligatoriamente con un saluto a Eshù, il quale vuole il primo omaggio e, subito dopo, quello per gli antenati: Egun

Aiyè

Ishibo òrun

Nojuba



Morti Mondo Forte ? cielo io mi inchino (verso) di voi Che è la formula impiegata in Africa da Egun stesso, quando esce, avvolto nel suo perizoma, che saluta un Grande, un personaggio importante, toccando la terra con il suo caccia mosche: Ishibo Ayiea Nojuba Rè. Se, al momento della nascita, si consulta il babalaò per consultare l’ Ifa della nascita del bambino, la consultazione del babalaò non è che uno degli obblighi matrimoniali. Non è sufficiente allora che Ifa sia d’accordo ma se pure gli antenati accettano il futuro matrimonio. In alcune sette, per quanto mi hanno detto, si portano delle offerte sulle tombe dei famigliari. In alcuni terreiros, i giorni in cui gli animali a quattro zampe sono stati sacrificati, si cantano, all’inizio della festa, dei canti per i fondatori del candomblè, il che fa si che il culto degli antenati passi dalla famiglia alla setta ed è pur sempre lo stesso omaggio reso ai morti. Il Padre Brazil sostiene pure che, quando uno è malato, deve fare un sacrificio ai morti. Noi stessi abbiamo visto, nel nostro primo capitolo (p.33), che l’iniziazione comprende un sacrificio agli Egun. Tutto questo e forse altro ancora, avrebbe dovuto portare gli etnografi ad interessarsi in modo più approfondito agli Egun. Se non lo hanno fatto è perché questa ricerca è particolarmente difficile. Più ci addentriamo nei nostri studi sulla gerarchia sacerdotale, in effetti, e più ci scontriamo con la legge della segretezza. Il culto degli Egun A Bahia appartiene alla "Società degli Egun" e questa società, così come in Africa, è una "società segreta". I casi sono due: o si interroga da fuori qualcuno dei suoi membri i quali, peraltro non daranno che pochissime informazioni e se ne scapperanno via, oppure si cerca di entrare nella società e si diventa automaticamente soggetti alla stessa legge della segretezza. La morte è la condanna di tutti coloro che violano i misteri degli Egun. Per cui abbiamo, per il momento, solo poche informazioni frammentarie; una descrizione di cerimonie pubbliche per le strade di Rio de Janeiro, le informazioni neppure tanto esatte fornite da P. Frikel e due descrizioni di ashèshè con l’apparizione di Egun. Anche se gli Egun, come vedremo tra poco, intervengono talvolta nell’ ashèshè, non bisogna confondere queste cerimonie funebri con i riti di omaggio agli antenati. L’ ashèshè ha per scopo l’espulsione delle anime; la società degli Egun ha, invece il compito di evocarle. In conclusione, le loro finalità sono opposte anzi che complementari. Ma questa società ha pure altre funzioni? Le grandi feste agricole nei paesi yoruba, quelle delle semine così come quelle delle consacrazioni dei primi raccolti si fanno sempre con delle invocazioni agli Egun. Sembra che questa prima funzione di benedizione dei campi da parte degli antenati e di offerte di primizie ai morti sia scomparsa a Bahia. La grande festa degli Egun “ogè-messè, ilè nhanga o nibi egum anangua) in quest’ultima città, che è una cerimonia privata, si verifica in effetti, in sincretismo con il cattolicesimo, il 2 Novembre, giorno dei morti.

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Una volta la società degli Egun andava nella casa dove c’erano dei morti o dei moribondi, esattamente come i diablitos a Cuba, ma anche quella funzione è oggi scomparsa. Le cerimonie non possono svolgersi nelle dimore individuali ma solamente all’interno dei Candomblè o nell’isola di Itaparica. Quindi non rimangono che: • •

l’evocazione dei morti nelle diverse circostanze e in vista di ben determinati scopi; il fissaggio degli Egun nei vasi che saranno deposti nell’ ilè-saim (cerimonia senza dubbio differente, ma parallela a quella del fissaggio degli Orishà nelle pietre del pegi.

L’evocazione dell’anima del morto o della morte può avere luogo nel corso dell’ ashèshè, se si desidera conoscere le ultime volontà del defunto o della defunta. Non in tutte le “nazioni” però. C’è un proverbio africano che dice: "Oyò ha il culto Egun, Egba ha il culto oro". Non troveremo dunque delle apparizioni di Egun se non nelle cerimonie funebri delle sette che discendono dagli schiavi nagò. I Igesha che temono i morti ancore di più degli altri Neri, si guardano bene dal evocarli, al contrario, si affrettano ad allontanarli dal loro terreiro. Le sette gège o del dahomey ignorano anch’esse questa evocazione nei loro ashèshè e ancor più che nel loro paese d’origine, anzi non hanno neppure delle società Egoungun. A maggior ragione i terreiros bantù. Questo perché nelle descrizioni delle cerimonie funebri Igesha, gège o angola di cui siamo in possesso, o quelle a cui abbiamo assistito, gli Egun non compaiono proprio. Appaiono invece a opo-Afomja; ma questo Candomblè deve allora fare appello ad un sacerdote speciale, quello dell’ “Isola di Itaparica”, dove si trova il centro della società degli Egun; i sacerdoti del santuario non possono eseguire il rituale. La cerimonia ha luogo all’aria aperta, di notte, sotto i rami frondosi degli alberi e conclude l’ ashèshè propriamente detto, cioè avviene il 7° o l’ 8° giorno. Inizia con il “padè di Eshù”, il saluto alla madre terra che le donne baciano e gli uomini toccano con la mano, seguono canti rivolti ai morti accompagnati dai tamburi. Gli uomini si recano quindi verso l’ ilè-saim, mentre le donne rimangono al loro posto, visto che a loro non è permesso entrare nella casa dei morti. Terminati gli omaggi agli antenati, gli uomini ritornano al loro posto vicino alle donne e si sentono allora uscire dalla camera segreta delle urla stridenti, dei suoni rauchi e sono i morti che si svegliano dal loro sonno e che parlano. Poi gli Egun lasciano la casa, guidati dai sacerdoti; essi sono di due tipi: alcuni sono vestiti, materializzati e sono gli Egun già "fatti", "fissati"; altri hanno la forma di una vaga nebulosa e sono i morti che non si sono ancora "addottrinati", secondo l’espressione consacrata. Diamo qui di seguito il racconto di un testimone: Egli apparve sotto forma di una nebulosa, forse confondendosi con gli alberi; arrivato nel luogo dove avrebbe dovuto compiersi il sacrificio, diminuì di altezza e volume fino a che non cadde sul pennuto indifeso e allora non si udì altro che il grido del gallo morente. Così come era apparso scomparì. Nessuno tocchi quel gallo. Questi morti a volte parlano, con delle voci in falsetto assai particolari. Le persone presenti in genere riconoscono queste voci: è mio padre, dicono; è il fratello di un tale. A loro si fanno delle domande o si chiedono degli ordini. Le grandi cerimonie di evocazione si fanno nell’ “isola di Itaparica”, dove ha sede la società. Apparentemente è li che si fa l’evocazione del settimo anno dopo la morte, o della persona scomparsa, prima di lasciare definitivamente la terra, perché dia le sue ultime raccomandazioni. Se, ad esempio, si tratta di una Ialorishà, è solo in quel momento che rivela il nome di colei che dovrà succederle. La cerimonia descritta al Padre Frikel dai suoi informatori fa parte di quel grande rituale dell’ “Isola d’Iaparica” ed è per questo che la trascriviamo qui di seguito poiché è la sola conosciuta a tutt’oggi: Nella sala tutto è pronto: da una parte le persone, l’altro lato è riservato agli Egun. Il babasalà, cioè colui che chiama e interpreta gli Egun, ha l’incha, un bastone e lo deposita tra gli assistenti e gli Egun, affinché questi ultimi non lascino il loro posto. Allora lo Spirito appare…. e l’apparizione canta. Potete credermi, non è un uomo vestito, io ho inteso la sua voce.

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Egli canta: Iodè-ò araè Olò dèò Babà jossanjurù (io sono arrivato popolo mio, ecc..) Si fa una anagua (una specie di carcassa dura) e dentro ci si mettono dell’acqua e delle foglie (una vera arte!). Di fronte sono deposti dei piatti con del cibo. Durante tutto questo tempo si suonano i tamburi dei morti, come nell’ashèshè, la festa dei morti. Chi suona i tamburi deve stare ben lontana dall’anagua... Allora appare lo Spirito, parla, parla africano; cambia; è un “vento”... Si danno dei cibi agli Egun." E Guajiru, l’informatore, accompagna il suo racconto con il disegno che riportiamo:

Bisogna aggiungere che quegli Egun degli antenati che appaiono a Itaparica, vi appaiono sotto forma di “babà” (padri) che hanno dei nomo nagò e delle vesti speciali. Frikel ci da alcuni di questi nomi: “Ogni Egun ha un suo nome particolare, diciamo Eduardo; ma tutti hanno il nome di babà-padre, per esempio: babà què-legbè, babà obò-là, babà alocòtò…. ecc. Questi babà sono in somma gli antenati di lignaggio scomparsi. Nei nostri carnet ne abbiamo annotati almeno 20 di questi padri, ma c’è n’è molti di più, il loro nome è legione”. Quanto al costume è più o meno identico a quello degli Egun d’Africa, se ne può vedere una fotografia nel “Dei d’Africa” di P. Verger (foto 158). Sono quindi i sacerdoti di questa società che sono incaricati di fissare i morti nei vasi di terra o nei ferri che serviranno loro come ultima dimora. Questo fissaggio si fa come in Africa? Non ne sappiamo nulla. Ma i vasi esistono su dei basamenti nei buchi dell’ ilè-saim o in piena terra e si rende loro un culto, come agli Orishà, si offrono loro degli alimenti e li si bagna con il sangue sacrificale. La società degli Egun trascende quella dei Candomblè. A me è sembrato, in effetti, che i suoi membri appartengano a dei terreiros differenti e questo spiega senza dubbio, come degli elementi africani non-yoruba si siano infiltrati nel culto dei morti. Uno dei “fantasmi” più spaventosi che appare loro durante le cerimonie è, in effetti, di origine tapa: Gunocò. Gli informatori discutono molto su questo strano essere, per alcuni è un Orishà per altri è un Egun; per Manuel Querino è uno spirito della foresta, un “fantasma” che compare solamente una volta l’anno, salvo invocazioni per un consulto urgente; e aggiunge: “Appare solo di notte, tra un ciuffo di bambù, aumentando e diminuendo di grossezza e solamente agli uomini che lo ricevono vestiti in modo particolare”. Forse l’aver adottato questo spirito tapa nella mitologia yoruba degli Egun viene da quanto raccontano presso i Nagò d’Africa che un tempo gli uomini non morivano, diventavano sempre più grandi fino ad una certa età, poi, invecchiando, si raggrinzivano diventando forzatamente così piccoli che, per disperazione, domandavano agli dei la grazia di morire. In tutto il nord est la gente conosce un fantasma analogo di cui i fanciulli hanno paura e che si chiama “grande-grande”. Ha un suo ruolo nelle feste popolari del Bumba-meu-boi, dove è rappresentato come una persona la cui testa è ricoperta da una zucca, il corpo nascosto sotto un lungo abito; in piedi du dei trampoli nascosti durante la rappresentazione del “Bue, mio bue, balla” egli sale e scende dai trampoli gradatamente, fino ad appiattirsi per terra, con grande spavento della marmaglia accorsa per veder ballare il bue! Sarà questa un’influenza africana o forse sarà esistito un simile mostro nella mitologia amerindia? Non sappiamo in ogni caso la funzione che ha Gunocò nella società degli Egun. Lo spavento che egli provoca è tale che la gente interrogata ha paura persino a pronunciarne il

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nome! In realtà è un nome tabù, come quello di Shapanan, dio del vaiolo. Questo spiega, fra l’altro, l’errore di uno degli informatori di P. Frikel quando dichiara: "Gunocò non compare più, è tornato in Africa!” Semplicemente non si pronuncia il suo nome. Ma lui continua a vagare tra i bambù di Bahia. Coloro i quali sono incaricati di interpretare il ruolo di Gunocò o degli Egun, sono degli "iniziati" come loro dicono, alla società, ma l’iniziazione è di un tipo molto differente da quella che abbiamo precedentemente esaminato, quella delle yauò. Non consiste nell’apprendere un comportamento, ma un "segreto". Ecco perché il nome di “massoneria” così spesso usato quando tra uomini si parla di Egun o di Oro, l’iniziazione si riconduce ad un sapere esoterico. Tutti quelli che hanno potuto rispondere alle domande poste dai capi saranno ormai oge o babaoge, babaloge se si aggiunge, in segno di rispetto, per salutarli l’epiteto di baba, padre. Si trova anche l’espressione orioge, ma non posso dire se si applica anche all’insieme dei membri della società o se è valida solo per quelli che occupano le posizioni più elevate. Dato che questa società è una società gerarchizzata, ma non garantiamo che la lista che stiamo per darvi segua esattamente la gerarchia, ne che sia assolutamente completa. Grosso modo possiamo distinguere due gruppi di attori, quelli che interpretano il ruolo degli Egun, che incarnano i morti sia sotto forma di apparizioni che di voci (in special modo ventriloqui) sia quelli che, più importanti, dirigono e controllano la folla degli spettri. Arthur Ramos, in un’opera giovanile, da l’impressione di voler parlare del comportamento di certi sacerdoti del primo gruppo, quando scrive: Efun-ecutò e Echà-abicu sono rispettivamente la rappresentazione maschile e femminile delle forze ignote (della genesi) di cui il babalaò (feticista) si slancia nelle sue pratiche magiche." Anche se noi lasciamo da parte le identificazioni sbagliate del testo, del babalaò e dell’ orioge, del babalaò e del feticista, delle forze sconosciute e delle forze della genesi, da nessun’altra parte ritroveremo i termini di egun-ecutò e echà-abicu e A. Ramos se ne è ben reso conto, poiché, nei suoi scritti posteriori non ha mai più fatto cenno a queste sue affermazioni e ne ha ritrovato il vero senso in una delle sue ultime opere: quando tutti i figli di una donna muoiono in tenera età, il primo è chiamato abicu e si dice che sia lui che si porta via gli altri, che li "mangia". Come si vede, siamo molto lontani dalla società degli Egun. Il capo della società, che risiede nell’Ile d’Itaparica, affinché i morti escano più facilmente dall’acqua- la psicanalisi ci ha familiarizzato con questo legame della nascita (o rinascita) con l’acqua, del mare con l’isola- si chiama alaba, o più esattamente alagba. Egli ha in mano un bastone ed è incaricato di evocare i morti; quando poi questi sono presenti è lui che li dirige nella loro marcia claudicante e impedisce loro di mescolarsi con i vivi che possano assistere alla cerimonia. In conclusione il bastone è la punta calamitata che attira i morti, li fa dirigersi esattamente dove vuole l’ alagba, li guida, poiché un morto non vede più, è lo strumento di divisione tra due mondi, la sbarra che separa due domini, la frontiera mobile tra gli spettri e i presenti. Egli è pure accompagnato dall’alafi o atafim (sembra che la prima espressione sia la più giusta) che Joao do Rio chiama “il confidente” dell’ alagba. La sua funzione rimane oscura. Forse è il guardiano della porta dell’ ilè-saim, in un certo modo il portiere dei morti. Il termine "confidente" suggerisce, tuttavia, che egli abbia anche un altro compito. I morti parlano la lingua africana ed è in questa lingua che essi danno ordini o consigli, è quindi indispensabile la presenza di un traduttore per spiegare in buon portoghese il significato di quegli ordini e suggerimenti. Se questo non è un compito dell’alagba, come succede in Africa, dove l’alagba traduce la voce degli Egun, potrebbe ben essere uno dei compiti del nostro “alafi”, ma è solo un’ipotesi. L’alagba è seguito dall’amusham e dal ala-te-orum, il primo porta una frusta e il secondo un piatto. Jaques Raymundo, nel suo dizionario di termini afro-brasiliani, da una buona definizione del primo sacerdote che può servirci come punto di partenza: “personaggio del culto di Egungun che ha l’incarico di badare alla frusta sacra o ishà. Del amusham colui che tiene o

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utilizza l’ishà (o ishan) la frusta a strisce bianche”. Il sacerdote in questione si serve di questa frusta come l’ alagba del suo bastone, per condurre l’ Egun, ma, anche prima della sua apparizione, per farlo ritornare sulla terra, percotendola con l’ ishà. Non si tratta, all’occorrenza, di uno strumento musicale, di una di quelle bacchette che servono a battere il ritmo dei canti con dei colpi sordi e distanziati, ma si tratta di un vero e proprio strumento d’invocazione. Fernando Ortiz, che descrive a lungo l’ishà utilizzato dalle società segrete di Cuba, lo paragona al chachard o chacharè del Brasile, composto, in effetti, come l’ishà da vari bastoncini legati insieme e che è l’insegna di Nanan Buruku così come di Babaluayè-Omolù. Questa somiglianza di forma non deve però indurci in errore, anche se il legame di Nanan con la morte è reale. Nanan danza tenendo il suo chacharà tra le braccia cullandolo, con le mani tremanti di vecchia; il chacharà non è che il simbolo del piccolo Babaluayè, appena nato e che sua madre, Nanan, cerca di addormentare. Oneida Alvarenga osserva che i chacharà sono della stessa famiglia dei pashoro o balais e si tratta proprio del vero significato del chacharà, ossia l’immagine di una scopa con cui Omolù raccoglie gli uomini come foglie morte; è l’immagine dell’epidemia che si espande su una regione, distruggendo tutto al suo passaggio. L’ ishà invece fa risalire i morti dalle profondità della terra per venire a parlare, per un momento, con i vivi. In quanto al secondo dei nostri due personaggi, l’ala-te-orum, etimologicamente sembra indicare un Egun mascherato, l’alua che rappresenta l’anima e le ultime sillabe di questo titolo ci ricordano l’ otoroun, che in Africa è la mascherata, o il bosco dove si fa la mascherata dei morti. Non sappiamo che cosa rappresenti il piatto che egli porta, Joào do Rio che è il solo a citare il nome di questo sacerdote, non ci da delle informazioni più approfondite: si tratta forse di un piatto di cibo in offerta agli Egun o piuttosto la mezza zucca posata su una ciotola piena d’acqua, che è uno strumento musicale dell’ ashèshè e che abbiamo studiato nel descrivere l’immagine del mondo? Sappiamo infatti che in certe società segrete esiste un sacerdote che cammina davanti alla processione rituale portando una mezza zucca su di un piatto, percotendola con un bastoncino per ritmare con la musica il suo passo. I due personaggi di cui adesso parleremo compaiono solo in un secondo tempo e nella seconda parte delle cerimonie della società: Yansà e Erusaim. A Rio de Janeiro questa Yansà è chiamata, o è stata in altri tempi chiamata, Egunin-Yansà; a Cuba è detta Moruà Yuansè. Come abbiamo visto gli Orishà temono la morte meno Yansà perché lei l’ha vinta. E non importa quale Yansà. Ritroveremo a proposito di questa dea quello che abbiamo già segnalato per Oshum, come apetevì del babalaò. Un informatore ci segnala che ci sono 17 Yansà e che una solamente è la regina dei cimiteri, ma non ha voluto, o potuto, per via del segreto che circonda i morti, darci il nome esatto di questa Yansà. Anche se si tratta di una dea, il personaggio che interpreta il suo ruolo nella società degli Egun, è un uomo, il cui ruolo è quello di danzare al suono dei tamburi speciali della confraternita. Quanto all’eruo-saim, la sua caratteristica è quella di portare due maschere, una davanti alla faccia e l’altra dietro, come una specie di Giano africano. Anche lui è un danzatore per cui lo abbiniamo al precedente. Sono questi due sacerdoti gli incaricati della parte coreografica delle cerimonie segrete. Quando coloro che recano i bastoni sono chiamati nelle ashèshè per controllare l’apparizione dei morti, ne la Yansà, ne l’eruo-saim prendono parte alle cerimonie esclusivamente funebri. IV - I Quattro Scompartimenti del Cosmo La contrapposizione dei quattro sacerdoti fino a qui studiata non è che la conseguenza della quadruple divisione dell’universo. C’è da domandarsi se queste divisioni sono stagne, se niente ci permette di passare dall’una all’altra, di farle partecipare o, per lo meno far si che si riflettano l’un l’altra. Per il momento la contrapposizione dei sacerdoti segna la contrapposizione, la rottura. E che contrapposizione! Il culto degli Orishà non è certo praticato in maggior parte dalle donne, ma le figlie degli dei sono assai più numerose degli uomini e possono arrivare ai più alti livelli nelle gerarchie sacerdotali dei Candomblè; le sette più tradizionali sono dirette, come abbiamo detto, dalle Ialorishà e non dai babalorishà. Al contrario, il culto di Ifa, quello di Ossain e quello degli Egun sono dei culti praticati dagli uomini; se per una donna è possibile, in certe circostanze, consultare il destino, sarà solo per mezzo delle conchiglie e non con l’ opelè – se Yansà interviene con la sua danza tra i fantasmi

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dei morti, il personaggio è interpretato da un uomo travestito. Questa divisione sessuale del lavoro religioso è il riflesso della divisione in due del mondo, quello degli dei e quello della creazione. Questa prima differenziazione si complica ancora con una seconda: il babalaò, l’Olosaim e gli Oge non possono cadere in transe; ne Ifa, ne Ossain ne gli Egun “discendono”, anche se hanno i loro cantici e, a volte, le loro danze, essi non possiedono “cavalli” da montare. Questo prova che gli Orishà abitano al di fuori del mondo della creazione e trascendono la natura e la società, poiché possono visitarci solo attraverso l’incarnazione; la parola “discesa” che definisce la transe, è caratteristica di questa trascendenza. Certamente anche gli dei intervengono per mezzo delle noci di kola, ma non "discendono", "parlano". Mentre le yauò interpretano il ruolo di divinità, il babalaò legge e traduce le “parole”. Quest’ultima differenza è quella che distingue gli Egun dagli Orishà. La gente di Bahia dice dei primi che sono delle “apparizioni” e dei secondi delle "manifestazioni". Questa è tutta la differenza tra la transe e la maschera. Nella possessione divina è il volto che diviene maschera, che si contrae in espressioni dure per rappresentare Ogun il guerriero, in orgoglio regale, per Shangò, in atteggiamenti voluttuosi e sensuali per rappresentare Oshum. Nel caso dei morti il corpo è nascosto tra le pieghe delle ampie vesti, c’è la proibizione, sotto pena di morte, di indovinare il volto, di toccare l’Egun; gli antenati sono delle maschere e la società segreta e il primo teatro nero del Brasile. Si potrebbe obiettare, visto il caso di Omolù, che quando una ragazza è posseduta da questa divinità, si mette sulla testa un cappuccio di paglia che impedisce di vederle la faccia; ma è perché il suo volto è tutto coperto di pustole, mangiato dalla lebbra e non è certamente gradevole da mostrare alle persone. Tuttavia, sotto il suo cappuccio, la figlia di Omolù è in transe, mentre che, sotto il suo travestimento, colui che ha la parte dell’Egun non lo è. Egli è senza dubbio il morto resuscitato ma non posseduto. In conclusione: • • • •

I sacerdoti del Candomblè incarnano gli Orishà I sacerdoti di Ifa ascoltano le “parole” degli Orishà I sacerdoti di Ossain raccolgono le foglie degli Orishà; e quelli degli Egun rappresentano l’armata dei morti.

O ancora: i babalaò sono i sacerdoti degli uomini, in quanto individui e delle collettività sociali, in veste di legami di uomini; gli olosaim sono i sacerdoti della natura viva- e se questo termine “vivente” non è così importante, saremmo tentati di dire che la differenza tra questi due sacerdoti equivale a quella che esiste tra le cose e le persone (res et personae); gli oge sono i sacerdoti dei morti; i babalorishà o le Ialorishà degli dei. Una certa sociologia nega la personalità dei cosiddetti primitivi nella società; insiste sull’omogeneità delle credenze e dei sentimenti, sul conformismo dei gesti e delle attitudini, sulle similitudini psichiche, come se le rappresentazioni collettive non si diversificassero, non assumessero toni differenti secondo le persone che le vivono. E’ la divisione del lavoro sociale che libera non l’individuo, ma l’individualismo che è tutt’altra cosa. Tutti gli etnografi che hanno vissuto in mezzo alle tribù le più primitive sono d’accordo nel riconoscere che i loro membri sanno distinguere le idiosincrasie personali. Potremmo anche andare oltre ed evidenziare un po’ dappertutto, una prima filosofia dell’individuazione, una filosofia che arriverebbe fino a rapportarsi alle questioni del Medio Evo, sulla decisione costante di sapere se il principio dell’individuazione è lo spirito o la materia, il riflesso delle differenze mitiche o, come dice M. Leenhardt a proposito dei Caiachi della Nuova Caledonia, il fatto di avere un corpo. Se vogliamo scoprire il concetto afro-brasiliano della persona umana, è a un babalaò a cui dobbiamo rivolgerci, poiché è lui il sacerdote degli individui, della persona umana in quanto persona. E’ risaputo che in Africa, quando nasce un bambino, si fa il suo odu con due noci di kola. Ma soltanto nell’età adulta prenderà il suo Ifa personale, poiché "gli Anziani ci hanno insegnato che un individuo che non possiede il suo Fa è un essere incompleto". Orbene, questo Ifa non è

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altro che un odu che è stato tracciato sulla terra, terra che è stata precedentemente messa in un piccolo sacco bianco o in una zucca, e che, al momento della morte sarà distrutto, ereditato o sotterrato insieme al defunto. Quell’ odu, di cui il babalaò ha probabilmente spiegato il significato al consultante, i sacrifici che ordina di fare, i tabù che egli dovrà rispettare, i proverbi che dovranno guidare le azioni di chi lo possiede, costituiscono in qualche modo, in riassunto, il destino della persona. E poiché tutti gli individui hanno il loro odu, ma che l’insieme di questi odu forma, comunque, una lista chiusa, si comprende, alla fine, perché ogni persona sia differente, ma queste differenze non sono illimitate e che esiste una possibile classificazione di caratteri. Tutta una psicologia sistematica e in embrione nel culto di Ifa. Ma in Brasile, per lo meno adesso, sembra che non si prenda il proprio Ifa. Abbiamo l’impressione che, se Martiniano è andato in Africa a farsi iniziare, questo non consisteva tanto nell’interrogare i sacerdoti di laggiù sulla vita degli dei, ma a farsi fare il suo Ifa personale, al fine di poter diventare babalaò a Bahia, visto che non aveva trovato nessuno capace di farlo nella sua città natale. Se quello che si chiama "il grande gioco" in Nigeria è scomparso in Brasile, ne restano, pur tuttavia, delle tracce che lo sottintendono. E prima di tutto l’idea dell’heleda cioè l’angelo custode. Denett ha fatto notare molto chiaramente che l’eleda o heleda non è un dio, ma l’ Ifa personale di ognuno e Trautmann definisce il Fa personale "il nume tutelare", "il protettore" dell’individuo. Già allora gli Africani cristianizzati lo identificavano con l’angelo custode che veglia su ciascuno di noi. Questo concetto dell’heleda esiste tra i nostri Afro-Brasiliani. Il Padre Brazil non lo confonde con l’Orishà che risiede nel nostro essere ma sta, egli dice, tra gli dei e gli uomini, occupando una posizione personale, quello da cui si è ricevuto il nome al momento dell’iniziazione. Le sette più tradizionali non fanno, invece, questa confusione, è una realtà “sui generis”. In secondo luogo, se l’adulto non prende il suo Ifa, è rimasta l’abitudine, al momento della nascita, da parte dei genitori, di consultare il babalaò; l’ odu che ne risulta in quel momento, non solo decide il nome dell’Orishà al quale apparterrà il bambino, ma da pure un certo numero di indicazioni sul futuro destino dell’infante. Infine e soprattutto, tutti i miei informatori sono d’accordo nel dirmi che ogni persona ha il suo Eshù. Questo “grande gioco” degli Yoruba non consiste soltanto nel fare il proprio Ifa, ma in più a far fare dal babalaò l’Eshù personale. Un Eshù di terra bagnata con olio di mandorle che verrà messa in un buco, davanti alla casa e che proteggerà, da lì in poi, il suo possessore. Alla sua morte sarà “desacralizzato” versandogli sopra degli alimenti tabù, il che gli toglierà tutte le sue forze, di modo che non potrà servire per nessun’ altro. Abbiamo quindi la testimonianza che, al di fuori delle consultazioni di Ifa, alcuni africani di Bahia, chiedono ei loro sacerdoti di fiducia di fare loro un Eshù di terra, per sotterrarlo nella loro casa e riceverne protezione. Anche se il nostro Eshù non si materializza in un Eshù di argilla, bagnato di erbe e di sangue, tuttavia ognuno ha un Eshù un nume tutelare, come direbbe Trautmann. Potremmo aggiungere che, il passaggio dell’Ifa personale a un Eshù personale, è il riflesso di un altro fenomeno di cui abbiamo già trattato: la sostituzione progressiva della divinazione per mezzo dell’ opelè a quella con il dilogun, il cambiamento che sta avvenendo nel mondo dei babalaò di Bahia; cioè quello della supremazia delle conchiglie sulla collana delle noci di kola, sostituendo alle “parole” di Ifa, le “parole” di Eshù. Il principio di individuazione assume così una forma leggermente diversa. Ma prima di studiare questa forma, dobbiamo fare un richiamo preliminare e cioè che se il babalaò è obbligatoriamente un uomo, anche le donne possono consultarlo così come gli uomini quando lancia le conchiglie. Qui notiamo una straordinaria eccezione alla regola dei Candomblè. La iyabassè non può cucinare per gli dei se sta avendo le mestruazioni; neppure la yauò potrà essere posseduta se si trova nelle medesime condizioni e, se una donna con le mestruazioni entra nel santuario durante una festa, anche i tamburi stonano; infine, le iniziate non raggiungeranno, generalmente, il grado supremo di Ialorishà, che, secondo l’espressione popolare, quando "saranno diventate uomini", cioè dopo la menopausa. Al contrario, qui, una donna può consultare il babalaò in qualsiasi momento e in qualsiasi giorno, i suoi giorni critici non sono un impedimento. Il principio dell’individuazione non può essere espresso in forma migliore che con la sua contrapposizione con il principio dell’incarnazione – il dominio della personalità contro

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quello degli Orishà o, in altri termini, il sangue mestruale può costituire un ostacolo pericoloso per la persona che lo sta vivendo, per esempio: nelle sue relazioni con gli dei, ma ciò non vuole dire che la persona non rimanga una persona; è un momento di disturbo transitorio per l’individuo e non per l’individualità. In ogni giorno della propria vita si può consultare il babalaò. L’ odu che ne risulta ha un suo significato: o definisce la malattia che vi affligge, oppure la morte che vi gira attorno, un nemico in agguato, un tradimento, le povertà, oppure, al contrario, la felicità, la ricchezza l’avverarsi dei desideri più cari… e questo fa si che l’esistenza non sia altro che un susseguirsi di eventi sia fausti che infausti nel corso delle giornate che si susseguono durante l’anno. In una certa misura si può sviare il destino facendo i sacrifici raccomandati; ma il mito di Oshalà di cui abbiamo parlato a proposito della festa d’apertura dell’anno religioso, ci dimostra che il destino ci lascia ben poco margine: Oshalà evita la morte ma non può evitare di avere tutte le ossa rotte e di passare sette anni a gemere in una prigione. Se nello stesso giorno diverse persone consultano il babalaò, gli odu emessi saranno differenti per ciascuna persona, poiché ognuno ha la sua propria vita che non si confonde con quella dei suoi vicini. Diremo quindi che quello che costituisce il principio dell’individuazione in questa filosofia afro-bahianese è la storia dell’individuo e che la società non è fatta d’altro che dalla giustapposizione di queste storie che si avviluppano, si comunicano ma restano pur sempre autonome. E’ una trama in cui corrono mille fili ma ognuno di questi fili ha un colore differente. Tuttavia, se l’individuo è soprattutto una storia è una storia che può essere definita. Ed è proprio il compito del babalaò dare questa definizione attraverso la lettura delle conchiglie. Tutti gli avvenimenti possibili si riducono in un certo numero di casi tipo, sia di concetti, incidenti, malattia, soldi ecc. che individualizzano la persona umana, e sono le variazioni di tutte le possibili combinazioni dei concetti classificatori tra di loro. Le combinazioni cambiano poiché ogni uomo ha la sua storia, o meglio: “è la sua storia”, ma queste combinazioni non sono altro che le combinazioni di certi tipi di avvenimenti, caratterizzati dai nomi delle conchiglie cadute sulle loro facce aperte e quelle cadute sulle loro facce chiuse. Ogni mano gettata è, allo stesso tempo, la “parola” di un dio. A volte è Ogun che parla, a volte Shangò, a volte Oshossi e questo fa si che ogni avvenimento che possa sopraggiungere nell’esistenza particolare è legato, dalla combinazione o nella combinazione ad un determinato Orishà . Per esempio, se quattro conchiglie cadono sulle loro facce aperte e dodici sulle loro facce chiuse, è Shangò che parla e questo significa povertà e disastro. Se dieci cadono sulle loro facce aperte e sei sulle loro facce chiuse, è Yansà che parla e significa che lo spirito di un Egun perseguita la persona viva, cercando di trascinarlo nella tomba… E’ come se tutto quello che avviene fosse distribuito tra le divinità, come se ognuna di loro avesse in comune uno dei concetti di classificazione le cui combinazioni costituiscono le differenti particolari esistenze. Questa è per noi la conclusione: c’è un primo dominio del cosmo, quello composto dagli uomini, il dominio che proviene dal babalaò – ogni uomo si differenzia dagli altri per il susseguirsi di eventi che gli capitano, per il suo "destino"; il principio dell’individuazione è la storia della persona, questa storia non è mai una combinazione di "parole" significative, pronunziate dagli dei, questo poiché non è mai irrazionale, si può sempre definire per mezzo delle conchiglie. Gli dei divengono in tal modo il "principio di classificazione" degli avvenimenti. Ognuno governa un "avvenimento-tipo". Ad una conclusione analoga arriveremo studiando la natura. Gli Orishà ci appariranno così come un principio di classificazione del reale. Ossain è il dio della boscaglia e qui, immediatamente, troviamo la separazione tra il primo dominio, quello sul quale regna il babalaò, e il secondo dominio che riguarda l’ Olosaim. Allorquando appare l’uomo per addomesticare la natura, cambiare la foresta in campi coltivati, tracciare le strade di una città, Ossain non è più lì. Egli non vive nella terra coltivata, ne nelle case, l’abbiamo detto: le piante raccolte nelle corti delle dimore cittadine o comprate in erboristeria, non hanno alcun valore. Il regno di Ossain comincia dove finisce quello dell’uomo. Ed è per questo che l’uomo che vi si avventura deve prendere delle precauzioni, obbedire a prestabiliti rituali e deporre sul suolo un’offerta appropriata.

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Ma se Ossain è il "signore delle erbe" è a lui e a lui solamente che si deve chiedere il permesso di raccoglierle, a lui si deve fare il pagamento sia con un po’ di tabacco o con delle monetine; ognuna di quelle foglie appartiene allo stesso tempo a un determinato Orishà. C’è un mito a Cuba, forse se ne trova traccia pure in Brasile ma nessuno ce ne ha mai parlato a Bahia, che spiega questa doppia appartenenza. Ci permetteremo di parlarne poiché, anche se è stato ignorato dai Neri brasiliani, spiega tuttavia, in modo mirabile, la concezione che i Neri hanno delle piante: "Una volta terminata la creazione, il Padre Eterno, prima di ritirarsi in cielo, divise l’universo tra i suoi figli; ognuno ricevette dalle sue mani, oppure ottenne per conto proprio, “per meriti riconosciuti”, ciò che ancor oggi gli appartiene: Olokun ottenne il mare, Aggayu le savane, Okè le montagne….ecc. Ossain ricevette il segreto delle erbe, la conoscenza delle loro virtù. Le erbe erano esclusivamente sue e non le dava a nessuno, finché un giorno in cui Shangò si lamentava con sua moglie Oya, sovrana dei venti, che Ossain era la sola a conoscere il mistero di ogni erba e che gli altri Orishà al mondo non ne avevano neppure una, Oya aprì le falde del suo vestito e le agitò impetuosamente facendole roteare tanto che di lì a poco si levò un fortissimo vento. Ossain conservava i segreti delle sue erbe in una zucca appesa ad un albero; vedendo che il vento l’aveva aperta facendo volare via le erbe, incominciò a cantare: Eè egguero, egguero, sàuè èreo, ma non le fu possibile impedire che tutti gli Orishà se ne impossessassero e se le dividessero. Così essi diedero dei nomi alle erbe e una virtù a ciascuna di quelle di cui erano entrati in possesso. In conclusione, anche se Ossain è la sola signora delle erbe , ogni dio, sulla montagna ha le sue." Il compito degli Orishà è quindi quello di stabilire, nel caos della natura selvaggia, una classificazione delle piante che ne permette un uso razionale da parte dell’Olosaim. Questa classificazione sarà logicamente ben diversa da quella di un Linneo, ma è comunque un saggio di interpretazione del mondo vegetale. Obbedisce a differenti regole, ma sempre regole. Due sono gli usi di queste foglie da distinguere: per esempio l’uso religioso del lavaggio della testa delle yauò e quello medicinale. Nel primo caso la regola è simbolica, nel secondo la regola è applicata. Le erbe sono collegate a questa o quella divinità secondo le analogie che ci possono essere con essa. Per esempio, dato che il colore di Oshalà è il bianco, il tapete de Oshalà le cui foglie sono contornate da una specie di borra bianca e il cotone perché dai suoi semi esplode un soffice candido ciuffo, sono consacrati a Oshalà. La “foglia di fuoco” che ha una gradazione rossastra e il papavero dal fiore rosso, ma solamente quello, sono attribuiti a Shangò e a Yansà, poiché il colore di queste due divinità è il rosso. C’è anche un rapporto tra il colore delle vesti, quello delle perle della collana e quello delle erbe di ogni divinità. A volte è la forma piuttosto che il colore ad essere presa in considerazione; per esempio la “spada di Ogun” ha la forma di un coltello e Ogun è il dio del ferro, il re della guerra, il protettore degli assassini; la cazadinha presenta sulle sue fogli delle specie di rigonfiamenti, come delle verruche che le danno l’aspetto delle pustole che ricoprono il corpo di Omolù, il dio del vaiolo. E, se l’ortica è pure attribuita a questo dio, dipende dal fatto che, se toccata, provoca alla pelle delle irritazioni e dei pruriti come si verifica nel caso di dermatosi. Gli “occhi di S. Lucia” sono di Yemanjà perché, tra il verde dei campi, sembrano dei piccoli laghi marini in cui si specchia l’azzurro del cielo. In altri casi sono i profumi la cosa determinante, poiché si può così catalogarli secondo il loro tipo (quelli che risanano l’atmosfera, quelli forti o quelli voluttuosi) e attribuirli al carattere delle divinità (divinità della purificazione – Oshalà-) della lotta (Ogun) o della sensualità (Oshum). Bisogna distinguere l’uso religioso delle piante da quello medicinale perché non hanno assolutamente nulla in comune. Ad esempio: il rosmarino appartiene a Oshalà per via del suo profumo purificante e non per le sue proprietà terapeutiche, non c’è alcun legame tra la tosse, guarita dall’infuso di rosmarino e il dio del cielo. Se la “spada di Ogun” è abbinata al dio della

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guerra è per via della sua forma lanceolata e non perché sia diuretica. E’ per questo che le elaborazioni degli erboristi non possono servirci per entrare nel mondo della mente degli addetti del Candomblè. Gli Olosaim non sono unicamente chiamati per preparare i bagni delle yauò, ma anche per guarire i malati. Ci deve quindi essere una classificazione medicinale delle erbe, ma, come vedremo, anch’essa obbedisce a ben altre cure di quelle degli erboristi. Gli Orishà sono legati alle diverse parti del corpo umano, così come esiste una geografia mistica dello spazio, esiste pure un’anatomia mistica. E questa anatomia risponde alla legge delle corrispondenze: il microcosmo che riflette il macrocosmo. Eshù è il guardiano della porta, sorveglia le aperture, lo si mette sulla soglia della porta; egli sta quindi a presidio di tutte le malattie della via orale, così come di tutte le altre aperture del corpo. Così egli è abbinato alla carrapateira i cui grani servono a comporre dei rosari destinati a far sparire il gozzo o il cui infuso è impiegato contro le infiammazioni dei gangli del collo. O, ancora, il carurù che è considerato un emolliente e lassativo. Shangò è la divinità del fuoco per cui punisce i suoi detrattori con la febbre e le sue foglie saranno quelle che calmano la febbre, esempio: folha de fogo (betis cheirosa). Oshalà, in quanto volta celeste che sovrasta il mondo e come divinità suprema, presiede alla testa degli uomini; così per lui ci saranno le erbe che combattono le cefalee o le altre malattie della testa: il rosmarino e il basilico. Omolù corrisponde alla pelle e punisce tutti i suoi detrattori colpendoli con malattie della pelle, della carne superficiale, come dermatosi, risipola, vaiolo o lebbra. Di conseguenza ci saranno delle malattie che spesso si manifestano con vomiti e disturbi di stomaco. O ancora come le eruzioni cutanee che, per il popolo, sono manifestazione di “cattivo sangue” che vuole uscire e così ci saranno, sotto la giurisdizione di Omolù le diverse piante depurative come il “velame”. Yemanjà e Oshum, in quanto divinità umide, controllano il ventre e, l’ultima, anche il basso ventre; esse puniscono sia mandando delle coliche, sia attaccando le parti genitali; esse quindi governeranno per queste stesse ragioni, e soprattutto Oshum, le erbe antisettiche e disinfiammanti come il malme-quer. Le virtù medicinali delle piante selvatiche non sono quindi sconosciute e, qui, l’arte dell’ Olosaim si unisce a quella dell’erborista, o dei “guaritori” bianchi e meticci che abbondano nel sertao Brasiliano troppo esteso e troppo poco popolato perché un medico possa introdurvisi. Ma, mentre i “guaritori” o l’erborista si interessano unicamente a queste proprietà terapeutiche, l’olosaim ne da una spiegazione facendone elemento della teoria degli Orishà, includendola subito in un sistema di classificazioni e corrispondenze tra una divinità e una parte del corpo umano e tra questa parte del corpo umano e la pianta salvatrice e, infine, tra la pianta e il suo Orishà corrispondente. In tal modo il cerchio si chiude, cerchio che si può percorrere in due sensi: dalla pianta all’Orishà che è quello della messa a punto dentro il sistema e quello dall’Orishà alla pianta che è quello della genesi della sua virtù medicinale. Poiché il dio colpisce e guarisce nella parte del corpo umano che gli appartiene, egli è l’onnipotente, può, se non lo si onora, scatenare la sua collera, ma, se ci si pente, lui offre la foglia che cicatrizzerà la carne che lui ha martirizzato. Come si vede, il mondo degli uomini e il mondo della boscaglia costituiscono due mondi differenti, ma sia l’uno che l’altro sono legati al mondo delle divinità. Ci sono dei legami tra gli avvenimenti accaduti o le piante selvagge e gli Orishà che sono nel cielo. Questi ultimi costituiscono il principio della classificazione, che racchiude tutto il reale nelle sue trame attraverso una concezione di appartenenze. Questo gioco di riflessi non ha nulla di sorprendente poiché il cielo e la terra sono due mezze zucche e che quella che sta sotto è simmetrica a quella sopra. Per contro, il regno dei morti è totalmente differente; come abbiamo visto essi vivono dentro quell’acqua che circonda i bordi delle due mezze zucche, nel punto esatto dove queste combaciano. Se invece di partire dall’immagine concreta del mondo partiamo dalla sua immagine “parlata”, cioè dall’incrocio fatto dai quattro odu, descritti nel capitolo precedente arriviamo alla stessa conclusione. Il braccio in basso è come il riflesso di quello in alto nella tranquilla superficie dell’acqua, ma la linea verticale taglia quella orizzontale in due metà antagoniste, quella del giorno e quella dell’ombra. Qui non c’è più l’immagine capovolta, ci sono le direzioni di due sensi contrari. Mi si obietterà forse che la morte figura tra gli odu, ma non bisogna confondere la morte che è un avvenimento, con i morti, che sono degli esseri, disincarnati senza dubbio, ma pur tuttavia

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degli esseri loro stessi. In questo modo, il legame tra il nostro terzo dominio, quello del babaloge e gli altri si realizza solo per mezzo dell’intervento di Yansà. Questo legame va considerato come un legame di lotta: Yansà combatte contro Egun ed è lei che ne esce vittoriosa e così la supremazia degli Orishà sull’insieme del cosmo, rimane assicurata, malgrado l’eterogeneità degli scompartimenti tra i quali è frastagliata. Gli Orishà sono in Africa degli dei che formano un clan; essi sono considerati come degli antenati che vissero un tempo sulla terra e che sono stati divinizzati dopo morti. Allo stesso tempo essi sono delle forze della natura, che fanno cadere la pioggia, o che regnano sulle acque dolci, o che rappresentano un’attività sociologica ben determinata: la caccia, la metallurgia, ecc. il che fa che non siano adorati solo dai loro discendenti, membri del clan, ma anche da tutti quelli che necessitano del loro appoggio, i contadini che desiderano un buon raccolto, i pescatori, o i fabbri. Questi due caratteri non sono contradditori. Possiamo immaginare, seguendo, ad esempio, il pensiero di un Mauss, che la società primitiva fosse stata composta da un certo numero di clan e che ognuno di questi avesse avuto una funzione rituale ben precisata, portata avanti nell’interesse generale, cioè quello dell’insieme della tribù. Un clan incaricato dei rituali per ottenere la pioggia, un altro per i riti della fecondità animale, un altro per calmare le acque del mare… E questo spiegherebbe come e perché questi mitici antenati dei diversi clan, dopo essere stati i tenutari delle “magie” per domare le forze della natura, sono diventati essi stessi i simboli di queste forze. La religione entrerebbe nel cerchio della legge del cambio e contro cambio, risiederebbe dentro questa complementarietà di servizi, che fonderebbe l’unità dell’etnia sulla divisione del lavoro religioso. Inoltre, seguendo sempre l’interpretazione del pensiero di Mauss e adesso anche di Durkheim, l’organizzazione della società come clan è modellata dall’organizzazione del cosmo, ogni clan sarebbe non solo legato ad un rituale apposito, di cui è il padrone, a condizione che l’utilizzi a beneficio di tutta la comunità, ma anche a tutta una serie di colori, piante, animali, una direzione dello spazio, una stagione dell’anno... La struttura sociale che fornisce il primo modello della struttura del cosmo. Tuttavia, come già abbiamo scritto nella prefazione, non vogliamo porci i problemi della genesi, ma, d’altra parte, niente ci impedisce di supporre che il sociale venga prima del misticismo. La distribuzione delle cose tra i clan precede o no la distribuzione dei clan tra gli dei? Notiamo bene che c’è un sistema strutturale dove sono coinvolti sia i gruppi umani che i gruppi cosmici, non possiamo indovinare se sia stata la metafisica o la sociologia a servire da principio iniziale per questa classificazione: se sono le cose che entrano nella classificazione sociale, o se è il sociale ad entrare nella classificazione delle cose. In ogni caso, quando passiamo dall’Africa al Brasile, i clan africani spariscono, nella confusione delle mescolanze etniche, nel caos delle relazioni sessuali. La schiavitù ha distrutto la società tribale, il regime delle grandi piantagioni ha mescolato razze e clan. Gli Orishà conservano ancora il loro mito di antenati divinizzati ma non sono più gli dei dei clan, sono gli dei delle confraternite religiose specializzate. Perdono quindi le loro caratteristiche di capi di lignaggio, ma sembrano ormai solamente delle personificazioni dell’uragano, della guerra, del vento, dell’arcobaleno ecc. Diverse forze della natura ma, ed è quello che li distingue dalle piante di Ossain, ciò che ne fa un compartimento a parte del cosmo, se essi comandano alle forze della natura, le dirigono dall’alto, dal cielo dove essi risiedono, dove formano la corte reale. Se i legami fra gli Orishà e i clan si sono sciolti, per contro i legami fra questi stessi Orishà e i colori, le stagioni, gli animali, ecc. continuano. Anche se accettiamo l’ipotesi di Mauss e Durkheim sull’origine sociale delle prime classificazioni dei concetti, invece di porre il sociale in una classificazione anteriore, il fatto è questo: in Brasile la classificazione non ha più un carattere sociologico ma è puramente religiosa. Non dobbiamo quindi preoccuparci di fare delle ipotesi che non ci sarebbero di alcun aiuto, ne a tentare di risolvere il problema, insolubile, della genesi. Il nostro compito è solo quello di analizzare il sistema degli Orishà in quanto sistema di classificazione delle cose. Ogni dio è legato a un certo colore, a certi metalli, animali o fenomeni meteorologici, così come a certi avvenimenti o a certe piante , a certi spazi (il mare,la foresta…), a certi tempi (questo o quel giorno della settimana). Senza dubbio non le conosciamo tutte queste connessioni ma, a forza di penetrare sempre più intimamente nel mondo dei miti e delle leggende, potremo osservare meglio i comportamenti e le attitudini dei membri del Candomblè e ci si presenterà il

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caso di trovare altre complicazioni o di incrementare il numero dei legami già noti. Anche se non possiamo affermare che il nostro schema sia fino a questo punto completo, lo consideriamo sufficientemente ampio per mettere ben in luce il carattere classificatorio degli Orishà. Schema di Corrispondenze e Classificazioni Dominio natura

Dominio della società o delle relazioni umane

Colore

Metallo

Oshalà

Bianco

Capre Alluminio bianche, piccioni

Eshù

Rosso e nero

Bronzo

Gallo cane

Ogun

Blu

Ferro

Carne faraona

Omolù

Nero e bianco

La terra ma anche "il medico Bue, gallo, il sole; le malattie poveri maiale epidemiche

Shangò

Rosso oppure rosso

Gallo, montone capra

Yansà

Idem

Idem

Capre, polli

Il vento tempesta

Oshossi

Verde e giallo

Bronzo

Montone, gallo

La luna (soprattutto sotto La caccia forma di Odè

Yemanjà

Rosa, azzurro

Argento

Colombe pecore

Oshum

Oro

Ottone

Capre, polli Acqua dolce

Oshumarè

I sette colori dell’arcobaleno

e bianco solamente Cuoio

Animale

della

Orishà

La volta celeste

bue Le aperture, le strade e gli incroci

Gallo, bue

La guerra metallurgia

e Il lampo, il fuoco

e

Il mare

e

e

la dei

La giustizia la

La pesca L’amore

L’arcobaleno

Tutta una serie di leggende spiega o giustifica questi legami dalla storia stessa del dio. Sarà sufficiente prendere un esempio, quello di Shangò per dare un’idea di questo metodo di classificazione mitologica. Se il colore di Shangò è una mescolanza di rosso e di bianco è perché il rosso gli appartiene di diritto in quanto lui è il padrone del fuoco, ma lui ha portato tra le sue braccia il suo vecchio padre, Oshalà, quando questi uscì di prigione con le membra rotte; da allora, in ricordo di questo gesto di affetto filiale, Shangò mescola il bianco, che è il colore di Oshalà, con il rosso delle sue vesti; alterna perle rosse a perle bianche nella sua collana, ma la creta che a lui è consacrata è quella rossa (la creta bianca serve soltanto per i disegni di Oshalà). Un altro mito che mi è stato raccontato a Bahia spiega questa mescolanza dei due colori in un'altra forma: Shangò era innamorato di Oshum, figlia di Oshalà, ma lei non acconsentiva a sposare il dio se non alla condizione che egli portasse sulla schiena il suo vecchio padre, incapace per via dell’età, di camminare per andare alle nozze. Fatta questa alleanza, il rosso di Shangò si sposò con il bianco di Oshalà. Se il montone è il suo animale è perché lo ha incaricato di impadronirsi dell’astuzia del martin pescatore, troppo ciarliero, che riferiva tutto quello che si faceva in casa, punendolo in tal modo per la sua indiscrezione. Se Shangò adora le quiabes (Hibiscus esculentus) è perché proprio questo cibo gli ha fatto dimenticare la sua rivalità con Ogun e anche il suo amore per Oshum. Infine, le minime partecipazioni o i minimi legami sono sempre

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giustificati da delle storie appropriate. Quello che abbiamo appena detto per Shangò vale, naturalmente, anche per tutti gli altri Orishà. Queste biografie degli dei non interessano il nostro lavoro; possiamo lasciarle da parte per non esaminare che la classificazione delle cose dal punto di vista delle categorie divine. E qui incontriamo la prima difficoltà. Ogni Orishà è multiplo, ci sono, per esempio, dodici Shangò, sedici Oshum, diciassette Yansan, vent’un Eshù... Come spiegare queste molteplicità e così tante diverse quantità? Una Ialorishà a cui avevo fatto la domanda mi ha dato, in risposta, una interpretazione sociologica: gli Africani portati come schiavi in Brasile appartenevano a molte differenti tribù e queste tribù avevano i propri Oshalà, Omolù, Ogun…. In Brasile queste etnie hanno mantenuto i loro culti, riconoscendo, in fondo, che, anche sotto nomi differenti, le divinità da adorare erano le stesse. Ed ecco spiegata la giustapposizione dei nomi e la molteplicità degli Orishà. Qualcosa di vero c’è in questa spiegazione. Ogni Candomblè appartiene a una “nazione” e, ogni “nazione” da dei nomi differenti ai suoi dei. Per esempio: Oshalà è chiamato Lembà nei terreiros Congo. Lembarenganga nei terreiros Angola. Eshù si chiama Legba nei Candomblè che vengono dal Dahomey e Bombonjirà in quelli di origine Bantù. Oshum porta il nome di Aziri nei primi e Kissimbi nei secondi. Ma non sono queste designazioni etniche un nostro problema. Oltre a queste variazioni da “nazione” a “nazione”, per una stessa etnia ci sono in più vari Shangò, Ogun o Eshù... D’altre parte, se la sociologia avesse la chiave del problema, non troveremmo numeri diversi passando da una divinità all’altra, poiché sarebbe veramente un caso straordinario se si fossero incontrate delle persone appartenenti a dodici clan di Shangò, sette di Ogun, sedici di Oshum, quando le cifre di queste divinità sono giustamente dodici, sette e sedici! Ognuna di queste sotto-divinità ha dei miti speciali. Per esempio, il più vecchio di tutti gli Shangò, Aira, è quello che è stato incaricato di ricondurre il vecchio Oshalà nel regno di suo figlio Oshoguian. Oshum Ioni è al centro di un mito che non troveremo in nessuna delle storie delle altre Oshum: Oshum era la regina di un territorio grande e ricco che fu invaso dagli Ioni, attirati dalla fama di queste favolose ricchezze. Essi sottomisero la regina, s’impadronirono della capitale, razziarono il paese mettendo le mani sulla fortuna della sovrana. Oshum, per non essere fatta prigioniera, fu costretta a fuggire col favore delle tenebre, montò su di una zattera rivolgendo a dio un’ardente preghiera. Quindi, sotto l’ispirazione divina, domandò ai suoi seguaci che la tenevano nascosta sulla spiaggia, di preparare degli abara e di lasciarli sulla riva. Quando gli invasori arrivarono sulla spiaggia, avevano una gran fame, così si precipitarono sugli “abara” e li mangiarono. Questi non contenevano veleni, ma una forza divina che li fece cadere morti. In tal modo Oshum potè riprendersi fortuna e territorio. Da allora, per via di quella vittoria, elle prese il nome di Oshum-Ioni. Questa diversità di nomi e di leggende ci induce a pensare che ognuno di questi sotto-dei debba compiere una funzione differente ed è proprio quello che sembra, in fatti, ad esempio: l’apetebi, come abbiamo visto, è obbligatoriamente una figlia di Oshum, ma non di una qualunque Oshum, solamente di Yaba Omi. Così pure abbiamo visto che Yansan aveva vinto la morte e che, per questo, interveniva nell’ ashèshè e nella società degli Egun; anche qui però non si tratta di una qualunque Yansan, ma è una delle diciassette Yansan, di cui non mi hanno rivelato il nome ma che, forse, è Muria-Yansan (nome di un personaggio che la rappresenta nella festa di Egun). Allo stesso modo, tra i ventuno Eshù c’è ne è uno incaricato della strada ed è Odè; un altro che è lo schiavo di Oshalà ed è Ajelù: uno veglia davanti alla porta, l’altro regna sui crocicchi; uno è cattivo e l’altro un protettore della casa... I colori variano anche da una sotto-divinità all’altra: se Shangò unisce il bianco con il rosso, il suo principale colore è il rosso. Aira, al contrario, per via della sua relazione con Oshalà, si veste di bianco, porta una collana di perle bianche e in più la collana usuale di Shangò, rossa e bianca, infine, riceve lo stesso rituale di Oshalà. Quanto ai diversi Omolù che danzano, è facile distinguerli nei giorni di festa dalla forma dei cappucci o dal colore della paglia. Uno porta un abito di paglia giallo, l’altro di paglia marrone, un terzo di paglia rossastra con delle parti bianche, un quarto di color

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ruggine picchiettato da puntini bianchi, un quinto è vestito di paglia sia rossa che gialla... Siamo quindi, io credo, autorizzati a concludere che la molteplicità degli Orishà corrisponde a una molteplicità di funzioni o a una molteplicità di partecipazioni. Così come, nella logica Aristotelica, i generi si dividono in specie, il nostro sistema di classificazione del cosmo comprende sia delle categorie molto generalizzate e, all’interno di queste categorie, delle specie più particolarizzate. Ed è qui che troveremo la seconda difficoltà: quella delle cifre. Quando il ricercatore vuole compilare la lista di queste sotto-divinità, domandando qui e là, succede che il numero dei nomi ottenuti oltrepassa la cifra convenzionale che si dovrebbe trovare. Ad esempio: sette Oshalà invece di tre. Dieci Ogun invece di sette. Si tratta di una difficoltà, ma non insuperabile. Sappiamo che nei canti di lode, gli oriki, i nomi delle divinità sono seguiti da tutta una serie di termini onorifici. Sovente, durante le conversazioni con gli Afro-Americani, questi termini onorifici sono confusi con dei nomi. Per esempio: Oba-Shangò non è uno dei dodici Shangò, ma è solo un appellativo che gli si da: Shangò-re. Allo stesso modo Shangò-dada o baba, non è uno Shangò speciale, ma un attributo di Aira (il vecchio Shangò, il nonno di Shangò). Per compilare la nostra lista, dobbiamo quindi separare accuratamente i nomi delle sotto-divinità da quelli delle designazioni etniche, da un lato e i nomi di lode dall’altro. Ed ecco la seguente lista: Tre Oshalà

Oshalufà, il più giovane, Oshishala, Oshoguian, il più vecchio

Quattro Oshossi

certi informatori insistono che Oshossi è unico, ma noi ne abbiamo una lista di altri quattro: Oshossi, Odè, Inlè, sempre più dimenticato perché non discende più in Brasile, Logunèdé, considerato come il figlio di Inlè e di Oshum

Sette Ogun

Lebedè, il più giovane, senza dubbio quello che più sovente viene definito Ogun de lè, Obefaran, Nika... Ogun meje, il più veccio, esattamente il “settimo”;

Dodici Shangò

Aganju, il più giovane, Afonja, che ha dato il suo nome a uno dei terreiros, il più famoso di Bahia, Ogodo, Ani-Shangò che è lo sposo di Oshum, Balonein o Abalonei, Oro, tradotto forse in portoghese sotto la forma de ouro, che significa Shangò d’Oro, ma si tratta naturalmente di una falsa interpretazione… Aira che è il più vecchio

Quattordici Omolù

i due più celebrati sono Omolù il giovane e Omolù il vecchio o Abaluayè

Sedici Oshum

Oshum- Pandà, la più giovane, Yaba-Omi, Oshum Abaè, Oshum Aboto, che è legata allo odu: ose, Oshum apara, che vive sulle strade in compagnia di Ogun e che gioca con lui con la spada, Oshum Ioni, Oshum Abalo, la civetta che si diverte con il suo ventaglio, Oshum Timi, Oshum Aquidà, Oshum Nìsin... e Oshum Lobà, che sarebbe la più vecchia

Diciassette Yansan

Oya benika, Censu, Bomin...

molte Yemanjà

ma non ne conosco i nomi esatti, come Suruè, Ainu o Ainum, Oguntò...

ventuno Eshù

(a meno che, come mi diceva un Babalorishà in un suo momento d’entusiasmo 21 volte 21): Ajikanoro, il compare, Alafia, Alaketu, Legba, Barabò, Lon Bii, Ekessae, Embarabò, Embabèrèkètè, Ajelù, Lalù, Tiriri, Vira (che è un Eshù femminile), Mojuba, Tamentau, Etamita, Olodè, ecc. Su questo dio ritorneremo a parlare, con maggiori dettagli per via della sua molteplicità

Tutte queste cifre non sono effetto del caso. Si possono, infatti, confrontare le une con le altre, partendo dalle due cifre maggiori che sono quelle della mascolinità e della femminilità. Esse costituiscono delle somme o dei prodotti, forse dei multipli. Partendo dalle due cifre sessuali, tre (Oshalà) e quattro (Oshossi), abbiamo trovato successivamente:

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3 + 4 = 7 (Ogun) 3x4

= 12 (Shangò)

4x4

= 16 (Oshum)

Yansan, senza dubbio in quanto principale femmina che mostra la sua superiorità sulla “concubina” o la “femmina preferita” Oshum, aggiunge una unità alle sedici di Oshum. umana nel suo gemellaggio: 2 x 7 = 14 (Omolù) 3 x 7 = 21 (Eshù)

NAGO

KETU

IJESHA GEGE

ANGOLA

CONGO

Eshù

Embarabò Lalu

Bara

Aluvaia

Bombonjirà

Legba

Legba

Parana

Lonàn

Abaketu

Rum Danto Vira

Ajelu

Mavambo

Alkessan ecc..

Pombo-ngera Sinza Mutila

Ci troviamo quindi di fronte ad una vera e propria legge genetica delle divinità che stabilisce tra le grandi categorie di classificazione del reale, un legame matematico. Esattamente come Platone che, dopo aver separato le Idee tra di loro e le Idee con le cose create, cercò, in seguito, di ridurre queste opposizioni, trovando per mezzo di una teoria di nomi, il mezzo di fare partecipare, a partire dall’Unità primordiale, tutto quello che aveva, all’inizio, troppo brutalmente distinto. La teoria dei nomi dei nostri Africani sembra corrispondere ad un analogo bisogno dello spirito, a una volontà di riunire ciò che era stato violentemente separato, a scoprire, dopo la logica dei concetti, una logica di relazioni. Ma quale significato esatto si deve attribuire a questi rapporti matematici tra gli Orishà-concetti? Oppure tra i vari scompartimenti del reale: fuoco, acqua salata, acqua dolce, cielo ecc… che definiscono questi concetti? Non ci è possibile rispondere a questa domanda. A Cuba invece le cifre date non corrispondono sempre a quelle del Brasile. Abbiamo la sensazione che ci debba essere una teoria mistica dei nomi; forse anche due che, storicamente, si sono affrontati, ma di un’origine differente: la prima stabilizzata sul numero di 12, che è quello che ha colpito M. Griaule nel suo lavoro, la seconda sul numero di 16, che quella della geomanzia, di origine semitica. Non possiamo far altro quindi che formulare in questo campo un’ipotesi di lavoro, quello di cui abbiamo parlato, cioè una genealogia a partire da 3 e da 4. In tutti i casi, per noi, più che questo sforzo di trovare dei legami, è importante – in questo capitolo – la separazione dei quattro scomparti del reale. E questi, sono forse adesso immobili o, contrariamente, partecipano in qualche modo l’uno con l’altro? CAPITOLO IV - ESHU' Nel celebre mito raccontato da Ellis, i 16 grandi Orishà escono dal ventre incestuoso di Yemanjà, ma il nome di Eshù non compare. Però Eshù è considerato come il fratello di Ogun, di Shangò e di Oshossi e, di conseguenza, dovrebbe figurare in questo mito come il diciassettesimo Orishà, il più giovane di tutti. Ma se egli non compare, ci dovrà pur essere una ragione e questa non può essere altro che la funzione tutta speciale di questa divinità nella cosmologia yoruba, cioè egli non deve essere un Orishà come tutti gli altri. Per questa ragione, siccome egli è diverso dagli altri, noi lo studieremo a parte.

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Gli etnologi che si sono interessati alla sua figura o ai suoi miti, in Africa, lo chiamano con il nome di “trickster” (briccone, imbroglione) e, in effetti, egli appare, all’inizio, come un essere malizioso, che si diverte a fare delle bricconate o a giocare dei brutti scherzi sia agli altri dei che agli uomini. Questo fatto di essere malizioso, che forse ha una spiegazione, spiegazione che cercheremo di trovare qui, è anche noto ai fedeli dei Candomblè brasiliani. In seguito a circostanze storiche, questo elemento ha assunto una tinta più oscura, il “diavoletto” delle leggende yoruba si è trasformato in diavolo, un diavolo crudele e cattivo, il potente padrone della stregoneria. Uno dei miei corrispondenti, ministro di Shangò, mi scriveva un giorno a questo proposito: “Avete scelto uno degli dei più difficili da studiare, poiché i Neri fanno di Eshù e degli Egun i loro simboli più potenti ed è per questo che celebrano i loro culti nel più grande segreto, non rivelando, neppure agli amici fedeli, i misteri di questo Dio”. Quando, a seguito della sua lettera, lo interrogai oralmente su questo argomento, egli mi volle spiegare che, siccome Eshù presiedeva alla magia, nella grande ribellione degli schiavi contro il regime oppressivo al quale erano sottomessi, egli era diventato il protettore dei Neri (magia bianca) e, allo stesso tempo dirigeva le cerimonie contro i Bianchi per farli morire, renderli pazzi, rovinare le loro piantagioni (magia nera). I Bianchi spaventati, come è naturale, addirittura alcuni di essi erano morti avvelenati con quelle piante chiamate: "per addolcire i padroni" (amansar os Senhores), identificarono Eshù come il diavolo dei cristiani, ci videro il principio del male, l’elemento demoniaco dell’universo. Così, anche i membri stessi dei Candomblè accettarono questa versione. Ricordo ancora quella Ialorishà a cui chiesi se nel suo terreiro c’erano dei figli di Eshù, che, facendosi il segno della croce, disse: “Dio me ne guardi, è il cane e io non gli lascerei mai varcare la soglia della porta”. Il cane è la parola con cui i Brasiliani, per eufemizzarne il nome, usano per definire il diavolo, hanno paura perfino di pronunciarne il nome, perché non gliene venga un maleficio. Molte altre caratteristiche di Eshù però spiegano i suoi strani rapporti. Anzitutto egli è il dio del fuoco, in Africa dicono che sia lui che ha portato il Sole. Quando si è voluto mascherare gli Orishà di fronte alle indiscrezioni dei Bianchi, dando a loro dei nomi cattolici, si è cercato per Eshù un santo corrispondente legato al fuoco ed è per questo che, a Cuba, questi corrispondenti sono le anime del purgatorio e, a Bahia, il diavolo danzante tra le fiamme, gettando fuoco dalla bocca, come dalle iconografie delle chiese cattoliche. Spesso Eshù viene rappresentato con delle corna, ma le sue corna non sono come tutte le corna, sono invece simbolo di potenza e fecondità. Da allora, a Bahia, ci si è dimenticati che anche Mosè è rappresentato con delle corna, per non vedere altre corna che quelle del diavolo, anche nelle raffigurazioni cattoliche. A queste due spiegazioni è necessario, probabilmente, aggiungere un terzo fattore di assimilazione, molto importante ai tropici: la sessualità scatenata. Il carattere sessuale di Eshù è senza dubbio meno pronunciato di quello di Legba, ma le due divinità, Yoruba e Fon, hanno finito per unirsi già in Africa e, a maggior ragione, in Brasile, dove il regime servile, sparpagliando le più diverse etnie in una stessa piantagione, permetteva che queste accomunassero i loro dei con caratteristiche simili. Le più antiche statuette di Eshù trovate nei Candomblè, presentano una caratteristica fallica molto accentuata. Sia i preti che i monaci, all’inizio della colonizzazione, hanno dovuto lottare contro la poligamia maschile, contro la seduzione delle Indie nude o delle Veneri nere, contro la voluttà dei signori Bianchi e l’erotismo delle piccole mulatte. Al fine di spaventarli, sono ricorsi, durante i loro sermoni, a inculcare loro il terrore dei patimenti infernali, hanno collegato l’amore carnale – ancor più che nei paesi Europei in cui il clima più temperato non spingeva a una tale lussuria – con il diavolo, desideroso di mandare alla perdizione per il peccato della carne,il maggior numero possibile di anime. Il fallo di Eshù, così come le sue corna, ci sembrano dunque responsabili dell’identificazione brasiliana di Eshù con il demonio. All’epoca in cui Nina Rodrigues incominciava le sue ricerche sul mondo del Candomblè, questo movimento di identificazione era assai pronunciato tanto da poter affermare che la religione africana, a Bahia, tendeva verso il dualismo tra un principio del bene (Oshalà) e un principio del male (Eshù) e, da allora, si capì che questo dualismo non era che al suo inizio: “Il dualismo dei negri non è che un dualismo di selvaggi e Esù non è altri che una divinità malvagia o poco ben disposta verso gli uomini”. In realtà, se dualismo c’è non può essere tra un principio del bene e uno del male, ma solamente tra la religione e la magia. Una magia esacerbata dal

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regime servile, diretta contro i cattivi padroni, o contro la categoria dei Bianchi nella sua totalità. Il regime servile è stato abolito. La democrazia razziale ha sostituito una società di caste antagoniste, l’uguaglianza di tutti i cittadini, a prescindere dal colore della loro pelle, a una stratificazione fondata sullo sfruttamento di una razza sull’altra. Ma Eshù rimane legato al diavolo e alla magia... Si incontrano spesso nei crocicchi di Bahia o in strade appartate, del pollame morto, generalmente di colore nero, che contiene nelle sue interiora dei grani di mais, delle monetine, una scatola di fiammiferi o foglie arrotolate di tabacco. Sono degli ebò, cioè dei sacrifici fatti a Eshù, i resti, ad esempio, di un padè gettati fuori del santuario. Ma siccome, a volte, un po’ della forza mistica continua a palpitare in quegli animali morti, le persone che passano da quelle parti per rientrare a casa o per andare a spasso ne hanno una grande paura. E’ sufficiente aver urtato con un piede la bestia morta per cadere malati poco dopo in segno di punizione da parte del dio. Si passa così, senza accorgersene dall’ebò come sacrificio religioso a l’ebò magico. Quest’ultimo consiste nell’introdurre volontariamente la forza malefica di Eshù dentro un animale e piazzare questo animale sulla strada di un nemico, oppure a sotterrarlo sotto la soglia della sua porta. I club di football utilizzano volentieri questo sistema dell’ebò contro i club rivali; i capi politici contro i loro avversari (questi non si fanno scrupoli a regalare grosse somme di denaro e di pagare il viaggio in aereo a degli “stregoni” famosi di Bahia, per disfarsi per mezzo della magia di ministri o, addirittura del presidente della Repubblica). Anche nel caso in cui ci siano delle gelosie tra terreiros differenti, non mancano dei Babalorishà che si servano tra di loro di queste armi temibili. A proposito di tamburi, abbiamo visto che, bastava mettere i bastoncini che servono per suonarli vicino ad un Eshù, perché il maleficio si introduca nella festa: “il suonatore di tamburo che cova qualche rancore nel Candomblè, porterà segretamente con se un bastoncino che è stato ai piedi di Eshù e il dio, in posizione di lancio del suo maleficio, può pregiudicare il buon andamento delle cose. Un bastoncino uguale, introdotto di nascosto durante l’esecuzione, e la cerimonia sarebbe completamente disturbata... Questo timore della magia spiega perché i tamburi e altri strumenti di Bahia siano raramente imprestati.” A Bahia esiste pure una magia bianca a lato di quella nera. Una magia di protezione contro la malattia, il dolore o la morte, oltre che la magia offensiva. Ma la magia bianca prende di solito più la forma di amuleto o di gris-gris, per esempio - le port de la figue o delle preghiere cattoliche medievali, scritte su dei pezzetti di carta e appesi al collo, mentre la magia nera tende a prendere la forma di culto di Eshù. L’idioma popolare traduce bene questa tendenza: “mettere Eshù sulla strada” significa “recare danno alla vita di altri” e “mettere Eshù nella testa” significa “rendere pazzi”. Questo utilizzo diabolico di Eshù riguarda soprattutto i Candomblè bantù. I loro capi religiosi si sono spesso specializzati nella fabbricazione di statuette di Eshù che diventano loro servitori zelanti, obbedendo ciecamente ai loro ordini; dietro loro istruzione escono di notte dal loro pegi per andare a spargere dappertutto disgrazia e morte: “il capo Severiano Manuel de Abreu”, scrive Edison Carneiro, “attualmente capo pacifico del gruppo spirituale Pace, Fede, Speranza e Carità e capo elettorale della zona, quando era ancora posseduto da Jubiaba, cioè San Tommaso, faceva nascere un intero villaggio di diavoli – il villaggio del capo Cunha – e questi diavoli o Eshù creati dal Babalorishà potevano, se volevano, spedire i loro nemici alla casa dei Morti – la Cazua de Kimbe, come la chiamavano i Negri bantù di Bahia”. “Il Padre di Dio Manuel Paim pilotava gli Eshù di sua proprietà a suo piacimento, poteva far passeggiare, a ore prestabilite, sulle alture di Abacashi, un altro Eshù che montava la guardia davanti ad una piccola baracca che lui possedeva in fondo alla casa”. Inutile aggiungere che tali passeggiate non potevano certamente essere molto cattoliche!... E così pure, in un Candomblè Bantù, quando una figlia della confraternita è posseduta da Oshossi, che è identificato con San Giorgio, costei prende un vestito blu o verde, bianco e giallo ed ha in mano, o finge di averla, una lancia con la quale colpisce Eshù che lei si immagina si stia arrampicando sui suoi piedi, proprio come San Giorgio ha sconfitto il demonio trafiggendolo con la sua lancia. I Candomblè tradizionali che si rifiutano di praticare la magia e, seguendo l’espressione consacrata di “lavorare a sinistra”, si guardano bene dal confondere Eshù con il diavolo. Ed è presso di loro, come vedremo tra poco, che il vero volto di questa divinità calunniata ci sarà

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rivelato. Non bisogna però dimenticare tuttavia che anche qui, la caratterizzazione di questo dio, ha continuato a esercitare in parte la sua influenza. Prima di tutto il fatto che, a differenza di altri Orishà, Eshù non ha mai avuto dei figli, o, almeno assai raramente. Da una ricerca fatta su questo tema risulta che il numero dei figli o figlie di Eshù a Bahia è sempre stato estremamente ridotto: Maria, del Candomblè di Mar Grande (ile d’Itaparica) il frate di Pulcheria (dei Gantois), Julia, del Candomblè di Lingua de Vacca, che era Eshù Bii, Sofia del Candomblè di Ciriaco, che era Gikete. Tutti o tutte ormai morti. L’ultima recentemente. Ne ho visto ancora uno presso Bernardino, nel corso del mio ultimo viaggio a Bahia, il volto indurito da espressioni di cattiveria artefatte e la sua danza non era altro che una sequenza di movimenti spasmodici o di furori sacri. Tra parentesi, facciamo notare che, dei cinque Eshù citati, due appartenevano a dei Candomblè bantù, uno a un Candomblè ijesha e due a dei Candomblè quetu. Ma, contrariamente alle altre figlie degli dei, così fiere di appartenere loro, questi figli di Eshù non sono contenti della loro sorte. Sofia pensava, a torto però, che il suo Eshù non era un vero Eshù e che il Babalorishà avesse, per sbagli, fissato nella sua testa un servitore di Ogun (il quale, è vero, è sempre accompagnato da vari Eshù nei suoi spostamenti), invece di Ogun a cui lei credeva di dover appartenere. Un membro del Candomblè di Ciriaco, che incontrai in un altro terreiro, mi diceva, parlando giustamente di questa Sofia: “Lei è quasi alla fine delle sue prove, perché una figlia di Eshù non conserva mai il suo Eshù per tutta la vita ma, contrariamente a quello che accade con tutti gli altri Orishà, lei ne resta posseduta solo per sette anni, alla fine di questi Eshù la abbandona. Si tratta di un dio terribile la cui presenza nella testa di una persona provoca a quest’ultima molte sofferenze”. Non so se questa affermazione di una possessione provvisoria sia esatta, poiché non mi è stato mai confermato questo fatto da altri informatori; per di più mi trovavo in un terreiro bantù, parlando con un membro di un altro terreiro bantù. La nostra conversazione fu tuttavia sintomatica di quanto malessere possa provare una figlia di questo dio. Nei terreiros yoruba si distingue la possessione da parte di Eshù dalle altre possessioni; non si tratta di una semplice diversità di grado, per esempio la violenza della manifestazione, ma di una vera differenza di natura. La lingua stessa enfatizza questa diversità: non si dice, infatti, che uno sia “posseduto” da Eshù ma che “lo porti “come un carico pesante e doloroso. A volte questo peso è considerato, per l’influenza cristiana, come una punizione divina. Edison Carneiro è colui che ha più insistito su questa differenza: “Non si dice che la persona è figlia di Eshù ma che ella porta il carico (carrègo) di Eshù, un obbligo nei suoi confronti per tutta la vita. Questo peso è scaricato su Ogun-jà, un Ogun che vive con Oshossi ed Eshù e si alimenta di cibi crudi, affinché Eshù non possieda questa persona. Se, malgrado tutto, egli si manifesta, può danzare nel Candomblè, ma non in mezzo agli altri Orishà. Una volta questo accadde nel Candomblè di Tumba Juncara (del Ciriaco), a Bèiru: la ragazza danzava trascinandosi per terra, i capelli in disordine e la vesti sporche. Una manifestazione simile ha, come sembra, il significato di una prova”. Infine, l’esiguo numero di figli di Eshù, la differenza dei termini impiegati per le crisi di possessione degli Orishà e degli Eshù (queda de santo e carregar), la vita di sofferenza delle persone condannate a portare Eshù nella loro testa, sono tutti segnali del carattere diabolico che corrisponde a questa divinità. Questo carattere diabolico si manifesta anche nell’interpretazione che si da al padè di Eshù. Nella nostra presentazione del Candomblè abbiamo visto che, sia nelle cerimonie pubbliche che in quelle private, così come in quelle profane o religiose, mortuarie o commemorative dei giorni dell’anniversario dei vari Orishà, si inizia obbligatoriamente col fare per prima cosa un omaggio a Eshù, spiegando che questo gesto spiega il ruolo di intermediario e di messaggero di questa divinità. C’è pure la tendenza a spiegare tutto questo in un altro modo e cioè che questo dio, per via della sua gelosia e cattiveria, se non lo si onorasse per primo, recherebbe disturbo alla festa. A Cuba c’è un mito che spiega il padè ed è che il dio supremo, creatore del cielo e della terra, Olofi, si era ammalato e che Eleggua (altro nome di Eshù) lo aveva rapidamente guarito con le sue erbe. Così Olofi riconoscente, dichiarò che da allora in poi egli avrebbe dovuto essere il primo ad essere servito. In Brasile il mito dell’origine del padè è totalmente differente:

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Il re del Congo aveva tre figli, Shangò, Ogun ed Eshù. Quest’ultimo non era esattamente un cattivo ragazzo ma un ritardato mentale e, a causa di ciò, si mostrava molto turbolento, passava il suo tempo a battersi e a bisticciarsi. Dopo la sua morte, ogni volta che gli Africani celebravano una festa, tutto andava di traverso: le preghiere non erano esaudite, i raccolti si seccavano e gli uomini erano vittime di epidemie. Quale tabù era stato violato? Il Babalaò consultò gli obi e questi risposero che il responsabile di tutte quelle disgrazie era Eshù, poiché, essendo geloso, voleva una parte dei sacrifici offerti. Gli Africani non fecero caso a questo primo avvertimento e continuarono le loro feste senza adorare Eshù. Poiché le disgrazie continuavano essi si diressero una seconda volta al Babalaò e la risposta fu: Eshù vuole essere il primo ad essere servito; ma chi era allora questo Eshù? Nessuno si ricordava più di lui. “Ma come – diceva il Babalaò – non vi ricordate più di quel negretto terribile che tirava pietre a tutti? Ebbene è proprio lui”. Questa versione è stata da me raccolta a Bahia. A Recife si ritrova lo stesso mito sotto delle forme leggermente diverse: 1. Eshù era un discolo, correva per le strade facendo birichinate. Il re allora giunse alla conclusione che dovesse essere messo in prigione; Eshù riuscì tuttavia a fuggire e, qualche anno dopo, morì. Nelle sette religiose, ad ogni festa, morivano 20 Negri. Finalmente un giorno un Nero consultando le conchiglie udì la voce di Eshù che diceva: se voi mi offrirete il primo sacrificio allora nessun Negro sparirà più. Da allora ogni Shangò comincia con il sacrificio di un galletto o di un capro per Eshù. Il galletto deve essere cotto con la farina di manioca e l’olio di palma. 2. Eshù fu espulso dalla setta poiché era un Orishà molto disobbediente che si divertiva a creare scompiglio, a uccidere, a rubare, a bere l’acquavite e a discutere. Per allontanarlo fu fatto un contratto con lui: gli si prometteva il primo sacrificio, un galletto e un litro di acquavite. 3. Eshù era il fratello di Ogun, Odè, Yemanjà... ma era così turbolento che il Re dell’Africa decise di prendere dei provvedimenti contro di lui. Così pure i membri della sua famiglia, per evitargli la prigione, gli consigliarono di lasciare il paese, cosa che egli fece. Gli altri suoi fratelli continuavano a celebrare le loro consuete feste, lodando gli dei, ma non nominavano mai Eshù poiché non sapevano più nulla di lui. Tuttavia Eshù, nei giorni delle feste, girava intorno alle porte dei templi senza che nessuno lo riconoscesse e senza che gli venisse dato alcun cibo; così egli si vendicò mandando le peggiori disgrazie al Reame. Il Re finalmente si decise a convocare i Babalorishà per prendere una decisione e, nel frattempo, le cerimonie religiose furono sospese. I Babalorishà si riunirono nel quartiere della città dove risiedeva il Babalaò, che fece il dilogun. Per mezzo delle conchiglie Eshù parlò: egli dichiarò che nessuno si ricordava più di lui ma che egli era già diventato uno Spirito. Reclamò, per far cessare le disgrazie che si abbattevano sulla setta, che gli si offrisse il primo sacrificio e così pure gli fossero dedicati i primi canti. Il Babalaò gli domandò che cosa desiderasse per sacrificio ed egli rispose: un capro e sette galletti e, con questo, non avrebbe più creato problemi. Il Babalaò obbedì a quest’ordine per conto suo: fece il primo sacrificio a Eshù, poi sacrificò a gli altri dei. I Babalorishà, però, risero di lui, e non tennero in conto le sue raccomandazioni e si sedettero cantando e beffandolo; quando, però, fecero per alzarsi dalle loro sedie non poterono farlo. Il Babalaò, per un po’ li lasciò lì seduti, poi mise la mano sulla loro spalla e questi riuscirono ad alzarsi. Il vecchio indovino aveva in tal modo dimostrato il suo potere all’interno della setta. Prima di andarsene raccomandò ai Babalorishà di fare per Eshù quello che lui stesso aveva fatto cioè l’offerta del primo sacrificio. Per questa ragione, da allora in poi, non ci furono più disordini nella setta. Questo mito si fonda su un canto di Ogun: Ou Nica Eru Zaqui Caranigè Aracutan A ti ta Padè So Lonan

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Ebonoraminha a Ludues I ou Nica è Luaralocou. Il significato quindi del padè è legato alla gelosia e alla cattiveria di Eshù. La sua finalità non è quella di inviare agli Orishà un messaggero che porti le preghiere degli uomini ma piuttosto quella di sbarazzarsi di una divinità ingombrante che, senza gli omaggi dovutigli, turberebbe le cerimonie e sarebbe capace di scatenare le più grandi disgrazie sul terreiro. E’ per questa sola ragione che il pegi di Eshù, posto ad un lato della porta d’entrata, è chiuso con un doppio giro di catenaccio per impedire che la divinità esca, poiché sarebbe soltanto capace, nei suoi vagabondaggi per le strade e i campi, di combinare guai. Anche così, a volte, Eshù è riuscito a scappare se gli sono stati offerti dei sacrifici troppo forti. Un Babalorishà che aveva l’abitudine di fargli delle offerte di mercurio, faceva ben attenzione a non esagerare con la dose, perché, se ne versava troppo, Eshù, scatenato, si slanciava subito a combinare le sue malefatte in giro per la setta. Se, a cominciare dalle storie raccontate dai “trickster” (imbroglioni), c’è stata la tendenza a spingere Eshù verso il demoniaco, è pur vero che questa tendenza è soprattutto forte nei terreiros angola e congo. Nelle altre nazioni, anche se se ne sente parlare, ciò non toglie che a questo dio sia attribuita la sua fondamentale caratteristica, cioè quella di intermediario tra il mondo degli umani e quello degli Orishà. Prima di tutto ci sono diversi Eshù e non tutti cattivi poiché altri invece sono considerati buoni. Studiando lo spazio sacro abbiamo visto che ogni Candomblè ha il suo genius loci, - "il cane da guardia fedele e vigile" – che protegge la casa contro gli eventuali nemici. Edison Carneiro, a proposito dell’appellativo di “compare” attribuita a quest’ultimo, scrive giustamente: “il titolo di compare implica una familiarità che suonerebbe stonata se Eshù rappresentasse solamente le forze ostili agli uomini, lo spirito del male”. Per rendersi conto dell’esattezza di questa affermazione, bisogna capire che in Brasile il legame con i padrini è altrettanto forte di quello fra parenti. I padrini sono parenti spirituali, con i quali si stabilisce un legame al momento della nascita di una creatura, (per un figlio si sceglie un uomo ricco o influente che si occuperà di lui come se fosse suo), oppure, durante le feste di San Giovanni (i padrini, tutti e due adulti in questo caso, si devono mutua protezione ed assistenza ). Il tabù dell’incesto regola i legami tra padrini così come accade nelle parentele; nel batuque ad esempio, danza erotica caratterizzata dall’incontro di due ventri che si scontrano, il colpo allo ombelico è proibito tra padrino, madrina e figlioccio, la gente del popolo crede che se tra di loro ci sono stati dei rapporti sessuali, costoro si trasformerebbero in lupi mannari o Boi-Tata. Un Eshù padrino è dunque un Eshù protettore e non malfattore... Il padè in questo caso non può essere solo un semplice contratto tra gli uomini e il principe del male affinché il disordine non si verifichi durante le feste: "quando i Negri dicono che fanno partire Eshù – despachar - impiegano questa espressione nel senso di mandare qualcuno da qualcun altro. Eshù è come l’ambasciatore dei mortali"; "dato che egli è il servitore degli Orishà, il loro intermediario con gli uomini, gli si fa festa prima che il Candomblè cominci". Bisogna aggiungere che Eshù non è soltanto un messaggero ma l’interprete, poiché il linguaggio degli dei non è quello degli umani e, di conseguenza, ci vuole qualcuno che traduca le preghiere di questi ultimi o i consigli divini in una lingua appropriata, cioè, secondo i casi, quella degli Orishà o quella dei loro fedeli. Adesso si comprende perché i miei amici del Candomblè si infuriassero contro coloro che identificavano Eshù come il diavolo dei cristiani: “ No, Eshù non è il diavolo! No, Eshù non è cattivo”. A Porto Alegre, a volte, viene identificato con San Antonio, a cause delle tentazioni subite, il che non ci allontana poi ancore molto dal diabolico, ma anche con San Pietro. Qui si manifesta il vero volto della divinità poiché San Pietro è il guardiano del Paradiso, colui che apre o chiude le porte alle anime. Egli sta sulla soglia del cielo, esattamente come Eshù nella sua casetta davanti al portone d’entrata del Candomblè. A Recife lo si identifica spesso con San Bartolomeo che, a Bahia, è il corrispondente cattolico di Oshumarè la quale, per mezzo del suo arcobaleno, unisce la terra alla volta celeste; meglio non si potrebbe descrivere il carattere di intermediario o di messaggero degli Orishà. Infine, nella stessa città, lo si identifica anche con San Gabriele, cioè, lungi dall’essere il principe del male, egli è, al contrario, “l’angelo guardiano” degli uomini. Come si vede, i discendenti degli Africani in Brasile hanno cercato di

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scoprire degli equivalenti cattolici di Eshù, tenendo conto dei suoi diversi caratteri e senza arrivare a cancellare tutta la sua complessità e molteplicità; essi hanno pensato alla sua malizia (il diavolo), alle sofferenze che egli provoca con le tentazioni sessuali (San Antonio), al suo ruolo di portinaio (San Pietro), di messaggero (San Bartolomeo) e di angelo custode (San Gabriele). Non ci si può tuttavia basare su tutte queste somiglianze poiché tra gli Orishà africani e i santi cattolici c’è sempre una differenza essenziale. Quello che però a noi interessa mostrare, dopo tutte queste cosiddette equivalenze, che non è possibile attribuire ad Eshù un carattere strettamente demoniaco. Anzitutto, nei nostri capitoli precedenti, Eshù ci è apparso come il dio delle aperture: lui inizia i rituali ed è il guardiano della porta, interrato sotto la soglia, lui afferra la gola degli uomini per punirli con delle infermità alle vie orali. Egli è, allo stesso tempo, il dio delle strade, “l’uomo della strada”, come a volte lo chiamano i Bantù, colui il cui ferro simbolico termina con 7, 14 o 21 punte, designate come le 7, 14 o 21 strade del suo reame. Si trasportano le sue offerte su delle vie appartate o negli incroci, la dove le vie di comunicazione si intersecano, poiché così si è sicuri che, a forza di scorrazzare per il mondo, prima o poi egli passerà anche di lì. Giustamente, in quanto presiede alle aperture e alle vie e non per altre ragioni, egli è diventato il messaggero di tutti gli Orishà. Egli apre la porta che separa la natura delle cose divine, unendo così i due stati del mondo, ma non ci sono solo due mondi da collegare, altri ancora ne esistono e questo ci fa pensare se la funzione di Eshù non sia infinitamente ancor più importante. Il cosmo è diviso in quattro scompartimenti, a ognuno è preposto un particolare sacerdozio. La separazione è nettamente e simbolicamente segnata con la differenza delle manifestazioni, trance mistiche o interdizioni da ogni trance mistica da parte dei preti che sono a capo di queste divisioni del reale; lettura delle “parole” o, al contrario, “apparizioni” visive dei morti; così come la divisione sessuale nel sacerdozio, da un lato è la donna che domina, dall’altra è interdetta. Il cosmo tuttavia è opera di un solo creatore: Olorun. E’ necessario quindi che queste divisioni non sopprimano la sua unità, questi quattro scompartimenti devono essere legati tra di loro. E chi potrebbe farlo meglio di Eshù, visto che è lui che apre le porte e traccia i cammini? Questa è la mansione di cui parleremo adesso. Eshù pratica delle aperture tra questi quattro domini, sblocca le chiusure che li separano per farli comunicare, con la sua intermediazione e assicurare così l’unione cosmica. Eshù è per noi l’elemento dialettico del cosmo. Arthur Ramos scrive senza maggiori commenti: “Il culto di Ifa a Bahia è strettamente legato a quello di Eshù”. Questo legame si nota anche nelle vesti liturgiche. Sofia, figlia di Eshù, aveva due costumi, uno nero, rosso e bianco a conformità dei colori tradizionali del suo dio, l’altro invece era verde, giallo e con della paglia, i colori tradizionali di Ifa. Lo stesso si ritrova a Cuba dove i preti sono soliti dire: “Orula ed Eleggà sono uno”. Certamente, a volte, i miti sono contrastanti: in alcuni è Eshù il primo indovino che dona a Ifa l’arte di gettare l’opelè, in altri è Ifa il primo indovino e con l’astuzia Eshù è riuscito a sottrargli certe conoscenze. In ogni caso le due divinità rimangono strettamente unite. Indubbiamente, come abbiamo visto, ogni odu è la “parola” di un Orishà determinato; a volte è Shangò chetarla, altre è Yemanjà, ma le loro parole resterebbero per noi incomprensibili se non fossero tradotte in una lingua accessibile agli uomini ed è Eshù l’incaricato di questo compito, guidando la mano del babalaò. In Brasile la collana di Ifa è sempre meno utilizzata, la si sostituisce con il dilogun. Il che vuole dire che la figura di Eshù che presiede alla divinazione delle conchiglie, non fa che acquistare sempre più importanza nel nostro primo scompartimento del reale. Egli apre veramente la porta degli eventi, traccia il cammino dei percorsi individuali, indica il destino degli uomini, decide le misure (in generale dei sacrifici speciali) per sormontare gli ostacoli. E’ inutile insistere su questo primo punto, poiché tutti quelli che si sono interessati alla figura di Eshù hanno sottolineato il suo legame sia con la divinazione che con il babalaò, al punto che Frobenius studia Eshù non nel suo capitolo su grandi dei ma in quello che consacra a Ifa; Herskovits lo stesso per quanto concerne i Fons. Mentre, al contrario, il legame tra Eshù ed Ossaim sembra non essere stato riconosciuto o, per lo meno, quando se ne parla, lo si fa non con i termini esatti.

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Se si accetta che, a volte Eshù si occupi anche di foglie, si pensa che sia solo con propositi malvagi. Si tende così a legare questo dio con la magia nera. Certamente le lotte degli schiavi contro i padroni bianchi hanno orientato Eshù in questa direzione, ma non si tratta in quei casi che di circostanze storiche che non chiariscono il problema a fondo. Le lotte razziali non possono influenzare se non seguendo delle linee già tracciate dalla tradizione ancestrale che non apre, per così dire, delle nuove strade. Se i Negri si sono serviti di Ogun per resistere al regime servile era perché, nella mitologia trasportata dall’Africa, egli era il dio della guerra e delle armi bianche. Allo stesso modo, se hanno chiesto a Eshù le erbe “per addolcire i Signori”, era senz’altro perche egli era anche il dio della vegetazione, o, per lo meno, che partecipava in qualche modo al mondo vegetale. Oppure è che il posto occupato da Eshù nel governo della boscaglia e della foresta è più essenziale? E’ certo che Eshù non si distingue dagli altri Orishà, che certe piante come “l’alevante” (Amomum Cardanum) o il mangericào (Basilico) gli sono più particolarmente associati e che non si lavano più le statuette di argilla che lo rappresentano ma gli ota degli altri dei, con qualsiasi preparazione di erbe. E’ vero inoltre che la mitologia, lungi da rappresentarci Eshù ed Ossaim come due amici che camminano mano nella mano, allude piuttosto alla lotta tra Ossaim ed Ifa – o, se lo si preferisce, tra il babalosaim e il babalaò – in cui Eshù è dalla parte di Ifa, contro il padrone delle foglie. In una leggenda conservata a Cuba, si vede, per esempio, che Eshù nutre i figli di Ifa con del sangue, mentre Ossaim non può nutrire i suoi che con il succo delle erbe, ciò che fa che i primi abbiano il sopravvento sui secondi. Tutte queste lotte riguardano, verosimilmente, i procedimenti divinatori, in quanto che anche Ossaim ha le sue proprie “parole”. A Bahia non se ne parla molto volentieri, ma esistono delle zucche misteriose che si possono consultare come le conchiglie e che rispondono alle domande poste , solo che, come sembra, rispondono a voce alta (fenomeno di ventriloquio?). In questo caso è soltanto Ifa che lo ha istituito e che ha fatto trionfare questo suo metodo su quello del suo rivale, giustamente, grazie all’aiuto e al soccorso di Eshù. Tutto ciò sembrerebbe quindi farci allontanare dall’idea che ci sia un legame tra Eshù ed Ossaim, ma bisogna ricordare che, se il babalosaim che va a raccogliere delle foglie nella foresta è obbligato a cantare dei “canti di ashè”, entrando nel bosco, questi canti presentano tutti la stessa struttura, un saluto alla divinità associata alla foglia che si deve tagliare e un verso finale, sempre lo stesso, qualunque sia l’Orishà invocato: eu arei meu ashè Tutti salvo Eshù che ha un canto speciale e non segue la solita regola: Eshù quem què Ala tòpà Questa differenza non può essere dovuta al caso, ma già di per se stessa rivela che, nel campo della vegetazione, Eshù occupa senza dubbio un posto a parte. In Amazzonia, dove il ruolo di Ossaim è andato un po’ perduto, è Eshù che lo rimpiazza: Nelle guarigioni magiche che accadono a Manaus, specialmente nei batuques, con l’aiuto della ricca farmacologia indigena, Eshù è adorato. Senza di lui non ci sarebbero guarigioni, poiché, se losi dimenticasse, potrebbero sorgere delle complicazioni. Egli è capace di scompigliare tutto (come dire che il rimedio non avrebbe più efficacia, anzi, potrebbe fare l’effetto contrario a quello desiderato). Quando la madre degli dei, Ifigenia, applicò la sua terapia primitiva a un nero di Maranhào , che io conoscevo, non dimenticò di dargli una bottiglia di olio di palma, dicendogli: “è necessario occuparsi di Eshù poiché, siccome io sono una devota della Vergine, egli non mi ama”.

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Poi diede a quel nero la bottiglia raccomandandogli di portarla in un crocicchio (prima di assumere il rimedio prescritto). A Bahia anche Eshù è utilizzato, insieme ad Ossaim, per la guarigione delle malattie; uno dei nostri informatori ha voluto comunicarci due dei canti utilizzati per questo dio e che si cantano mentre si fanno dei “gesti magnetici” o delle specie di massaggi sulla parte malata: Dandara areo leo leo Dandara areo leo leo Dandarao Nussereguè Kabeda Ele Madago C’è pure un canto per Eshù: Fa im òla, nel corso del quale le mani fanno un movimento come se lavassero il corpo, facendole passare prima dietro le orecchie e poi davanti, come volessero “strappare via qualche cosa dal corpo”; certi fedeli fanno il movimento di purificarsi il corpo. Si può notare così, nella stessa linea di similitudini, che i ferri simbolici di Eshù assomigliano a quelli di Ossaim. A tal punto che, come dicevamo, Arthur Ramos ha confuso i due segni. In realtà c’è una grande differenza: i ferri di Eshù terminano tutti senza punte; le sette strade del reame prendono la forma di sette lance, mentre non ci sono che sei punte di lance per Ossaim, l’ultimo ferro e il ferro centrale terminano con un uccello. E’ solo per il nome e per l’aspetto generale di “feticci” (come li chiamano a Bahia) che questi due simboli sono simili. “Eleggà e Oggun, Ochosi e Osain – e gli Ikus – sono molto uniti” dicono a Cuba. I Negri di quell’isola delle Antille considerano anche che è Elegguà, il nome che lì si da a Eshù, che è il guardiano della zucca misteriosa attraverso la quale parla Ossaim. Adesso ci è più chiara la ragione per la quale, malgrado la lotta per la supremazia tra Ossaim e Ifa, durante la quale Eshù si mette dalla parte di Ifa, un legame esiste tra il padrone delle strade e quello delle foglie; ma notiamo anche che questo legame non è un’identificazione pura e semplice. L’eterogeneità dei due domini, quello degli individui e quello della boscaglia selvatica è salvaguardata. Eshù non agisce come Ossaim per mezzo dell’ashè o, se si preferisce, per mezzo della “mana” di foglie. Al contrario, da questo punto di vista, è il babalaò che ha bisogno dell’ Olosaim per fare l’ Ifa particolare agli individui che lo richiedono e noi, abbiamo dimostrato che in Africa, ogni indovino ha il suo assistente che va a raccogliere le piante necessarie; per fare il suo Ifa bisogna fare allo stesso tempo il suo Eshù personale e così pure il suo Ossaim personale. Non ci sono quindi confusioni di dominio, ognuno mantiene la sua autonomia, ma, come ce lo suggeriscono l’interpretazione data in Amazzonia e i diversi canti di ashè, Eshù ha un posto a parte nel regno delle piante, in quanto “ è colui che apre le strade” o in quanto è un “guardiano”. Se non gli si facesse un’offerta, come a Ossaim e prima di lui, sia un poco di tabacco o un canto appropriato, potrebbe far perdere l’Olosaim nell’oscurità della foresta, fargli incontrare dei serpenti o altre bestie pericolose, farlo restare impigliato tra il fogliame e le liane o cadere nelle paludi traditrici. Insomma, Ossaim regna sugli ewe e Eshù sulla boscaglia dove spuntano questi ewe. Il compito di quest’ultima divinità, in effetti, non è quello di portare via agli altri quello che a loro appartiene a pieno diritto, ma di stabilire delle comunicazioni, formare aperture tra le chiusure e le separazioni, far partecipare tra di loro i vari scompartimenti del reale, essendo lui l’unico Orishà che ha un piede in ognuno di questi scompartimenti. Anche nel regno dei morti? Come abbiamo già visto, gli dei hanno paura dei morti, che gli Egun non sono mai adorati nelle case vicine a quelle degli Orishà ma in quelle ben lontane da queste. Solamente Yansan aveva un posto nelle cerimonie in onore degli antenati, in quanto

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vittoriosa su Eshù. Ci domandiamo dunque, a questo punto, se Eshù non abbia una funzione anche in questo campo e, se sì, con quale finalità? Il Padre Frikel scrive: ci sono diversi tipi di morti, quelli che sono morti in modo naturale al richiamo degli dei e quelli la cui morte è stata dovuta all’azione di qualche stregone ad esempio quelli assassinati o quelli che si sono suicidati. In questi due ultimi casi (il morto) non diventa Spirito (ecu-ourum) ma fa parte della schiera di Lèba (il cattivo Spirito, identificato con il Diavolo)... Queste anime restano così per sette anni e non possono fare che del male. E poi aggiunge: Colui che è stato cattivo in vita, deve, come punizione, errare nello spazio e sulla terra come un cattivo Spirito. Queste Anime vagabonde e malvage o espirito ruim) sono gli ara-ourum... I corpi impuri non faranno mai altro che degli araourum o degli Eshù. Quantodetto sembrerebbe indicare in primo luogo che due tipi di spiriti diventano degli araourum dopo la loro disincarnazione; quelli che sono stati assassinati o quelli che hanno condotto un’esistenza disonesta. In secondo luogo che questi ara-ourum sono anche definiti degli Eshù. Non neghiamo che idee analoghe non si trovino anche a Bahia. Una volta mi hanno raccontato di un Negro che, appena morto, era diventato un Eshù e che importunava la sua famiglia e i suoi vecchi amici. Di cose simili non se ne fa oggi menzione, in generale, che all’interno delle “nazioni” bantù e sotto l’influenza delle credenze portoghesi, cioè delle teorie popolari correnti sull’origine e la natura dei fantasmi. Il Padre Frikel le ha preferite assai più volentieri perché si confacevano all’etica cristiana e rivelavano ai discendenti degli Africani se non l’idea dei patimenti eterni, per lo meno il castigo provvisorio a causa dei peccati commessi nella vita terrestre. Le affermazioni contenute su questo argomento nei suoi articoli, non mi sono state tuttavia confermate dai sacerdoti delle sette yoruba, in particolare l’identificazione delle anime sofferenti con gli Eshù. Forse gli informatori del Padre Frikel volevano farsi capire da un Bianco così lontano dalla loro mentalità, usando il nome di Eshù, così ben noto, per fargli sentire che i fantasmi erano degli esseri pericolosi; forse lo hanno semplicemente ingannato. In ogni caso i morti non diventano degli Eshù; noi dobbiamo orientare le nostre ricerche in un’altra direzione per trovare il vero legame tra questo dio e gli Egun. Sfortunatamente, come già constatato nel precedente capitolo, tutto quello che ha a che fare con gli Egun resta avvolto nel più grande mistero ed è una società segreta che si occupa del suo culto. La morte è il castigo per quelli che violano il segreto; ben poche persone hanno il coraggio di entrare in questo argomento con qualcuno. Nonostante quanto detto, abbiamo qualche punto di riferimento. Prima di tutto, nel padè di Eshù, non si rende unicamente omaggio a Eshù, come indica il nome del rituale, ma anche agli antenati fondatori del terreiro. Li si allontana gli uni e gli altri, prima di cominciare le cerimonie, con delle parole suadenti e un’offerta di cibo. Inoltre, nella cerimonia funebre dell’ashèshè, dove non c’è possessione, in quanto gli Orishà spaventati sono scappati via, a parte Yansan, la casa è il santuario dei morti, Eshù può ancora intervenire, il servizio religioso ha inizio, obbligatoriamente, con un canto in suo onore. Questi due fatti non sono sufficienti per chiarirci il legame che può esserci tra Eshù e gli Egun, ma ci indica, pur sempre che questo legame esiste. Sarà che a Bahia ancora conoscono questo legame, oppure lo hanno dimenticato? Il silenzio che si forma ogni qualvolta si entra nel discorso degli Egun non ci da la possibilità di rispondere. In ogni caso è in Africa dove potremmo trovare l’anello mancante alla nostra dimostrazione. Herskovits dice che nel Dahomey, Legba è incaricato di contare i nomi delle persone che nascono e di quelle che muoiono nella stessa giornata, affinché questi nomi si corrispondano esattamente e che l’anima di chi è appena morto possa reincarnarsi nel corpo dell’infante che vede la luce del giorno.

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Eshù avrebbe quindi lo stesso ruolo che gli abbiamo assegnato finora negli altri domini studiati. Egli sta alla frontiera tra la vita e la morte, tra il mondo degli individui e quello degli Egun. Egli apre e chiude le porte, dalle nascite ai decessi, in modo da mantenere il buon equilibrio e il buon ordine delle cose. Egli sorveglia i cicli delle reincarnazioni al fine che nulla disturbi l’ordinamento della società, dal punto di vista demografico e da quello di tutti gli altri. Per finire, ci resta adesso da stabilire il suo spazio nel mondo degli Orishà, in quanto ci è sembrato che questi ultimi, oltre che presiedere a certi fenomeni naturali come: la tempesta, il mare, o certe attività della società come: la caccia e la metallurgia, introducevano anche una classificazione del mondo. E qui constatiamo che, ancora una volta, Eshù rappresenta un agente del legame fra questi. Tutti i nostri informatori ci hanno sempre detto che ogni Orishà ha il suo o i suoi Eshù, che agiscono come dei domestici o come degli schiavi. Non bisogna però confondere gli Eshù servitori con le semplici forze della natura personificate, come ad esempio Bori e Afèfè. Bori e Afèfè accompagnano il primo Shangò e il secondo Yansan in ogni loro spostamento. Bori rappresenta le tenebre della tempesta e Afèfè il vento furioso che precede la pioggia. Gli Eshù sono di tutt’altra natura: sono dei “messaggeri” o “postini” degli dei, in numero variabile secondo le divinità a cui sono legati. Per esempio, secondo Raymundo di P:A:B:, Yansan ne ha da 14 a 25, Omolù 25, Nanan 31. Queste cifre sembrano esagerate e i sacerdoti discutono a lungo a questo proposito senza, per altro, arrivare a mettersi d’accordo. Secondo l’idea tradizionale Ogun ha sette Eshù nella sua scorta e, quando esce, ha tutta la sua scorta dietro; però, come abbiamo visto, questi Eshù sono minimo 21 e questa quantità si spiega facilmente se si pensa che, prima di tutto, Ogun è considerato come colui che apre le strade, che, con il suo coltello, taglia le liane, sgomberando le via da percorrere ed è per questo che, spesso, egli occupa il secondo posto negli sherè dei Candomblè e che i canti a lui dedicati vengono subito dopo quelli per Eshù; forse per questo a lui è dedicato il giorno di Martedì nella settimana, mentre il lunedì è il giorno di Eshù. Un mito racconta che, al momento della sua dipartita dal mondo tra gli Orishà, Ogun abbia lottato con Eshù per il possesso del suo coltello e, poichè Eshù non era riuscito a strapparglielo, Ogun, per ripagarlo della perdita, gli concesse il diritto di avere il primo sacrificio. Ogun ed Eshù vanno sempre accoppiati, Ogun apre con il suo coltello i sette cammini del regno di Eshù. Per questa ragione si comprende come certi Babalorishà abbiano la tendenza di dare per compagni ad Ogun l’insieme di tutti gli Eshù e non solamente sette di loro. E’ difficile, di fronte a tali informazioni contraddittorie, dare con esattezza il numero degli Eshù che accompagnano i diversi Orishà. L’unica cifra sulla quale non ci sono controversie è quella di Ifa che ne ha sedici, corrispondenti ai sedici odu maggiori per la divinazione dell’ opelè. Questo numero di sedici è diventato talmente abituale che alcuni Babalorishà di nazionalità Bantu, come Ciriaco, pensano che gli Eshù siano solamente sedici in tutto e non ventuno come generalmente si dice. In effetti, però, sedici è soltanto il numero degli Eshù legati ad Ifa. C’è ancora un argomento sul quale tutti i nostri informatori si sono trovati d’accordo – a Recife e a Porto Alegre – ed è che lo stesso Eshù può servire diversi Orishà al medesimo tempo. Per esempio: Eshù Ajelù può servire Yemanjà e Oshum così come Oshalà. Per contro ci sono differenze di rituali a seconda dei terreiros o le città, come in un terreiro oyo di Porto-Alegre, l’Eshù che è “rispedito” (despachado) nel padè preliminare, varia secondo la divinità a cui si fa la festa; se la cerimonia celebrata è in onore di Oshalà, il padè sarà fatto per Ajelu; se celebrata per Omolù, sarà fatto per Legba. Tali distinzioni non sembrano esistere nei Candomblè di Bahia, dove tutti gli Eshù sono rispediti in una sola volta nel padè; il che si spiega d'altronde visto che in queste grandi feste annuali tutti gli Orishà e non solo uno o due “discendono” per montare in gruppo sui loro “cavalli”. Quello che a noi interessa, per arrivare ad una soluzione di questo problema, non è tanto conoscere il numero esatto degli Eshù attribuiti alle diverse divinità, ma di sapere che questo numero non sia illimitato e che gli stessi possano passare dall’una all’altra di queste divinità, dato che questo scambio è il primo segno che noi troviamo nel ruolo che spetta a Eshù nella compagine degli dei e, di conseguenza, nei corrispondenti scompartimenti del reale. Anche nei

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miti, d’altra parte, dove interviene Eshù, questi viene indicato assai sovente nel ruolo di intermediario degli Orishà. 1. Un giorno Orumila, chiamato anche Ifa, l’indovino, il dio poderoso, uscì dal suo palazzo per fare un viaggio. Seguito da tutta la sua corte di Eshù, i suoi schiavi. Arrivato ad un certo punto del suo cammino, incontrò un altro corteo la cui figura principale era una donna stupenda. Egli si fermò, stordito da tanta bellezza e mandò uno dei suoi Eshù per scoprire chi fosse quella donna. Eshù andò da lei, le fece odubale, disse di essere schiavo di Orunmila e che costui lo mandava a chiederle chi lei fosse. Ella rispose che si chiamava Yemanjà, regina e moglie di Oshalà. Eshù ritornò da Orunmila e gli riferì quanto appreso. Allora Orunmila le mandò un messaggio dicendo che desiderava avere con lei una conversazione nel suo palazzo. Yemanjà si allontanò non accondiscendendo subito alla richiesta, ma un giorno si recò a parlargli. Non si sa quale conversazione ebbero insieme (dice il narratore con malizia), ma quello che è certo è che lei ritornò incinta... Quando nacque il bimbo, Orunmila mandò Eshù Baba, il più vecchio degli Eshù e suo segretario, a verificare se l’omolei – il bambino – avesse una verruca, un segno o una qualunque macchia sulla testa, indice certo che l’infante era suo figlio... 2. Anche dopo il suo matrimonio con Oshum, Shangò continuava ad andare alle feste da solo, a fare baldoria e ad avere delle avventure con altre donne…..Egli aveva chiuso sua moglie in una torre del suo castello quando, un giorno, Eshù Etamata, padrone dei crocicchi, arrivò a quello dove si trovava il castello di Shangò e vide Oshum che piangeva sotto la veranda e le domandò che cosa avesse di tanto triste. Eshù andò allora da Orunmila (padre di Oshum) a raccontargli l’accaduto. Quest’ultimo preparò un ishe (polvere di foglie magiche) e fece dire a sua figlia di tenere la finestra aperta... (il seguito del mito racconta come questa polvere trasformò Oshum in una colomba che potè così fuggire dalla sua prigione e riunirsi con suo padre). Questi due esempi sono sufficienti per dimostrare che i Negri brasiliani non hanno dimenticato che, malgrado il legame popolare di Eshù con il diavolo, egli non è cattivo ma, al contrario, un utile servitore degli Orishà, addirittura un cuore sensibile alle loro sfortune e che ha, come funzione principale quella di metterli in comunicazione gli uni con gli altri e trasmettere i loro reciproci messaggi. Non possiamo studiare tutti i ventuno Eshù, alcuni di essi non hanno neppure una ben marcata caratteristica. Essi sembrano prima di tutto degli “dei funzionali” (guardiano della porta, padrone degli incroci di strade, padroni della casa) più che degli esseri mitologici. Noi ci accontenteremo di distinguerne due, o meglio, due tipi di Eshù: gli Eshù di terra e gli Eshù di ferro, quelli che Nina Rodriguez chiamava Eshù-bara e Eshù-ogum. Vicino alle porte dei Candomblè si trovano, negli speciali pegi, degli Eshù fatti di fango intriso di olio di palma, posti su dei piattini o scodelle. Questi Eshù asessuati hanno una vaga forma umana o, più esattamente, si compongono di una testa i cui occhi e naso sono formati con delle conchiglie e di un tronco. Questa composizione obbedisce a dei riti segreti che significano, a volte, che “Eshù-bara è il più grande mistero” del Candomblè. Quanto all’Eshù di ferro, Nina Rodriguez lo chiama Eshù-Ogun, perché Ogun è il dio del ferro, ma questo nome di Ogun non è che un qualificativo che, d’altra parte, ha qui la sua ragione di essere, un simbolo. Si può forse dimenticare che la terra è il regno percorso incessantemente da Eshù, come un organismo vivente con la sua carne e il suo scheletro? Eshù-bara rappresenterebbe allora la parte molle, malleabile della terra, quella che le mani nere possono lavorare con l’olio di palma o il sangue sacrificale, mentre Eshù-Ogun rappresenterebbe la parte dura, le ossa, i minerali nascosti nelle profondità del sottosuolo, che le mani esperte di Ogun che li forgia, trasformano in picche, zappe, lance o coltelli luccicanti. Solamente la ruggine che corrode il ferro gli ridona il suo aspetto primitivo di scheletro, di minerali dispersi, di ossa della terra viva ed è per questo che gli Eshù di ferro sono di quello arrugginito. Tutto questo spiegherebbe, in tanta bellezza mistica, un estetismo della vita minerale. A Porto Alegre, Eshù-bara ed Eshù di ferro sono altrimenti definiti, in una forma più antropomorfica: Eshù il vecchio ed Eshù il giovane. Il suo corrispondente Legba del Dahomey appare, quando danza ad Haiti, come un vecchio curvo ed è considerato come un dio frigido, in

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contrapposizione al carattere fallico di questa divinità in Africa. E’ lui che interrompe le relazioni sessuali tra l’uomo e la donna, che rende impotenti o sterili. Appare pure come un dio più giovane e allegro. La sua danza chiamata Yanvalou-ginocchia perché è “caratterizzata da un movimento alterno di sollevazione ed abbassamento sulle ginocchia flesse, insomma una danza da ballerino” che apre le cerimonie. Questo fatto ispira a Jaques Roumarin le seguenti riflessioni: “Saltellare, è cominciare, fa notare Curt Sachs... Si ritrova la danza saltellante nelle mitologie di quasi tutti i popoli. Il dio danzante è Dioniso per i Greci. Ippocrate, l’adolescente di Osiride in Egitto... Il motivo sussiste in Baviera, nel “Chiengau”, dove la giovane sposa saltella nella danza che la deve introdurre nel suo nuovo stato”. Questo perché saltellare vuol dire cominciare e che questo “Yanvalou” aprirebbe giustamente la serie delle danze rituali. A Bahia, il dio che danza in questo modo non è Eshù, perché Eshù non discende che raramente ed ha ben pochi figli. E’ sostituito in questa funzione da Omolù oppure da Shangò, ma il Shangò giovane, e quindi quello dell’inizio. Si narra in effetti, che quando era piccolo, Shangò fece una caduta e da quel momento dovette camminare appoggiato a delle stampelle. In molti pegi di diversi Candomblè si trovano le stampelle di Shangò in evidenza, e si può notare che hanno la tendenza a prendere la forma della doppia ascia, simbolo di quella divinità. Si ritrova invece nel mito della separazione di Shangò con Oshum, ciò che giustifica, agli occhi degli Haitiani, la frigidità di Legba in materia amorosa: Oshum era sposata con Ogun, ma Shangò l’aveva vista e se ne era innamorato, la seguiva dappertutto, di nascosto, aspettando il momento in cui l’avrebbe trovata sola in un luogo appartato. Finalmente quel giorno arrivò e Shangò, non potendone più di una così lunga attesa, si precipitò su di lei per violarla. Ma, poiché tutte le strade appartengono ad Eshù, questi apparve di pronto per separare la coppia. E’ vero che uno dei ministri di Shangò di Bahia si rifiutava di accettare questo mito, dove Shangò non faceva una parte tanto degna, e diceva: "Non è vero, Shangò non ha mai cercato di violentare Oshum, egli si è accucciato volontariamente ai suoi piedi, senza toccarla, per dimostrarle tutto il suo rispetto. O forse la resistenza di Oshum" aggiungeva: "che non ha voluto essere presa con la forza, ma ha ottenuto che il suo amante dormisse ai suoi piedi come segno della sua superiorità". Concludendo: 1. Eshù ama anche lui Oshum; abbiamo visto nel mito da noi riportato dove lui avvisa il padre di Oshum che sua figlia è infelice e abbiamo visto che è una figlia di Oshum che ha il diritto di essere apetebi, ossia consigliera nella consultazione delle conchiglie di Eshù. 2. che Oshum è pur diventata la moglie di Shangò e questo, come certi miti raccontano, malgrado gli Eshù incaricati di proteggere la sua virtù e che si lasciano imbrogliare dal dio del lampo. Ma se Oshum ha delle relazioni sessuali con Shangò, senza che più interferisca Eshù, è perché queste relazioni sono utili alla società e alla natura: allo stesso tempo Schangò si gettò fra le braccia della Regina, una nuvola spaventosa copriva il cielo, gli alberi si spezzavano alla luce dei lampi, tutta la terra beveva con avidità l’acqua della tempesta. Dall’unione di Oshum con Schangò era nata la benefica pioggia. Queste relazioni sono diventate della relazioni legali e non il frutto della violenza. Eshù non può e non vuole impedire alla pioggia di cadere, ma la pioggia può distruggere i raccolti, dilavare la terra, così come può fare spuntare le piante; allo stesso modo la folgore può provocare il fuoco ma, allo stesso tempo punire i cattivi. La pioggia e il lampo devono quindi essere controllate nelle loro manifestazioni ed è Eshù che qui interviene, in questi miti a prima vista contradditori, in cui egli sia separa e sia permette all’unione di essere effettuata, in veste di sorvegliante che tutto può sui fenomeni cosmici.

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Tutti questi miti tendono dunque a confermare il compito di Eshù come regolatore del cosmo, come colui che sfonda le barriere, che traccia i percorsi. In conclusione: un dio dell’ordine. In quanto “messaggero” delle divinità, fa si che i diversi Orishà comunichino tra di loro; apre le porte tra i diversi scomparti del reale, ma non li apre se non per un buon scopo, nell’interesse generale. Impedisce, invece, gli incontri brutali di queste forze della natura che potrebbero trasformarsi in pericolosi scontri. Se egli non balla la danza saltellante dell’inizio delle feste, delega, in sua vece, Omolù o il giovane Shangò. L’ordine temporale è così rispettato come l’ordine spaziale. Adesso ci è facile comprendere il carattere di “imbroglione” di Eshù: infatti, se a volte ha l’aria di introdurre il disordine, le dispute, le disavventure nel mondo divino o umano, contrariamente alla sua finalità essenziale, non è che per riportare l’equilibrio generale sul quale egli veglia con tanta cura. Oltre a questo, anche se sembra paradossale, una lezione di ordine che egli impartisce ai suoi fedeli. Frobenius lo aveva capito quando scrive: “Allorquando Edschou vuol fare nascere discordia tra due amici, egli cammina sui loro campi. Va nella direzione contraria ai suoi passi... ed è proprio nell’inverso del senso normale che risiede ….. la causa del conflitto”. E’ curioso che Frobenius tralasci un’altra delle storie maliziose che si raccontano in Africa e che, per noi, è molto più significativa. Si capisce che per lui Eshù è soltanto il dio dell’orientamento, il che non è che una delle sue caratteristiche e non quello che, prima di tutto, egli ci è sembrato essere, cioè il padrone delle intercomunicazioni. Secondo quest’ultima leggenda, Eshù fa uscire Olokoun (il mare) dalla sua dimora per farla entrare nella casa di Oshum (l’acqua dolce), mentre che Oroun, il sole, cambia pure lui di abitazione. Oshalà, naturalmente, si oppone a tutti questi cambiamenti, poiché lui ha assegnato una dimora fissa per tutta l’eternità, un compartimento del reale, ad ogni Orishà. Vari scompigli sorgono a causa di queste migrazioni divine, per le quali Eshù ne porterà, naturalmente, le conseguenze, per lui disastrose. Tutto questo significa che l’ordine del cosmo è collegato alla classificazione delle cose, alla stabilità di queste classificazioni e che soltanto Eshù ha il diritto, in quanto padrone delle strade, di legare tra di loro questi concetti direzionali e queste categorie organizzatrici del mondo. Quando la sociologia francese ha toccato il problema di quello che, a torto, ha chiamato “la mentalità primitiva”, è stata subito colpita dalla “legge della partecipazione” ed è ben certo che questa esiste. Se, negli ultimi anni della sua vita, Lèvy-Bruhl ha rifiutato il concetto teorico che ne aveva dato nei suoi primi libri, non ha mai negato, per contro, la realtà stessa della partecipazione; troppi esempi e testimonianze ne provavano l’esistenza. Non abbiamo forse anche noi, nella presentazione del Candomblè, mostrato che il legame sociale tra gli uomini non era altro che il riflesso, o la conseguenza, del loro grado di partecipazione a certe realtà mistiche? Ma tutto non partecipa a tutto, se il pensiero razionale, che esiste in tutti gli uomini, non potesse affrontare la realtà, il che renderebbe impossibile il controllo o l’utilizzazione delle forze della natura. Le partecipazioni si svolgono dentro ben definiti limiti e, tra questi, non vi è legame. Al contrario, se li si vuole fare partecipare insieme, si producono dei contrasti, dei pericolosi disordini; così come l’elettricità non può che seguire certe correnti del corpo conduttore e non qualsiasi direzione. Perché l’universo sia concepibile, bisogna che sia suddiviso in concetti classificatori. Tale era la conclusione a cui si era giunti nel nostro precedente capitolo. Tuttavia questi concetti eterogenei erano anche un ostacolo al pensiero, poiché il pensiero non è soltanto il ridurre la molteplicità a degli schemi, ma ancora dialettica, passaggio da una categoria all’altra. Certamente la mitologia africana ci offre, a volta, dei legami tra una categoria e l’altra: per esempio Oshossi è stato allevato da Ossaim, è diventato il suo cacciatore, vagabonda insieme a lui nel regno del fogliame dove, ancora, Yansan danza in mezzo agli Egun, le braccia spalancate in forma di croce, come se volesse respingere le turbe dei morti, usciti dalle loro tombe e ammassati intorno a lei. Ma questi legami non sono che dei legami di parità. Solo Eshù ci è parso avere un posto nelle quattro grandi categorie; l’abbiamo visto come schiavo di Ifa, portiere di Ossaim, controllore delle reincarnazioni degli Egun e come domestico degli Orishà. Questo vuole dire che è lui e solo lui che rappresenta il principio della dialettica e dell’intercomunicazione. Anche rispettando la diversità o la molteplicità del reale egli ne fonde l’unità. Prendendo dei riferimenti con altri popoli africani egli ha, in qualche modo, il ruolo che ha la parola di Nommo nella metafisica della gente Dogo, come nei viaggi di ricognizione di Faro questa ha nella religione Bambara. Miti analoghi si possono trovare tra le popolazioni Amerindie che non ignorano gli “imbroglioni” ma danno a loro un ruolo di utilità.

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Olorun, dopo aver creato il mondo, stabilì la divisione del cosmo, ogni Orishà ricevette un reparto da comandare. Oshalà, in quanto suo successore legittimo, assicura il mantenimento di quest’ordine. Eshù, infine, è l’intermediario tra questi due regni separati ed è per questo che ogni Orishà ha diversi Eshù al suo servizio, per trasmettere i suoi messaggi e portare la “parole” divine da una casa all’altra. Questi Eshù possono essere scambiati tra gli dei. L’ordine nel mondo non può limitarsi, tuttavia, a questo insieme di legami orizzontali, suppone anche una gerarchia – non solamente una classificazione – ma anche una stratificazione dei concetti. Quindi Eshù non è solamente il dio dei cammini orizzontali, ma anche dei cammini verticali. Per questo il suo posto nel culto di Ifa è così importante. Per mezzo degli odu egli “parla” o, più precisamente, poiché ogni odu è la parola di un Orishà differente, egli traduce per gli uomini la lingua degli dei. Non solamente nel culto di Ifa Eshù collega il più alto con il più basso, ma assolutamente in tutti gli scomparti che abbiamo descritto. Nel campo di Ossaim, le divinità hanno le loro foglie, indispensabili per fissare gli Orishà nella testa dei loro fedeli: Eshù apre loro la porta. Nel regno dei morti è lui che permette il passaggio degli Egun nei corpi dei bambini appena nati. Infine, non ci sarebbe nessuna trance mistica nel Candomblè (o se si verificasse sarebbe un disordine completo), se prima non si celebrasse il suo padè, se non gli si chiedesse, all’inizio, di andare a portare alle divinità il desiderio degli uomini che li invitano a scendere per danzare nelle loro feste. Eshù è dunque dappertutto lungo la linea che va dagli Orishà ai mortali o dai mortali agli Orishà. L’ordine non sta solamente nel rispetto dell’autonomia dei concetti ma anche su quelli della loro subordinazione e gerarchia.

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CAPITOLO V - LA STRUTTURA DELL’ESTASI “E il corpo di ballo... è l’immagine dell’intero mondo”. (Griaule, Dio dell’Acqua, pag.225)

Gli Orishà, dunque, occupano, nella struttura della gerarchia del cosmo, il posto più alto. Questi Orishà non sono degli esseri scomparsi ma continuano ad agire. Le loro storie si ripetono anno dopo anno su questa terra. Come scrive Van der Leeuw: “ Il pensiero mitico è creatore è una genesi, ha dato vita a tutto quello che esiste al giorno d’oggi”, Il rituale non è che la ripetizione, la messa in atto nel presente, di quello che gli dei hanno realizzato all’inizio dei tempi. Avremo quindi due metodi possibili per studiare gli Orishà: uno che definiremo deduttivo, e che consiste nel cominciare dai miti, per comprendere attraverso di essi la natura che dirigono o la cultura che fondano; l’altro, l’induttivo, che consiste nel cominciare dai riti per arrivare ai miti. Finora abbiamo seguito il primo metodo. Ma ci è sfuggito forse qualche cosa? Il concetto del reale che i discendenti degli Africani mantengono a Bahia, che noi abbiamo analizzato, è completo così come l’abbiamo esposto nelle pagine precedenti? A titolo di verifica, dobbiamo adesso invertire l’orientamento della ricerca e cioè partire dai riti e vedere se c’è ancora qualcosa da scoprire. Vedremo, nel corso di questo capitolo, che saremo portati a complicare ancora il mondo degli Orishà. Questa nuova complicazione non sarebbe sorta se non avessimo trascurato l’analisi strutturale della trance mistica. Effettivamente, quello che caratterizza il rituale del Candomblè nelle sue grandi feste pubbliche annuali, è che gli dei vi discendono per entrare nella testa dei loro figli. Abbiamo detto che l’estasi è il momento culminante di queste feste ed è allo scopo che questa si possa verificare che si è “spedito” anticipatamente Eshù dagli Orishà, si sono “battezzati” i tamburi e si sono eseguiti i canti degli dei, destinati a farli ritornare dal paese ancestrale. Il rito può avere luogo da un’altra parte, presso altri popoli o in altri tipi di cerimonie, una semplice ripetizione a base di gesti arcaici che diviene realtà vissuta, poiché la persona posseduta è considerata come l’Orishà stesso. Certamente l’estasi non avviene subito e le danze mimetiche non sono diverse nella prima e nella seconda parte della festa, prima e dopo la possessione. Tuttavia hanno caratteri ben diversi: nella prima parte si esegue una semplice “imitazione” degli avvenimenti mitici, nella seconda, un vero riprodursi di questi stessi avvenimenti. A titolo di confronto, si potrebbe ricordare che una distinzione analoga esiste nel cristianesimo dove il semplice fedele ripete volontariamente “l’imitazione di Nostro Signore Gesù Cristo” nella sua vita quotidiana, dove il mistico “sperimenta” davvero l’agonia del Signore, al punto di vedere comparire sulle sue mani, sui suoi piedi e intorno alla testa, le stimmate sanguinanti della Crocifissione. Il rituale che studieremo in questo capitolo non sarà dunque quello dell’imitazione che è solo preparatorio, ancora contaminato da tutte le impurità umane, ma il rituale dell’esperienza vissuta, poiché è attraverso di lui che con più facilità riusciremo a penetrare nel vero mondo degli dei. Tutti quelli che hanno analizzato i fenomeni della trance nelle religioni Afro-Brasiliane , non hanno visto questo elemento rituale, ma hanno insistito nel collegare questi fenomeni a quelli conosciuti, di carattere patologico, come l’isterismo, l’auto suggestione e l’ipnotismo e hanno così classificato le trance nei quadri ordinari della psichiatria. Se la crisi di possessione fosse questo fenomeno controllare l’isterismo, non vi vedremmo altro che movimenti disordinati, delle convulsioni o un rituale simbolico di certi traumi infantili, analoghi a quelli dei malati così bene descritti da Freud. Noi, fin dal primo nostro capitolo, ci siamo sempre opposti a una tale interpretazione. Come abbiamo visto, l’estasi avviene in un determinato momento del rito; che dico? Essa stessa è il rituale. Un Louis Mars a Haiti, un Fernabdo Ortiz a Cuba giungono a delle conclusioni analoghe; se Louis Mars fa ancora posto all’idiosincrasia personale, sotto forma di particolari complessi da “scaricare”, Fernando Ortiz, invece, rifiutando riguardo alle danze negre, il nome corrente di “pandemonium” insiste sui “paradigmi tradizionali” che regolano i passi delle ragazze possedute. Non neghiamo che, a volte, queste crisi rivestano degli aspetti spettacolari o drammatici, che possono essere male interpretati dagli psichiatri, ma facciamo

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notare, allora, che qui si tratta di uno dei tre casi che esporremo più avanti, ma intanto precisiamo che a volte le persone possedute non sono quelle iniziate, e, se sentono il richiamo del loro Orishà, questi non è altro che un “dio selvaggio” e l’iniziazione avrà per fine di spingere questi individui ad uno “stato selvaggio” nel battesimo della loro divinità. Oppure, si tratta ancora di una possessione da parte di Eshù, che gli Africani, giustamente, non confondono con la vera estasi e, come abbiamo già detto, la definiscono con un termine diverso: “si carica Eshù”. Infine il caso di certe vere possessioni, ad esempio quelle di Ogun, ma qui la violenza della crisi non è altro che un fenomeno patologico, è ricalcata su un modello mitico, poiché Ogun è un dio violento ed è di conseguenza la società che impone ai suoi “figli” queste manifestazioni terribili ed esteriormente spaventose. La violenza, quando si produce, non è mai rottura del rituale, ma un obbligo del rituale. Si farebbe la stessa confusione se si rimproverasse ai Neri la sessualità delle loro danze; ci sono senza dubbio nel Candomblè un certo numero di danze che potrebbero sembrare “lubriche” agli occhi di uno straniero inesperto, ma si tratta ancora una volta di una danza a comando, quella delle figlie di Oshum che, dopo essersi bagnate nel fiume, vestite con i loro più bei ornamenti, vanno a sollecitare l’amore degli uomini, eccitando i loro desideri con andamenti languidi. La trance religiosa è regolata da modelli mitici, non è che una ripetizione dei miti. La danza diventa un’ “opera favolosa”; l’espressione di Rimbaud “stigmatizza” esattamente questo fenomeno. Se, per caso, degli elementi patologici sorgessero per turbare il clima della festa, gesti folli, urla o aggressività, il Babalorishà o la Ialorishà calmerebbero subito, con gesti appropriati, la furia del cavallo che si impenna, affinché possa danzare nell’armonia musicale, e la sua estasi si inserisca nell’insieme del cerimoniale. Quello che noi definiamo come fenomeno di possessione, potrebbe ben definirsi come fenomeno di trasformazione della personalità. Il volto ha una metamorfosi, l’intero corpo diventa il simulacro del dio. I cavalli di Shangò non sono che maestà reali, quelli di Ogun dominazioni bestiali, guerrieri selvaggi ( l’aspetto di Ogun-fabbro scompare sempre di più in Brasile per lasciare il posto a quello di Ogun-soldato) il volto di Oshum traspira voluttà, quello di Yemanjà una semplice dolcezza amorosa. I gesti potrebbero, apparentemente, essere gli stessi, Oshum e Yemanjà sono femmine e, di conseguenza, entrambe civettuole, amano guardarsi allo specchio, pettinare a lungo i loro capelli umidi, ma, quale differenza! Infatti i caratteri di Yemanjà e di Oshum sono completamente opposti e questa differenza traspare proprio nell’identità dei gesti. Avremmo torto se pensassimo che ogni estasi sia individuale e che ogni membro della confraternita abbia un suo ruolo senza tener conto degli altri. Il balletto, infatti, ha tendenza ad essere teatrale, cioè a rappresentare certe scene mitiche con diversi personaggi. In questo caso le trance interferiscono le une con le altre rispondendosi come se ci fosse un dialogo mimico. Ad esempio: se Aira discende sul suo cavallo quando c’è già una figlia di Oshalà posseduta, immediatamente Aira andrà ad aiutare Oshalà a cavalcare, quasi portandola fra le sue braccia filiali, come se il vecchio Oshalà avesse le membra rotte, rappresentando così in maniera drammatica, il mito dell’acqua di Oshalà che abbiamo già raccontato. Una delle danze più straordinarie del Candomblè è la danza pyrrhique (?U?176), che presuppone almeno due trance corrispondenti, quelle di due guerrieri o guerriere che incrociano le loro spade di latta e danzano turbinando di fronte ai tamburi. L’estasi non esclude la visione degli altri danzatori e neppure gli stimoli che provengono da fuori ma questa visione e questi stimoli sono quelli di un altro mondo, il mondo mitico dove la possessione ha lanciato i cavalli degli dei. Un ultimo esempio ce lo farà comprendere ancor meglio. Shangò aveva tre mogli, Yansan, Oshum e Obà, ma Oshum era la preferita e Obà la più trascurata. L’infelice Orishà, non sapendo più come attirare le attenzioni del marito, domandò, un giorno a Oshum come faceva lei per poter dividere così facilmente il letto di Shangò. Oshum, maliziosa, le rispose che lei aveva una magia e, nascondendo la testa in un fazzoletto perché non fosse palese la sua menzogna, dichiarò che si era tagliata un orecchio per cucinarlo nel carurù di Shangò. Mangiandola, quest’ultimo , aveva contratto un’alleanza con lei un’alleanza erotica perenne. Obà si tagliò allora un suo orecchio, lo cucinò e lo mise nel piatto di suo marito, ma appena quest’ultimo prese un boccone del suo carurù lo sputò con disgusto e fece chiamare Obà per sapere che cosa avesse potuto mettere nel suo piatto di così cattivo. Obà arrivò con la faccia sfigurata, ancora sanguinante, piangendo... Shangò incollerito mandò

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via la sua terza moglie nel vederla divenuta così brutta tanto da non ispirare più nemmeno un desiderio sporadico. Nei Candomblè di Bahia, quando appare Obà, il che accade raramente, una sola volta all’anno secondo alcuni, ha l’orecchio sinistro nascosto da un tampone di foglie oppure la testa coperta da un fazzoletto colorato. Se per caso vede una figlia di Oshum che danza sotto l’influsso amoroso del suo dio, si slancia su di lei, folle di rabbia e allora è necessario che gli altri membri della confraternita le separino, altrimenti verrebbero alle mani davanti agli spettatori divertiti. Come si vede, la danza estatica non è solamente composta da una semplice congiunzione di estasi individuali, chiuse in se, e non in rapporto le une con le altre, come delle isole separate, unite solamente dalle stesse onde della musica e dagli stessi ritmi sonori dei tamburi. Neppure si tratta di una trance collettiva del genere di quelle delle famose epidemie del Medio Evo o delle Orsoline di Loudun (1632-1638), dei fenomeni di contagio morboso di pazzi in catene. Al contrario, nulla di più lontano da quei casi in cui, si sa, per guarirli, gli individui indemoniati venivano tenuti isolati nelle loro celle. Qui si tratta, se mi si permette l’espressione, di una trance inter-mentale o, meglio ancora, di un gioco ben condotto, dove avvengono molte trance, come fossero complementari, come se si corrispondessero, formando un intreccio di stimoli e di risposte adeguate, secondo uno scenario imposto dalla tradizione mitica. Questo carattere teatrale della trance religiosa potrebbe indurre il lettore che tutto questo sia generalmente più simulato che reale e non neghiamo che possano essersene verificati dei casi nei terreiros non tradizionali e si dovrebbe parlare più di “delusione” che di simulazione propriamente detta. L’impressione in tutti i casi sarebbe falsa, la trance è autentica. Mi ricordo ancora di un piccolo Shangò di 14 anni che conoscevo e che seguivo durante una cerimonia, il quale, con tutta la volontà di questo mondo, cercava di cadere in trance per ricevere la sua divinità e i suoi sforzi erano qualcosa di commovente; la festa però terminò senza che egli potesse cadere in trance. Mi si permetterà ancora un’altra storia. Un commissario di polizia, figlio di Yemanjà, personalità rispettabile, fiero della sua posizione sociale e del fatto che apparteneva alla piccola classe borghese, che qui è, come altrove, caratterizzata da un certo puritanesimo di costumi e un certo senso del decoro, aveva l’abitudine, durante la possessione del suo Orishà, di mendicare tra i fedeli chiedendo qualche moneta, come Yemanjà aveva fatto nei tempi mitici. Ogni volta che questi ritornava al suo stato normale, si stupiva che ridessero di lui gli spettatori e di tenere nella sua mano dei soldi di cui aveva completamente dimenticato la provenienza. Dovette, alla fine, chiedere il suo cambio e sotterrarlo in un piccolo buco del sertào. Il Dottor Renè Ribeiro ci fornisce degli esempi simili accaduti a Rècife: dei figli di Shangò che sfiancavano i suonatori di tamburi con la loro danza sfrenata, dei Babalorishà costretti a punire certi fedeli poco rispettosi prolungando le loro estasi, o intercalando con dei “telebè” i canti consueti, in modo da obbligare “i figli colpevoli”, a raspare la terra con le unghie, a cadere pesantemente a terra, o a dare delle testate contro i muri... L’estasi è una cosa reale e tutto quello che si è fatto o detto durante la crisi è dimenticato al risveglio. Concluderemo quindi questa nostra prima parte sull’argomento, dicendo che:"la struttura dell’estasi è la stessa della struttura dei miti" che serve da modello. Di conseguenza, per entrare nella comprensione del mondo mitico, si può partire dall’analisi dell’estasi ed è quello che faremo. 1. L’ordine dell’estasi non è lasciato al caso. Certi dei, malgrado il richiamo dei tamburi, dei canti o dei passi di danza, possono non scendere. In questo caso non si potrà verificare alcuna possessione se, in principio, non vi è stata una possessione da parte di Ogun. Ogun come Eshù apre le strade, quando viaggia attraverso la boscaglia , cammina davanti ad Eshù, aprendo con il suo coltello l’intreccio del fogliame, per tracciare la strada in mezzo a spine e liane. Nelle sette del Dahomey in Brasile, troveremo, sotto forme leggermente diverse e con altri nomi di divinità, dei fenomeni analoghi. Quando le figlie possedute danzano in tondo, intorno al palo centrale, lo fanno seguendo ad un ordine ben preciso, secondo la gerarchia degli dei, per esempio: Yansan si mette sempre davanti a Oshum, perché è la prima moglie di Shangò e deve quindi precedere le mogli secondarie; inoltre, poiché gli dei sono multipli, può accadere che, in una stessa cerimonia, compaiano diversi Omolù o differenti Yemanjà ecc.. che si incarnano al medesimo tempo e, in questo caso, l’ordine del cerchio segue l’ordine

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cronologico, gli Orishà giovani staranno davanti agli Orishà adulti e questi davanti agli Orishà vecchi, per esempio: Shangò Aganjù davanti a Shangò Ogodo e quest’ultimo davanti a Shangò Aira. Uno studio di relazioni di precedenza tra le divinità o una classificazione secondo la loro età è così resa possibile attraverso lo studio dei rituali. 2. II Prima dell’estasi si produce un fenomeno particolare, che gli Haitiani hanno definito meglio dei Brasiliani, quando hanno detto che i cavalli erano nella condizione di saouleloa, cioè in uno stato di leggera ebbrezza, titubanti, come se dovessero cadere, sentendo di avere le vertigini. La trance propriamente detta non si produrrebbe che in seguito, con il cambiamento di personalità. Ma succede anche che il periodo intermediario tra lo stato normale e quello estatico sia così rapido che lo spettatore non abituato non se ne accorge affatto. Tuttavia questo periodo di transizione, per quanto corto sia, esiste sempre e i musicisti possono anche renderlo palese eseguendo dei canti speciali detti canti di erè. Così pure quando il dio è stato “rispedito”, il suo cavallo non riprende subito la sua normalità ma rimane per un momento in stato di erè. Anche in questo caso il fenomeno è così fugace che bisogna porre la massima attenzione per notarlo. Ci sono pure delle cerimonie in cui è possibile studiarlo, in quanto questo stato intermedio si prolunga un po’ di più, per esempio nel “panan” che conclude il rituale dell’iniziazione, oppure nel corso stesso dell’iniziazione. Herskovits non teme di affermare che questa possessione dell’ erè che egli ha trovato a Trinidad come a Bahia, “is a major contribution of Afro-americanist research to Africanist studies”. Che cos’è dunque ciò che caratterizza questo stato che ci possa condurre a nuove scoperte nella nostra ricerca sulla filosofia degli Africani? Prima di dare una risposta alla seconda di queste domande, dobbiamo descrivere questo stato di erè e faremo riferimento ad un articolo poco conosciuto di Arlindo Silva: Generalmente, durante il periodo dell’internato nella camariha (la stanza dell’iniziazione), le yaò sono possedute da degli “spiriti” inferiori di carattere infantile ai quali si da il nome di yerès (ortografia difettosa = ere). Per questa ragione, nella stanza, si trovano diversi giocattoli per distrarre questi “spiriti” birichini: piccoli carretti di metallo, biglie colorate, pennelli e matite colorate. Anche le pareti della camarinha sono sempre coperti da graffiti, da disegni identici a quelli che hanno l’abitudine di fare i bambini. A volte le yerès diventano così insopportabili con le loro birichinate che devono essere castigati per farli calmare. Allora la Madre degli Dei va dentro la camarinha con un frustino, colpisce la yaò che incorpora lo yerè, calmando in tal modo lo “spiritello” troppo vivace. Questi, tuttavia, è così irrequieto che la yaò, da lui posseduta, sfonda la porta a spallate per andare fuori a divertirsi. Allo scopo di prevenire tali fughe, la Madre degli Dei attacca alle caviglie della yaò degli sharaòs o sonagli, per localizzarla a distanza. Altre descrizioni come questa si ritroveranno nelle descrizioni di Clouzot sui cavalli degli dei. Egli si distacca da questo testo come da quello di Clouzot che l’ “èrè” è una specie di trance infantile, e lo definisce come uno stato più dolce, più “soave” di quanto non sia la trance verae propria, non come ci era sembrato all’inizio uno stato di semi-trance che accompagna l’entrata, o più sovente, l’uscita della divinità. Esiste, se non a Bahia, ma per lo meno in altre parti del Brasile, un differente tipo di Trance infantile, quella degli ibeji o gemelli. Esiste anche in certe sette originarie del Dahomey, con altri nomi di divinità, degli stati psichici analoghi alle semitrance degli “èrè” o trance infantili degli ibeji. Il fenomeno dell’ “èrè” non è ancora stato ben studiato, quindi ci sembra necessario incominciare ad analizzare ciò che avviene nelle sette del Dahomey di San Luiz do Maranhào, così come l’insieme degli ibeji e il loro posto nel Candomblè. Queste analisi preliminari non ci allontaneranno dal soggetto, come si potrebbe pensare in un primo tempo ma, al contrario, per mezzo loro potremo arrivare ad un chiarimento. Il 27 di Settembre, giorno dei Santi Cosma e Damiano, in tutto il nord-est e, particolarmente, a Bahia, ha luogo una grande festa, la festa dei bambini. Questo culto dei “santi-gemelli”, come lo chiamano, è di origine portoghese e data dall’inizio stesso della colonizzazione. Nel

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1530 Duarte Coelho battezzò in loro onore la chiesa di Igaracu (Pernambuco). Si comprende facilmente come la devozione ai Santi Cosma e Damiano sia rapidamente passata dal Portogallo alla sua colonia americana, poiché questi due santi “assicuravano il cibo, allontanavano il pericolo dei contagi epidemici e facilitavano il parto dei gemelli”, tutte cose, soprattutto le prime due, assai utili in un paese nuovo, dove l’agricoltura era agli inizi e i medicinali molto scarsi. Con l’arrivo degli schiavi africani, questa devozione andò ad unirsi al culto dei “macaca”, cioè dei gemelli, in una simbiosi così stretta, che oggigiorno è difficile distinguere, nelle abitudini popolari, la parte propriamente africana da quella europea. La festa del 25 Settembre non manca del suo lato pittoresco, così almeno è stata spesso definita. Incominceremo il nostro giro dando lo schema, tal quale si pratica ancora nelle famiglie negre legate ai Candomblè, poiché è lì che avremo le maggiori possibilità di poter discernere gli elementi di origine africana. La festa incomincia una settimana prima con una questua fatta dai bambini per le strade. Uno di loro porta l’immagine del San Cosma e Damiano (il popolo, in effetti usa una sola volta il termine di santo per specificare l’unità dei gemelli), l’altro una piccola ciotola per raccogliere le “elemosine”. I soldi serviranno per pagare una messa per Cosma e Damiano nella chiesa parrocchiale. E’ chiaro che questa manifestazione ha un’impronta cattolica, molto diffusa negli strati rurali o proletari del Brasile; si fa la “questua”, e questo dopo l’epoca coloniale, anche per le grandi feste di Natale o della Pentecoste. E’ evidente per tanto che queste usanze cattoliche non sono che una re-interpretazione, in termini cristiani, delle abitudini arcaiche in cui bande di fanciulli percorrevano le campagne portoghesi, di fattoria in fattoria, per chiedere uova, frutta, vestiti oppure denaro, per preparare le grandi feste dell’Anno Nuovo e il banchetto della comunità dei villici. Ci si può quindi domandare se l’introduzione della questua nelle cerimonie in onore dei Gemelli non sia altro che una re-interpretazione, ma questa volta, della tradizione africana. M. Griaule e, dopo di lui, Madame Dieterlen, hanno specificato il legame tra il commercio e il culto dei Gemelli. Presso gli Yoruba Africani o i Fon del Dahomey, c’è l’usanza , quando nascono dei gemelli, sia di esporli sulla piazza del mercato, dove ogni venditrice dona a loro una parte dei prodotti esposti, oppure è costume che ai genitori i vicini di casa facciano una visita portando dei doni, o, ancora, se si incontra per strada la mamma dei gemelli con uno sulla schiena e l’altro sul cuore, le si regali immediatamente un oggetto, un frutto o una monetine... A la “Trinitè”, quando nascono dei gemelli, c’è l’usanza da parte di amici e conoscenti, di regalare una moneta d’argento. In Brasile Cosma e Damiano fanno ritrovare gli oggetti perduti se si offre loro una “monetina” che, obbligatoriamente, deve essere di nickel o d’argento. A. Ramos fa notare che a Bahia una coppia che abbia dei figli gemelli deve “scambiarli” (espressione molto significativa, più di quella della traduzione di Ramos che suona: “acquistare”) in cambio delle statuette dei Santi Cosma e Damiano. Il giorno della loro festa di anniversario è preceduto dalla visita di amici che portano dei doni e, attorno a queste statuette, sull’altare o il pegi posano dei “ piccoli gioielli o delle monetine bianche di nickel o d’argento”. Sembra quindi, anche se non lo si può stabilire con certezza, che la venuta dei gemelli comporta uno scambio commerciale, che ha preso la forma, in un paese nuovo, sotto la pressione della religione dominante, di uno scambio con Dio (questua per pagare una messa). Il pomeriggio del 25 Settembre ha luogo il “carurù dei piccoli”. Il numero dei bambini che appartengono alla famiglia o agli invitati, non possono essere inferiori a sette, che è il numero del gemellaggio. Si cantano canzoni in portoghese prima di tutto o in africano ai “due-due” perché vengano a prendere parte alla festa. Un grosso contenitore con dentro il carurù (lo stesso piatto di cui abbiamo parlato a proposito di Shangò), è posato su di una stuoia, in genere in mezzo al cortile dell’abitazione, con tutt’intorno dei frutti, biscotti o piccole “golosità”; i bambini siedono per terra e mangiano con le mani come è d’obbligo, pescando dal contenitore. Tutt’intorno i genitori e gli amici cantano, ritmando i canti con le mani e, questa gioiosa merenda piena di allegria e di tenerezza, termina con dei canti di ringraziamento. Sia nel carurù dei bambini che in quello degli adulti, tutti si mettono davanti all’altare di Cosma e Damiano, che è stato allestito nel salone, per dare grazie agli dei e per danzare. Il carurù degli adulti, non conserva nulla della civiltà africana (si mangia a tavola, si beve e si scherza, poi si ballano balli profani) salvo forse e lo diciamo soprattutto a causa del prezzo, nel caso dell’ “obbligo delle sette quiabes”, quando si prepara il piatto tradizionale della festa, si schiacciano

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le conchiglie nell’olio di palma, ma se ne devono lasciare sette intere, colui che le troverà dovrà offrire, l’anno seguente, la festa dei santi Gemelli a quelli che, l’anno prima, lo hanno invitato a casa loro. Alcuni Candomblè di Bahia festeggiano pure i Gemelli, ma con il loro nome africano di ibeji, all’interno di una cerimonia che non è propriamente consacrata a loro ma agli degli ibeji. Abbiamo quindi un primo legame tra i diversi spiriti infantili, cioè gli “èrè” e gli ibeji, con i loro nomi veri e, questo legame, come vedremo, non è il solo. A Récife la festa dei bambini non è tanto una festa offerta dalle famiglie come a Bahia, ma piuttosto una festa delle sette religiose africane. Quasi tutti gli Shangò consacrano il 27 Settembre all’adorazione dei Beije, nome dato in questa città agli ibeji. Meno una che consacrano, curiosamente, il 12 di Febbraio e non ne sappiamo la ragione. La cerimonia ha luogo nel pomeriggio, i genitori non vi sono ammessi, è la festa dei bambini. Si tratta sempre di una colazione o, per lo meno di una distribuzione di dolci, biscotti o frutta. A sera, andati a casa i fanciulli, sembra che si danzi per gli Orishà, ma, né a Bahia, né a Rècife, gli ibeji discendono. Essi non sono, effettivamente, dei veri dei, sono gli antenati mitici dei Gemelli. L’unica trance infantile che si conosca nel nord-est rimane la trance o semi-trance degli “érè” e non quella degli ibeji. L’opposto di quanto avviene a Porto Alegre e, generalmente, nel sud del Brasile. Qui il “caruru” dei bambini è sconosciuto sia nei terreiros che nelle famiglie negre. Gli ibeji sono celebrati nel corsodella grande festa annuale, esattamente come se fossero degli Orishà del tipo di Shangò, Oshum ecc. Il loro posto negli “shere” o serie di canti e danze, è assicurato e, se dei bambini piccoli sono presenti nella sala, si offrono loro dei dolcetti. Gli ibeji possono discendere e, in questo caso, come mi raccontava una Ialorishà, la persona posseduta si trasforma in bambinetto “anche se ha 40 anni”; balbetta, usa parole deformate, “piange o ride per nulla” e si diverte con giochi infantili. Abbiamo quindi a Porto Alegre l’opposto di quello che accade aBahia e Rècife. Tuttavia il termine “èrè” è ugualmente conosciuto: “quando la persona posseduta ritorna al suo stato normale, deve passare attraverso lo stato di “èrè”, il tipo di semi-possessione descritto come lo stato infantile che, Anche nel nord del Brasile un culto dei gemelli sta a lato delle trance infantili; nel sud, due specie di trance infantili, quella dell’ “èrè” e quella degli ibeji. Il problema diventa sempre più complicato via via che procede la nostra ricerca. A Rio de Janeiro, all’epoca in cui la religione “Nagò” manteneva ancora le sue caratteristiche tradizionali, Joào do Rio ha trovato, accanto agli ibeji, due altri esseri mitici che egli chiama Orishà: Doù e Alaba. A Bahia, secondo Edison Carneiro, Doù e Alaba non sono degli Orishà; Doù è il terzo nato in caso di gemelli, o quello che nasce normalmente dopo un parto di gemelli; Alaba sarebbe, sia il quarto nato del parto quadruplo, sia il bambino nato terzo dopo un parto gemellare. Una cantica riferita da Cl. Tavares è eseguita durante il “carurù dei bambini” e suona nel modo seguente: Cosma e Damiano Ogun (Doun?) e Alaba, Vengo dal villaggio, là nella campagna. Pertanto, aggiunge E. Carneiro, attualmente i macaça si intitolano individualmente Doù. In un articolo de Lo Stato di Bahia, riportato da Arthur Ramos, J.V. si spinge ancora più avanti; dopo aver detto che gli ibeji sono rappresentati nel pegi individuale dei figli degli dei da un doppio piatto o doppio vaso, nel quale si mettono dell’acqua e dei cibi, egli aggiunge che il giorno della festa dei Santi Gemelli si accendono tre ceri: Il terzo cero che illumina Cosma e Damiano, come il terzo vaso dove verrà posto il carurù insieme all’arachide dolce e il purè all’olio come la terza cosa che a loro si consacra, appartengono a una entità spirituale che non è molto ben compresa, né festeggiata da sola. Tutto quello che si fa per i primi due, lo si deve fare allo stesso tempo per lei, che la loro guardiana.

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Questa rappresentazione materiale è, probabilmente, come quella dei “DueDue”. Ha una influenza benefica sugli uomini e tutte le persone che possiedono i Santi Gemelli o chi ha dei figli gemelli crede che questa entità li accompagni. Questa entità amica, guardiana... è Doù Idolù e Idossù la seguono, i quali non sono invocati e non ricevono più un loro culto. E’ facile ritrovare l’origine africana dei Doù. A.B. Ellis ci fa sapere che una scimmietta, chiamata Edou Dudu o Edun Oriokun, è consacrata agli ibeji e, generalmente per questa ragione, uno dei due gemelli si chiama Edou o Edoun. A Bahia, invece, come vediamo, questo Edou si trasforma in un “guardiano” di gemelli, vale a dire che tende, al limite, ad assumere l’aspetto di un vero “èrè degli Ibeji”. Infatti oggigiorno i santeiros che scolpiscono nel legno le immagini dei Santi, hanno preso l’abitudine di frapporre tra San Cosma e San Damiano, un terzo personaggio, più piccolo dei precedenti, e che rappresenta Doù. E’ così che passiamo da un sistema di due (i gemelli) o di quattro ( i gemelli, Doù, Alaba) a un sistema di tre. La rappresentazione africana delle scimmiotte, amiche e protettrici degli ibeji ha giocato contro un’altra rappresentazione africana, quella della personalità quadruple della coppia primitiva (che si mantiene a Bahia dove, da qualche anno in qua, esiste l’idea che Obatalà sia una divinità ermafrodita, essendo sparito Odudua, ma che di lui conserva lo stesso carattere), cancellando l’importanza della cifra 2 o 2 volte 2 che sopravviveva ancora nel culto dei gemelli. Simili trasformazioni non sono rare, ma lasciano in generale trasparire sotto le loro metamorfosi delle tracce del pensiero arcaico. Uno sforzo per giungere ad una sintesi si era pur cercato di farlo: se Doù diventava il guardiano, c’erano pur sempre i due gemelli Idolù e Idossù, in parte dimenticati. Quanto ai nomi dei due ibeji propriamente detti, mi sono stati dati quelli di Beggùe e Meggùe che si raffrontano in parte con quelli trovati a Récife dalla Missione folcloristica del Dipartimento Culturale di San Paulo: Beggùi e Meggùi. Gli ibeji, come gli èrè appartengono alle sette nagò, o assimilate ai nagò, ma le sette più vicine a quelle del Dahomey cioè quelle di San Luiz do Maranhào, conoscono pure degli spiriti infantili e di svariate specie diverse. Anche se la nostra tesi coinvolge principalmente i terreiros di origine yoruba, non è inutile fare un rapido studio sulle credenze dei discendenti brasiliani dei Fon, nella speranza che questo confronto ci permetta di avere le idee più chiare rispetto agli èrè presso i Nagò. La Casa Grande das Minas di Madre Andresa possiede tre tipi di divinità, i vodoun, i tokhueni (o toquens) e i toboga (o tòbòssi). I vodoun si dividono in tre famiglie: la famiglia delle divinità della terra, quella delle divinità del fulmine e quella degli antenati della famiglia reale. Famiglia dei vodoun della terra: Dambira (Dan); Akossou-Sakpata; I figli di quest’ultimo: Podi-Bogi (o Poli-Bogi), Lepon, Aloge (Alokpe), Bagno, Aboju, Abototoe, Bosuko (o Bossoukon, Bossikpon), Azili (o Azile), tutti maschi; e Hueji, Bosalebe, Bosa, Eowa, tutte femmine. Famiglia dei vodoun del fulmine: Kevioso o Bade, il capo; Avrekete (o Verekete), Loko, Lisa(o Lissa) Avremo, Ajauto (o Ajautoi), Ajanutoe ( o Ajònòtoi), Topodu (o Topodun), tutti maschi; Nanan Bioko (per Boukou), Sobo (o còbò) e Abè, femmine. Famiglia degli antenati dei re d’Abomey: Agongono (Agonglo) che sarebbe vissuto dalla fine del XVIII secolo al principio del XIX. Savalou o Azaka, dal nome della regione, Savalou, l’Azaka era un bambino malformato, adorato come Tohossou; Dadaho di Dada, re e Daho, il più vecchio che sarebbe secondo Verger Agassou, il vodoun dei re del Dahomey Bepega, il figlio del re Tegbessou

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Sepazin la figlia del re Wegbadja Dako, il re Dokodonou (1625-1640) Bossou, uno dei nomi di Zomadonou Joti, un figlio di Dadaho Koessina un fratello del re Agadja, secondo Verger, o Koissinakaba, secondo Octavio da Costa Eduardo, nome composto di Koisi, probabilmente titolo in prestito, e di Akaba (1680-1708) Aronovissava, Ahonovi Sava, sorella del re Dako Zomadonou, il primo figlio anormale del re Akaba Dossou (Dosu) sarebbe il secondo nome del re Agadja che ha regnato alla fine del XVIII secolo ( si sa che Dosou è il nome dato al bambino che nasce dopo i gemelli) Togpa il fratello di Zomadonou Desse il figlio del re Kpengla Dossoupe, Tohossou del re Agdja Apojevo sarebbe Agbojahoun figlio del re Tegbessou Nani una figlia del re Kpengla Tossa e Tossè i gemelli del re Agadja Naiadono, la madre di Akaba, Agadja e Hangbe Naitè infine la madre del re Agonglo Se abbiamo dato tutti questi nomi di divinità è perché in seguito ce ne serviremo per la nostra dimostrazione, ma prima c’è da notare che questi vodoun non solamente formano delle famiglie e si distinguono secondo il sesso al quale appartengono, ma inoltre, cosa più importante, come vedremo, si dividono in due gruppi ben distinti, gli dei giovani e gli dei vecchi: Dei giovani Sesso maschile

Sesso femminile

Dossou

famiglia III Tossa e Tossè famiglia III

Apojevo

famiglia III Nani

famiglia III

Dako

famiglia III Aronovi

famiglia III

Bossou

famiglia III Sepazin

famiglia III

Dossoupe

famiglia III Bosa

famiglia I

Verekete

famiglia I

Apogi (o Apogeo) famiglia III Poli-Bogi

famiglia I

Roejù (Abojù ?)

famiglia I ?

Desse

famiglia III

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Dei vecchi Sesso maschile

Sesso femminile

Dadaho

famiglia III Sobo

famiglia II

Koessina

famiglia III Naiadono

famiglia III

Zomadonou

famiglia III Naegongon ? ?

Bòròtoi (o Abatotoe ?)

famiglia I

Azaka

famiglia III Nanan Bioko famiglia II

Aronovissava

famiglia III Afru-fru ?

?

Akossou-Sakpata

famiglia I

famiglia II

Azile

familgia I

Agongono

famiglia III

Togba

famiglia III

Lisa

famiglia II

Ajanutoe

famiglia II

Ajauto

famiglia II

Bade

famiglia II

Loko

famiglia II

Lepon

famiglia I

I Naite

I Abè

famiglia III

Come noterete il nome di Legba non figura ne in questa lista ne nelle precedenti. Tuttavia Edmundo Correia Lopes, durante la sua visita nel querèbetan o terreiro della Madre Andresa, aveva ascoltato un canto nel quale credeva di avere riconosciuto il corrispondente del nome di Eshù come è chiamato nel Dahomey. Ma la Madre Andresa affermava sempre con enfasi sia a Nunes Pereira, che era della "casa", che a Octavio da Costa Eduardo, che lei Legba non lo conosceva affatto. Durante la visita che le feci e di fronte al cantico di Correira Lopes, lei dovette ammettere che a volte si cantava pure per quella divinità, ma aggiunse anche che nessun culto organizzato esisteva veramente per lei. Ciò che sembra confermato da tutte la descrizioni di cerimonie a cui abbiamo assistito. Se Legba, dunque, non apre le strade e non intercede presso gli dei affinché discendano sui loro cavalli, chi è allora che lo sostituisce? Nunes Pereira scrive: "Oltre a questi vodoun dobbiamo prendere in considerazione quelli che chiamano Toquens, o guide, o bambini, che precedono gli vodoun nelle visite che questi ultimi fanno ai loro fedeli. Spesso un Vodun come Avèrèquète, il più vecchio di tutti i vodoun, assume il ruolo di Toquem, o guida o, ancora, di bambino". "I vodoun discendono in occasione delle danze o in altre circostanze, da soli o in gruppo. Non è raro vederli preceduti da una guida, o Toquen, o un bambino, il cui arrivo è, a volte, annunciato da un semplice accompagnamento di tamburi, o dalla prima frase del canto che è a lui particolarmente dedicato". La prima di queste due frasi contiene un errore poiché Averekete non è un dio vecchio; lo stesso autore in un’altra pagina del suo libro, lo classifica nella lista dei vodoun giovani; ma bisogna leggere: "che è il più anziano di tutti i bambini". Nunes Pereira definisce bene il ruolo di "guide" ma non ci da il nome di nessuna di loro. Octavio da Costa Eduardo è più chiaro. I tokhueni, dice, sono dei semi-fratelli (fratellastri), cioè dei fratelli della stessa madre, ma di padri differenti; egli cita un esempio che ci permette finalmente di conoscere qualcuno di questi nomi di tokhueni: "Akuevi, Dossoupe e Desse soni figli di Dossou Agadja, mentre Dako sarebbe il figlio di Dossou. Gli altri tokheni, Tossa, Tossè, Jagoborosou, Apojevo, Bossou, Apoje e Nani sarebbero stati allevati da Dadaho". Il compito di questi "bambini" sarebbe quello di precedere la crisi estatica, di " aprire il cammino" o passaggio degli dei più anziani; essi non arriverebbero in modo disordinato ma, per esempio, Tossa e Jogoborosou arrivano per primi e Dako che è il loro "aiutante", vede se

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gli altri vodoun si possono presentare. Durante le grandi feste della setta, dopo l’adajibe che è il cantico preliminare, si canta in primo luogo per i tokhueni e poi per i vodoun. Secondo uno strano paradosso, tuttavia: "Le persono che sono consacrate ai tokhueni sono posseduti soltanto dopo che i devoti dei vecchi Vodoun lo sono già stati da parte delle loro divinità". Lo schema del cerimoniale obbedisce alle stesse sequenze di quello trovato nelle case yoruba; e cioè che, in un primo tempo si danza per fare "scendere" gli dei, quindi i posseduti si vestono con i loro abiti cerimoniali e tornano a danzare, nella seconda parte, in stato di estasi; poi rientrano sotto il pergolato dove si trovano i suonatori " nell’ordine di precedenza, i tokhueni per primi, seguiti dai vodoun della famiglia di Danbira, poi da quelli del gruppo Divise (cioè dal gruppo degli antenati reali del Dahomey) e, finalmente, da quelli del gruppo diretto da Kevioso". Da quanto critto in questi testi si può concludere in primo luogo che i "tokhueni" hanno, in questa religione del Dahomey, lo stesso ruolo che Eshù e Ogun hanno nelle sette Yoruba. Essi "aprono i cammini" sono gli intermediari indispensabili tra gli uomini e le divinità. E’ da notare, in secondo luogo, che i tokhueni appartengono ad una sola famiglia, quella degli antenati deificati. Qui si pone una domanda: che cosa succede con gli altri gruppi di vodoun? Possiamo pensare che i tokhueni aprano le strade a tutte le divinità, così come a quelle della terra o del fulmine che a quelle degli antenati; l’ordine stesso in cui vengono eseguiti i canti sembrerebbe convalidare questa ipotesi, poiché, dopo i canti dei tokhueni, si canta immediatamente per i vodoun della terra, non per quelli della famiglia del Dahomey. Ci sono poi degli altri fatti che ci inducono a studiare un’altra ipotesi. Anzitutto l’appunto, che prima abbiamo citato, di Nunez Pereira che i tokhueni possono essere ben sostituiti da Averekete. Ora, quest’ultimo vodoun appartiene al gruppo di Kevioso. Verger nota, nel suo "Dei dell’Africa", il carattere malizioso, indiscreto e scabroso di questa divinità, che lui fa assomigliare ad Eshù. E’ curioso notare che, cambiando di paese, Averekete cambia pure di sesso e diventa una divinità maschile. Sotto questa forma è stato adottato dai terreiros yoruba di San Luiz de Maranhào e mi si permetterà di citare qui di seguito una cantica di queste sette, molto significativa: Verekete della colonna E’ il re del mare Verekete della colonna E’ il re del mare. Dove si fa riferimento al palo centrale, attorno al quale, a Bahia, danzano in tondo le figlie degli dei, pur se ora sia sparito in quanto elemento architettonico dei Santuari di Maranhào, ed è lungo questo palo che unisce la terra al cielo, che i vodoun possono discendere per possedere i loro fedeli, quei vodoun che hanno percorso tutto l’Oceano Atlantico, "Avrekete è il re del mare". Se adesso comprendiamo meglio la capacità dei tokhueni di essere sostituiti nel loro ruolo di "guide" da Avarekete o Verekete, è tuttavia chiaro che questi vodoun non possono "aprire il cammino" che alle divinità del proprio gruppo. Ancora dobbiamo scoprire che cosa succede nei gruppi Donbira. Non ci sarà forse anche in questo caso un "vodoun messaggero"? Una frase di Octavio da Costa Eduardo ci permette di rispondere a questa domanda: "La setta religiosa del Dahomey di Sào Luiz conserva la teologia del Dahomey nel credere che la divinità più giovane di ogni pantheon sia un trickster... protetto, per via delle sue birichinate, dalla collera di suo padre, il capo del pantheon, da una sorella o da un fratello indulgenti" e aggiunge, a lato di Verekete (della famiglia Kevioso) |protetto da sua sorella Abe" e, di Tossa (della famiglia degli antenati), protetto da suo fratello maggiore, "Huandolo", Bosuko "il ragazzaccio della famiglia Danbira, che è sotto la protezione di sua sorella Bosa". Resta così dunque verosimile, a meno che qualche autore non segnali il contrario, che Basuko, in rapporto al suo gruppo, abbia il compito che Verekete ha in rapporto al gruppo dei Kevioso e i tokheni a quello degli antenati. Si tratta quindi nei tre casi di "bambini" e di " birichini" come era Eshù presso gli Yoruba.

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A Bahia abbiamo trovato la stessa distinzione fra le divinità vecchie e quelle giovani, le stesse regole di precedenza che le figlie degli dei rispettavano nell’ordine cronologico dei loro rispettivi Orishà. Ma le divinità giovani non avevano mai il permesso di aprire il cammino. Questo era il compito di Eshù e del suo compagno nei percorsi dentro la boscaglia, Ogun. La scomparsa di Legba nel culto organizzato di S. Luiz ha, naturalmente, forzato le genti di origine Dahomey di Maranhào a cercarsi un dio in sostituzione dell’altro. Come si vede, la soluzione escogitata non manca di ingegnosità. Così pure, se si canta per prima cosa ai vodoun giovani, o ai tokhueni, essi, solitamente, non "discendono" sui loro cavalli se non dopo i vodoun anziani, manifestando in tal modo il loro rispetto verso i vegliardi, sentimento così caratteristicamente africano. Lo stesso si verificava, se ben ricordiamo, per la possessione d’ éré a Bahia. In generale l’ éré segue la transe dell’Orishà (con la differenza che si tratta della stessa persona che passa dalla transe all’ éré, quando sono persone possedute dagli dei giovani, le altre, invece, possedute dagli dei vecchi). Siamo quindi portati a chiederci se la possessione da parte degli dei giovani sia o no della stessa natura di quella degli éré. Nunes Pereira ci da una descrizione delle crisi estatiche di sua madre, che appartiene a PoliBogi, di conseguenza, a un vodoun giovane: Poli-Bogi – amico di Badè e di Toi Boçukò – è una divinità africana che ha l’abitudine di esteriorizzarsi sotto forme caratteristiche della natura, ad esempio delle tempeste ecc., ecc. Quindi, quando Poli-Bogi discendeva – nonostante il carattere mistico di mia madre – alcune alterazioni fisionomiche, dei gesti, parole incomprensibili e strane denunciavano la presenza di quella creatura. Io certamente sapevo che mia madre era sotto l’azione di un fenomeno fisico a cui era stata indotta da un’ emozione di origine allora sconosciuta o incomprensibile per me. In quelle occasioni io potei osservare anche che il campo delle sue conoscenze si allargava considerevolmente, che la sua espressione acquistava un’aria di profonda conoscenza nel trattare questo o quel tema. L’età del vodoun si manifesta dunque con differente intensità nel momento della transe. Lo stato che Nunez Pereira descrive, secondo il ricordo della sua infanzia, ci ricorda: "mutatis mutandis", "l’età della quiete" di Santa Teresa, all’opposto dello " stato di rapimento". In una forma un po’ differente, un’idea analoga la troviamo a Récife. Un informatore del Dott. R. Ribeiro affermava di riconoscere perfettamente, nei giorni di tempesta, i diversi Shangò, dalle loro "voci". "Il rullio sordo è la voce di Dada; il battere secco viene da Aganju che fa schioccare la sua frusta, mentre i rumori più fievoli sono di Ogodo". Tornando alle strutture dell’estasi, che sono il centro del nostro interesse in questo capitolo, la possessione da parte dei vodoun giovani, o dei tokhueni, ricordano l’ éré, lo si vede dal testo di Nunes Pereira, nelle semi transe, ma non nelle transe infantili. La gente del Dahomey di Saò Luiz non ricordano più questo fenomeno, ma hanno un’altra forma diversa da quella dei vodoun e cioè quella dei "toboga o tòbòssi". Due forme la cui eterogeneità è ben evidenziata dalla linguistica. Tre lingue sono, effettivamente, utilizzate nel querèbetan di Madre Andresa. Anzitutto la lingua portoghese nelle relazioni quotidiane, nei momenti profani della vita del santuario, poi la lingua fon nei cantici dei vodoun, o nelle relazioni con gli dei e, infine, una lingua sconosciuta, segreta, rimasta incomprensibile a tutti gli osservatori, durante le possessioni da parte dei tobosa. Mentre a Bahia come a Récife o a Porto-Alegre, in tutte le sette di origine yoruba, ogni fedele non ha che un solo Orishà, che è il maestro della sua testa, qui, al contrario, ogni fedele ha due spiriti che lo possono possedere, un vodoun e un tobosa. Diamo qui di seguito la lista dei membri della setta, con i loro rispettivi vodoun e toboga, dato che è possibile che ci sia un legame tra la natura del tobosa e la natura del vodoun corrispondente:

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Nome della persona vodoun tobosa (o toboci) Andresa Maria Poli-Bogi Açoabèbe Cecilia Dossoupe Rèvivive Zila Apojevo Dàgèbe Tereza Bosuko Sandolèbè Adalgisa Agongono Açonlèvive Almerinda Lisa Agamavi Leocàdia Tossa Tròtròbe Ecc.... Nome della persona vodoun

tobosa (o toboci)

Andresa Maria

Poli-Bogi

Açoabèbe

Cecilia

Dossoupe Rèvivive

Zila

Apojevo

Dàgèbe

Tereza

Bosuko

Sandolèbè

Adalgisa

Agongono Açonlèvive

Almerinda

Lisa

Agamavi

Leocàdia

Tossa

Tròtròbe

Ecc.. Il nome in portoghese di queste tobosa è quello di "ragazzine"; si tratta dunque di spiriti infantili, sul tipo degli éré o degli ibeji yoruba, salvo che sono sempre di sesso femminile. E’ difficile per noi, dopo aver riportato la lista dei nomi, di ritrovarvi la vera origine africana di quelle curiose divinità. A. Ramos ha creduto vedervi, nascosti nel nome "quasi impossibile da identificare di Dàgébe", Dangbe e Dan, il che farebbe dei tobosa degli antenati ancora sib; ma durante le mie conversazioni con Madre Andresa, costei si rifiutava a collegare Sàgébe con il Serpente di Whydah, senza, peraltro che le sue spiegazioni mi potessero illuminare nella mia ricerca delle radici africane delle tobosa . E’ forse che si deve vedere un tohossou deformato al femminile, lo spirito degli infanti anormali e mostruosi adorati nel Dahomey? E’ possibile, quantunque i vodounsi della casa di San Luiz, con cui avevo parlato, si mostrassero particolarmente fieri dei loro tobosa, assai più fieri dei loro propri vodoun, e non li consideravano colpiti da qualche infermità congenita. E’ da notare inoltre, che una delle fedeli, Cecilia, ha già un tohossou, Dossoupe, come vodoun, il che sembrerebbe contraddire l’identificazione dei "tobosa-tohossou" in forma femminile. C’è da pensare piuttosto al nome del clan reale fon che è "toshowi", da cui, per deformazione, deriverebbe tòbossi. Quindi questo culto degli antenati del clan si ridurrebbe, non so per quale ragione, al culto dei soli antenati bambini e di sesso femminile. Octavio da Costa Eduardo fa notare che questi spiriti sono " dominati dal Vodun maschile che, di solito, possiede l’iniziata". Questo perchè i tobossa sono uniti soltanto a delle divinità di sesso maschile, che Tossa e Tosse, che sono gemelle, tendono a cambiare di sesso per diventare gemelli. La loro identificazione con i santi cattolici Cosma e Damiano non può che seguire questo concetto, confermando e accentuando questa mascolinità. Questi spiriti infantili, queste "bambinelle", non "discendono" mai nelle feste ordinarie, come quella del 4 Dicembre (giorno di Santa Barbara), consacrata al gruppo dei Kevioso, o quella del 20 Gennaio (giorno di San Sebastiano), consacrato al gruppo dei Danbira, ma, nelle feste speciali che sono dedicate solamente a loro: un giorno all’anno, a Carnevale, e a Sta. Giovanna: Durante il Carnevale le ragazzine o Tòbòssis celebrano una festa con danze attorno ad una grande bacinella di acarajè (polpetta di purè di fagioli con ripieno di gamberetti secchi e peperoncino fritta in olio di palma ).In questa festa, che si chiama anche festa delle bambinelle, oltre all’ acarajè ci sono dei grani di mais tostati e le Tòbòssis mangiano e distribuiscono frutta. Esse non danzano che un giorno soltanto e la danza è "moderata", secondo l’espressione di Andresa Maria. Mentre danzano distribuiscono i grani di mais e le frutta tra i figli e le figlie dei

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vodoun così come ai membri che partecipano. Canti speciali sono intonati nel corso di questa festa... Le Tòbòssis, sedute per terra, giocano con delle bambole e conversano tra di loro in una lingua speciale, difficile da comprendere. Andresa Marìa dice che parlano in una lingua "molto faticosa e confusa". Queste bambine mantengono sempre un carattere allegro durante le danze della festa di Carnevale, ma senza cadere, malgrado siano umanizzate, nell’esagerazione degli eccessi, ridicoli e indecenti che caratterizzano, al di fuori, il Carnevale profano... Il giorno di Sta. Giovanna, le "Novizie" indossano vesti bianche; a Natale vari colori; A Carnevale le Tòbòssis portano gonne sontuose e uno scialle de "la Costa" attorno al collo, che scende fino ai piedi, calzati da eleganti sandali. Questa descrizione ci basta per dimostrare la rassomiglianza di queste bambine con le ibeji: la festa si svolge intorno al catino che contiene gli alimenti e si scambiano doni tra i presenti ma il fatto che, essenzialmente, le separa è che le ibeji a Bahia non "discendono" mai. Sono le èrè che discendono, per cui la transe delle tobosa, tale quale si evidenzia da questa descrizione: "transe moderata", "parole confuse" o linguaggio infantile , il gioco con le bambole, tutto questo stranamente ricorda la descrizione che abbiamo dato prima circa la possessione da parte degli èrè. Quindi, mentre gli èrè vengono dopo l’Orishà e le due transe continuano, le tobosa si manifestano durante delle cerimonie diverse da quelle dei vodoun. Cìè discontinuità, rottura nella esperienza mistica. Ci saranno allora altre differenze? Il rituale di iniziazione delle future vodounsi è analogo a quello delle future yauò, ma forzatamente, comprende due inserzioni di divinità nella testa delle candidate poichè la possessione è doppia. Al principio il rituale vuole che si metta il vodoun dentro di esse, quindi le ragazze vengono fatte rientrare in due camerette, dove rimarranno per otto giorni, imparando i loro compiti e incarichi e saranno sottoposte ad un certo numero di "manipolazioni rituali", come il taglio di un ciuffo di capelli; l’ottavo giorno sono condotte davanti al pegi, dove, per la prima volta, ricevono i loro tobosa. "Durante i nove giorni seguenti le vodounsi-hunjai resteranno possedute da questi, possessione che incomincia al mattino e termina la notte. Il secondo giorno le nuove tobosa annunciano i loro nomi, ma, per questo, non vi è una cerimonia speciale". Un anno dopo il termine dell’iniziazione, avviene la festa detta del: "pagamento della testa" nel corso della quale le vodounsi pagano simbolicamente quanto convenuto e sono "fatte": "le possessioni da parte dei vodoun nel corso delle danze e da parte dei tobosa dopo che i vodoun sono stati messi fuori, avvengono durante il giorno della festa del pagamento della testa". Indicazioni simili circa le iniziazioni nelle sette yoruba non le abbiamo. Tuttavia non vogliamo tralasciare di accennare ad una conversazione, proprio a proposito della natura dell’ èrè, avuta con il babalOrishà Cosme. Costui mi diceva che, durante l’iniziazione, il dio veniva fissato secondo le sue diverse età: incominciando dal più giovane per finire con il più vecchio, uno per giorno, per cui, al momento della transe, la divinità possiede la ragazza nell’ordine inverso a quello dell’ atto di iniziazione (proprio come se l’estasi seguisse la famosa legge di Ribot nel "le Malattie della Personalità), incominciando dal più vecchio per finire con il più giovane. Questa affermazione, così come la trovo annotata nei miei appunti, non è valida, poichè non sono i figli di Shangò in generale, o di Oshalà, ma di questo o quel Shangò, di questo o di quell’ Oshalà, giovane, adulto o vecchio. La divinità che è fissata nella testa è dunque una divinità che ha un’età determinata e solamente quella. Tuttavia, siccome questa conversazione era partita da una discussione sulla natura dell’ èrè, è possibile che ciò che Cosme intendeva dire, era che l’ èrè era fissato ugualmente nel corso delle cerimonie di iniziazione e forse, contrariamente ai tobosa, se diamo ancora credito al nostro informatore, prima dell’Orishà stesso. Altre informazione su questo problema non ne abbiamo, problema che meriterebbe ricerche più ampie, malgrado le reticenze dei sacerdoti a toccare i "misteri" delle iniziazioni davanti a degli stranieri. Cosicchè l’analisi strutturale delle estasi afro-brasiliane ci porta ovunque a delle "possessioni infantili" e delle "transe moderate" , alcune che si presentano prima, altre e più di frequente, dopo, oppure delle possessioni con un’esistenza autonoma in rapporto alle "possessioni" da parte degli dei. E’ chiaro che questa conclusione, dal punto di vista psicologico, è qualcosa di estremamente interessante, altre volte lo abbiamo rilevato. Gli etnografi che ci parlano delle transe africane, spinti, senza dubbio, dal demone della letteratura, insistono sulla loro

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brutalità. Il misticismo africano ha certamente le sue sfumature, le sue tinte indefinite e le sue linee melodiche: c’è presso gli Yoruba e i Fon una tradizione di civiltà circa la spiritualità a fianco di quella dei legni scolpiti e dei bronzi del Bènin. Sicuramente il Nero non è dedito all’introspezione come i nostri mistici cristiani, non sa descrivere a parole le sue esperienze interiori; ha pertanto un’altro linguaggio che gli permette di esprimere la complessità della sua anima palpitante fra le braccia degli dei ed è il linguaggio dei gesti. Il "castello interiore" non ha una sola stanza, ma è composto da ambienti multipli e ognuno di questi ha la sua liturgia estatica; è dunque possibile, attraverso una psicologia del comportamento, entrare nell’intimità dei fenomeni vissuti. La possessione da parte degli "dei giovani" e degli "dei vecchi", quella da parte degli èrè e degli tobosa, distinguono, nel misticismo africano, la diversità degli stati psichici, la molteplicità degli "ambienti" del "castello interiore". Non è tuttavia la psicologia che ci interessa in questo nostro lavoro. Sono le rappresentazioni collettive, i miti che la sottintendono. Noi abbiamo provato a dimostrare che l’estasi si conforma sempre a dei modelli culturali e che non è altro che la "ripetizione" di un vissuto arcaico passato. La possessione dell’ èrè non deve quindi fare eccezione alla regola. Ma che cosa può dunque essere questa misteriosa entità? Dove è possibile cercare il "modello culturale" della transe infantile? Se lo stato di èrè è conosciuto solo da qualche anno, il suo nome, sì, era già conosciuto. Quando Arthur Ramos, dopo la prima guerra mondiale, iniziò le sue rucerche nel campo afribrasiliano, tentò di compilare una lista, la più completa possibile, degli Orishà e, dopo aver parlato delle grandi divinità, aggiunse: " Altri Orishà di origine "gège-nagò, di minore importanza, ricevono ancora i loro culti a Bahia e a Rio... eccone una breve lista:... Erè, figlio di Shangò, nome che ho trovato a Bahia". Edison Carneiro, pressappoco nello stesso periodo, riprende, con un termine identico, questa definizione di èrè: "poche cose si sanno dell’èrè, figlio di Shangò, Orishà quasi sconosciuto". Quest’ultimo autore, per altro, nel corso di ricerche più approfondite, dovette correggere quello che di difettoso aveva la sua prima supposizione; durante una conferenza nel Congresso Afro-Brasiliano di Bahia del 1937, sulla necessità di " fare una revisione" sulle affermazioni dei primi ricercatori, disse: " Arthur Ramos ha registrato la presenza a Bahia dell’Orishà Erè, figlio di Shangò. Tuttavia, a seguito delle mie osservazioni, Erè non è un Orishà, ancor meno collegato a Shangò, ma è uno spirito inferiore, una specie di fattorino dei diversi Orishà e che li accompagna sempre". Quindi aggiunse: " Gli Erè, delle Ibeji, Cosma e Damiano, sono i più comuni ed appaiono sempre in numero pari". Un po’ dopo, tra i Negri Bantù, Edison Carneiro descriveva rapidamente la festa delle ibeji a Gomea, dove i 12 èrè dei gemelli sacri discendevano e si incarnavano nei cavalli doppi, citava pure qualche nome di questi èrè: Sambongala, Beke, Cavanje, Dounandè, Mbàmbi ecc. tutti monelli uno più dell’altro. In una nota in fondo pagina, riprendeva la sua affermazione del Congresso AfroBrasilianoa Bahia: "Ogni Orishà ha il suo ère", per aggiungervi la seguente correzzione: "che può essere di Cosma, di Damiano, di Doù o di Alaba". Per ultimo, nella sua ultima opera sul Candomblè di Bahia, egli segnalava l’esistenza, nel terreiro di Flaviana, di una festa degli èrè, a cui noi abbiamo già fatto cenno, e che, nella sua parte centrale, era costituita dal rituale della corda delle ibeji. Abbiamo fin qui seguito, passo a passo, tutta un’evoluzione che ci ha condotto dagli èrè figli di Shangò, agli èrè legati agli ibeji. Noteremo, anzitutto, che la reazione contro Arthur Ramos, a proposito di questa faccenda, è stata brutale; così brutale che Ramos ne ha dovuto tener conto, tanto che, nella 2° edizione del "O Negro Brasileiro", aggiunse al suo primitivo testo la seguente nota: "Per alcuni negri èrè non è un Orishà ma è solamente una specie di spirito inferiore che accompagna il santo o l’Orishà". Con questo, diciamo noi, Ramos non modificò il suo testo primitivo ma si accontentò di sottomettere al lettore due ipotesi possibili sulla natura di questa entità. Se una persona colta e seria come Ramos non ha ritenuto suo compito modificare il suo testo, ma aggiungerci unicamente una nota è perchè doveva avere presente nella sua memoria la testimonianza di certi informatori, i quali gli avevano confermato perentoriamente che èrè era il figlio di Shangò. Se andiamo da Bahia a Récife, l’ èrèè rappresentato così ancora adesso. La setta africana, la più tradizionale, rispettabile e prestigiosa di quest’ultima città è, senza dubbio, quella del Padre Adam, attualmente deceduto, figlio di Africani venuti da Lagos. Durante le cerimonie di questa setta i canti sono eseguiti nell’ordine seguente:

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1. Eshù, 2. Ogun, 3. Oshossi, 4. Otim, 5. Iròco, 6. Oshumarè, 7. Obaluayè, 8. Nanan-Buruku, madre di Obaluayè, 9. yè-uà, un’altra divinità delle acque, 10. Obà, 11. Oshum, 12. Yemanjà, 13. Yamassi, 14. Dadà, 15. Baianènyn, 16. Onanminhà, padre di Shangò, 17. Shèrè, 18. Shangò, 19. Yansan, 20. Orishalà. Da questa lista si ricava che, pur se sotto la forma mal scritta di Shèrè, èrè esiste davvero e che giustamente si trova nella famiglia di Shangò, esattamente tra lo Shangò femmina Baianènyn e il padre di Shangò da un lato e dall’altro tra Shangò e la sua principale moglie Yansan. Nelle informazioni supplementari che il Padre Adam ha dato al Dr. Conçalves Fernandez, ha fatto di Shèrè (èrè) "un altro dio" "della stessa generazione di Shangò". L’ultimo libro uscito recentemente, che parla delle sette africane a Rècife ci dimostra che questo concetto non è per nulla cambiato da allora e che si mantiene tuttora vivo laggiù. Un BabalOrishà di Rècife nel corso di un suo viaggio a Bahia, aveva appreso un canto che poi aveva introdotto nella sua setta sotto il nome di onika di Shangò; il Dr. René Ribeiro ha ravvisato in questo canto uno dei canti incisi su disco a Bahia per gli sposi Herskovits e che era consacrato a èrè, dicendo ai suoi amici neri, quanto gli permetteva di affermare nella seguente informazione sull’érè. " Si tratta di uno Shangò senza importanza, poco conosciuto a Récife". Malgrado tutte queste testimonianze, Edison Carneiro ha proprio ragione. èrè non è un dio ma uno spirito inferiore. èrè non è unicamente collegato a Shangò, ogni Orishà ha il suo èrè. Sembra quindi che, malgrado tutto, tra i diversi èrè quello di Shangò abbia occupato per un certo tempo un posto speciale, non ci si spiegherebbe altrimenti tutta questa sequenza di informazioni, ma oggi, tutti i fedeli interrogati sono d’accordo su di un punto: ci sono tanti èrè quanti sono gli Orishà. Se Edison Carneiro ha, senza dubbio, ragione nella prima parte delle sue affermazioni, ha pure ragione quando, in seguito, fa legare, senza precisarne la natura, gli èrè agli ibeji? Prima di tutto notiamo che questo legame non esiste che nei Candomblè Bantù meno tradizionali. Sembra che le analogie tra i gemelli, che sono dei bambini, e gli èrè, che sono degli spiriti infantili, siano state fatte. Si è voluto fare della festa degli ibeji, una festa senza transe visto che i gemelli non sono degli Orishà e, di conseguenza, non discendono a Bahia, una festa di una natura uguale a quella delle divinità, cioè privata delle "possessioni". Si è allora cercato di trovare qualche cosa che fosse un sostituto nella possessione da parte degli èrè, e, poco a poco, si è venuta così a formare un’indissolubile associazione di idee secondo alcuni, che gli èrè e gli ibeji erano uniti da uno stesso legame. Una jabadan di una casa Bantù usava sempre con me i termini èrè e ibeji come dei termini equivalenti. Non faremo quindi nessuna critica ad Edison Carneiro ma vogliamo semplicemente precisare che l’identificazione dei suddetti che egli ha reso popolare, non è valida che per la gente di una sola "nazione", mentre è ripudiata con indignazione ed ironia, secondo il temperamento dell’interlocutore, da tutti i miei informatori di origine Yoruba. Le nostre ricerche rimangono, fino a questo momento soprattutto critiche. Abbiamo visto ciò che gli èrè non sono: né degli Orishà, né dei figli di Shangò e neppure gli spiriti dei gemelli. Tutto quello che di positivo abbiamo appreso si limita a ben poche cose: ogni Orishà ha il suo

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èrè, che lo segue come un servitore accompagna il suo padrone durante i suoi spostamenti. Spostiamoci adesso sulla costa Africana e domandiamoci che cosa sono gli èrè nel loro paese ancestrale. Sfortunatamente ed è proprio ciò che Herskovits diceva: che la scoperta degli èrè costituiva il dono regale offerto dagli Afro-Brasiliani agli africanisti, colà non abbiamo trovato nulla di preciso e tutte le etimologie possibili che ci sono state date non sono che delle ipotesi di lavoro. Cominciamo da Herskovits: " La parola èrè è Yoruba, è un elemento dell’insieme di "piccole creature" conosciute come "ijimeré, èrè, egberè ecc. In tutte le società dell’Africa Occidentale e forse anche in altre regioni, il "popolo della piccola gente", che di solito vive nelle foreste, occupa un posto importante nei sistemi religiosi". Egli porta come esempi gli "Ashanti e gli Ibo", in cui le divinità sono accompagnate da una moltitudine di quelle "piccole creature", ma bisogna notare che gli Orishà degli Yoruba, fin’ora, non sono mai stati legati, da nessun etnografo, o per lo meno da nessuno che noi si conosca, agli spiriti ijimeré, eré, egberé ai quali il nostro autore allude. Comunque abbiamo una prima fonte possibile di informazione a questo proposito: la sopravvivenza in Brasile, del concetto di "geni" della foresta, rappresentati da piccoli uomini, tipo i Pigmei. Come abbiamo visto, questa possessione da parte degli èrè è così rapida nel caso delle transe cerimoniali che quasi passa inosservata per poterla osservare bene, a meno di non penetrare nella stanza dove si sta facendo l’iniziazione. Pierre Verger ha consacrato allo studio degli stati psichici che attraversano le future yauò, un’ importante trattato, uno dei rari studi che abbiamo circa la psicologia delle transe mistiche in Africa, tanto dimenticate quanto quelle dei Neri d’America avevano dato luogo ad una quantità di studi e ricerche. Egli scrive quanto segue: "Nel periodo che separa il giorno della resurrezione da quello in cui la novizia riceve il suo nuovo nome, costei sembra aver perduto la ragione, precipitata in uno stato di torpore e atonia mentale, ha dimenticato tutto, non sa più parlare o esprimersi se non per mezzo di suoni disarticolati. La novizia in questo stato è chiamata Omotun, bambino nuovo". Quanto affermato non fa ancora la necessaria chiarezza; la condizione di "bambino nuovo" si confonde con quella del torpore generale della ragazza o, almeno così sembra dal testo, oppure si deve fare una distinzione fra questi due stati di intermezzo? La descrizione del " Dei d’ Africa" è molto più chiara. Le condizioni di torpore e quelle infantili sembrano, in effetti, due cose distinte, anche se divise da una linea sottile. In ogni caso troveremo due termini, simili eppure differenti, per designare questi due fenomeni: oboutoun e omantoun: "Durante l’iniziazione la novizia cade in uno stato di stupidità, di atonia mentale, il suo spirito sembra svuotato, cancellati tutti i ricordi, tutto sembra dimenticato. I Nagos le definiscono con il termine oboutoun"; più avanti si legge: "Durante le cerimonie, quando il dio ha abbandonato con la transe il corpo della yawo, questa si comporta come una bambina di pochi anni d’età, ridendo senza una ragione, esprimendosi con parole infantili e passando dall’allegria alla noia... Dopo il Soundidè (cioè dopo il bagno di sangue) le novizie sono in quel certo stato che i Nagos dell’Africa chiamano con il nome di omantoun (bambini nuovi)". Naturalmente P. Verger confronta questo stato di omantoun con quello di éré a Bahia e aggiunge in una nota – è la nostra seconda etimologia - : " In Brasile certi Pae de Santo dicono che èrè è la contrazione della parola Ashiwere che, in Yoruba, significa pazzo". Io sarei molto portato ad accettare le conclusioni formulate da P. Verger. Non sono entrato che una volta sola nella camera delle iniziazioni, nel momento in cui le novizie erano in stato di èrè e questa visita mi aveva suggerito di confrontare i riti di iniziazione religiosa con i riti di iniziazione tribale, come scrissi in un mio libro riguardante le impressioni che avevo riportato durante un mio viaggio nel nord-est. Una delle caratteristiche di questi riti, mi ricordo, è il cambiamento di personalità che si manifesta in forma di un comportamento "infantile" di coloro che ritornano al villaggio dopo i mesi passati nel segreto della boscaglia e che agiscono e parlano come dei neonati. Allora io non conoscevo il termine omantoun, ma mi sembrava che i comportamenti infantili dell’iniziazione religiosa fossero qualcosa di sopravvissuto, in pieno Brasile, che si rifaceva ai comportamenti infantili dell’iniziazione tribale. Il segno di una metamorfosi della personalità: si era morti alla vita profana e si rinasceva come personalità religiose. Sono d’accordo in quanto ai fatti, ma tuttavia ripeto che questi comportamenti, in Africa, non sono chiamati èrè ma omantoun. Mi pongo quindi una domanda: perchè questo cambiamento di nome quando si sa quanto i Negri del Brasile siano fedeli alle tradizioni della patria dei loro antenati? Quanto annotato da P. Verger a fine pagina forse ci farà chiarezza:

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certi babalOrishà fanno derivare il termine èrè da ashiwere che significa "pazzo". E’ necessario aggiungere, per altro, un appunto critico fatto dal babalOrishà Cosme, con il quale avevo discusso sul termine èrè: non si deve confondere l’èrè con lo stato di "follia infantile" che ha luogo, di solito, durante le cerimonie di iniziazione. Sono quindi due cose completamente differenti. Allora? Tutto il castello viene ad essere capovolto? Non abbiamo la pretesa di aver fatto chiarezza completa riguardo a questo problema, tuttavia, confrontando le due etimologie di Herskovits e di P. Verger, possiamo dare la seguente interpretazione: gli Yoruba e i Fon distinguono già nei gruppi delle loro divinità quelle giovani e quelle vecchie o, in ogni caso, delle divinità "moderate" e delle divinità "violente". In una lettera che M. Theodore Monod mi aveva voluto gentilmente scrivere a questo proposito, c’era questa frase: "Si trovano, entro vari gruppi di divinità, elementi moderati e riflessivi i cui caratteri si possono facilmente riferire all’età e, per contro, altri violenti e vigorosi incaricati, ad esempio, di eseguire ordini dettati dal capo del gruppo di divinità che, sovente è descritto come il figlio più giovane di quel capo... Nel caso in cui il gruppo divino fosse la derivazione di un gruppo di personalità storiche, per esempio dinastie, questo potrebbe svelarci una gerarchia basata sull’età" (28 Novembre, 1947). Gli Africani fanno quindi una distinzione tra un dio violento e un dio moderato, salvo che quello moderato è il più vecchio. Il fenomeno che non può manifestarsi se non in condizione estatica, esiste anche a Bahia. Si aggiunge, però, un terzo elemento, per cui avremmo: dei anziani moderati – dei adulti violenti – spiriti infantili moderatori. Gli spiriti infantili nascerebbero dall’incontro di due fenomeni che interferiscono. Questo sarebbe il prodotto, nel pensiero di molti fedeli e forse anche di preti che, poco a poco, ne sarebbero condizionati, di una confusione "fonetica" di termini tra la possessione da parte degli "spiriti bambini" che provocano la semi transe, gli èrè o altri geni del bosco, con la "follia infantile" o Ashiwere, che segue lo stato di intontimento e che costituisce, per la ragazza che esce dal "bagno di sangue" un momento di stasi a riposo. Forse, in origine, la differenza fra questi due stati era più marcata, analogamente a quella che abbiamo trovato a S. Luiz do Maranhào tra la possessione da parte dei tokhueni, "divinità giovani", e la possessione da parte dei tobosa. Forse, in questo modo, se pure questa ipotesi sia ancora più "avventurosa", all’inizio erano soprattutto i figli di Shangò ad essere posseduti dagli èrè della foresta. A questo punto, solo delle ricerche più approfondite in Africa, potrebbero chiarire i nostri dubbi. A Bahia tuttavia, oggi come oggi, esiste l’idea che ogni Orishà abbia il suo èrè. Secondo quanto abbiamo potuto constatare, sotto una forma senz’altro diversa dovuto alle differenti origini etniche, nella "Casa Grande das Minas", ogni vodoun maschio aveva il suo tobosa. Siamo quindi di fronte a dei fenomeni, se non proprio della stessa natura, per lo meno assai vicini. In Brasile ogni dio africano è accompagnato dal suo Eshù e dal suo spirito infantile. Il compito di Eshù è quello di aprire il cammino all’Orishà, di metterlo in contatto con il suo fedele come pure di fargli giungere le sue preghiere e i suoi desideri; egli è il suo messaggero fedele. Il compito dell’ èrè è quello di rendere "più soave", come dicono a Bahia, le relazioni della yauò con il suo Orishà, di difenderla contro la brutalità delle ire divine, troppo improvvise e intense, di "moderare" gli ardori della transe. Secondo Raymundo di P.A.B., che è l’unico informatore che ci ha dato questa interpretazione, anche l’ èrè avrebbe il suo Eshù. Forse questo informatore ha generalizzato per mancanza di sicure conoscenze sulle tradizioni degli Orishà e degli èrè, questi ultimi non sono degli dei, ma degli spiriti inferiori. Bisognerebbe che, per avere ogni èrè il suo Eshù, quanto affermato da A. Ramos fosse vero e cioè che gli èrè sono figli di Shangò; però, secondo tutti i membri consultati dei Candomblè, questa versione non è accettabile. Lasceremo quindi da parte l’affermazione di Raymundo come fosse un’opinione più personale che generalmente accettata, almeno fino a prova contraria. Lo studio dell’estasi mistica, nella misura in cui è solamente l’interiorizzazione dei miti, forzatamente ci porta a complicare il concetto che ci eravamo fatti degli Orishà nel capitolo precedente. Infetti non si può parlare unicamente di Orishà, ma del complesso Orishà – Eshù – èrè, una triplicità mitica. Ne vedremo quindi, qui di seguito, le conseguenze facendo un’elaborazione della antropologia africana.

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CAPITOLO VI - L’UOMO RIFLESSO DEGLI DEI Non è soltanto la danza estatica delle figlie degli dei nelle notti musicali di Bahia che riflette il mondo dei miti, è l’uomo tutto intero che simbolizza così nella sua vita come nella struttura fisica, il divino. Come abbiamo visto, dalla sua nascita alla sua morte, la sua esistenza è avvolta in una trama di avvenimenti che sono le “parole” degli Orishà che comunicano attraverso la mediazione di Ifa o di Eshù, di modo che si potrebbe tracciare la biografia di ciascuno di noi attraverso le linee parallele degli odu. Abbiamo pure visto che la società si forma per mezzo della comunione degli individui e delle divinità, nell’acqua delle erbe e nel sangue. Per concludere la nostra descrizione del mondo del Candomblè è necessario studiare un po’ più da vicino questo gioco di riflessi. Sfortunatamente il pensiero africano ha subito, nel suo passaggio dall’Africa all’America, delle perdite e delle metamorfosi. Non ci restano quindi che dei frammenti di questa concezione dell’uomo, in quanto simbolo del divino, frammenti spesso ricomposti in modo maldestro fra di loro per mezzo di legami influenzati dalla filosofia cattolica dell’ambiente brasiliano. -ILa creazione del mondo si riconduceva, in fondo, all’incontro sessuale fra il cielo e la terra, senza che fosse possibile chiarire dove, in quest’unione, erano i due principi maschile e femminile, dato che Obatalà e Ododua cambiavano di sesso a seconda delle regioni. In realtà questi equivoci sul sesso delle due divinità primordiali lasciano intravedere un’idea più arcaica, quella di Oshalà come divinità androgina. E così il mito che prende forme diverse spiegando il perché e il percome il cielo si sia separato dalla terra per elevarsi sempre più in alto, è più una genesi che un’apocalisse, è il dramma della rottura. L’uomo ha così perduto il suo gemellaggio e deve, da allora, ritrovare l’unione dei due principi, maschio e femmina, nella ricerca del suo doppio sessuale, cioè l’unione matrimoniale. Solo che questo matrimonio non si può fare che con la rottura, essendo stato tagliato il “cammino” che unisce i due componenti; e questo avviene per mezzo dell’atto sessuale; con l’intervento di Eshù poiché é lui che, anche qui, gioca il suo ruolo di “legare” ciò che è separato, ruolo che già gli abbiamo visto compiere nel cosmo. Da qui l’idea che questa sia una divinità fallica; l’Europeo che ne parla lo fa sempre guardando al di là del suo pensiero, tutto quello che il cristianesimo ha messo in lui di turbamento e senso del peccato. Il fallo eretto di Eshù non significa altro che la riscoperta del cammino interrotto a causa della separazione del cielo e della terra. E’ un principio di ordine umano, riflesso dell’ordine cosmico, non un principio di disordine morale, riflesso della degradazione dell’uomo. Ed ecco perché, a Bahia, prima del matrimonio, non basta fare dei sacrifici agli antenati, o domandare il loro benevolo appoggio, ma un sacrificio bisogna prima farlo ad Eshù per supplicarlo – e queste sono le esatte parole dei Neri di Bahia – di “aprire il cammino”. Il popolo usa un’altra espressione, ben significativa, quando una giovane è deflorata: “San Pietro deve essere contento”. E’ sufficiente pensare che San Pietro è il guardiano della porta del cielo e, per questa ragione, viene spesso accomunato a Eshù, dato che in questa frase cara ai Neri di Bahia, scopriamo le stesse idee sottintese. Eshù presiede dunque all’atto sessuale ma non alla fecondazione. Egli apre solamente la strada, pur non essendo solo questo il suo compito. Come ricordiamo Eshù è unito a Ogun che, tagliando le liane e disboscando, domina le strade del mondo. Così ritroveremo questa coppia divina nel matrimonio. Dopo il sacrificio ad Eshù e due mesi esatti prima della celebrazione delle nozze, si fa un secondo sacrificio, questa volta per Ogun, “che ha cura delle strade”. Si dovrebbe insistere per chiarire questo punto, visto che gli etnografi, basandosi sul carattere fallico di Eshù, o più ancora di Legba, hanno la tendenza a farne un dio lubrico. Certamente il fallismo continua ad esserci in Brasile: ad esempio quando le pietre delle diverse divinità giacciono adagiate sui piatti del pegi, la pietra di Eshù Bara è sempre in piedi e, se Eshù è

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rappresentato da una statuetta di terra bagnata di olio e di sangue, cosa assai frequente, essa è messa dritta sopra il vaso che la contiene. Mi diceva una Ialorishà che solamente quando una figlia di Eshù muore se il suo Eshù era di pietra, questa veniva abbattuta. Ribadiamo ancora una volta che questo elemento fallico non ha niente di lubrico ma, al contrario, “aprendo il cammino” tra i sessi, il dio non fa altro che ristabilire l’ordine che era stato distrutto all’inizio del mondo. Ecco la sua missione: permettere la creazione ma non creare. La prova è che nel momento del parto Eshù fugge spaventato, assolutamente nauseato e non ritorna che 16 giorni dopo. Questo significa, forse, che, per i Neri di Bahia, l’uomo non può avere relazioni sessuali con la donna se non 16 giorni dopo il parto. La creazione del bambino, lo sviluppo del feto nel ventre della madre, dal momento della fecondazione a quello del parto, appartengono a Oshalà. In Africa troviamo due idee diverse, secondo gli etnografi: alcuni mettono la creazione del bambino sotto il segno di Ifa, altri sotto il segno di Oshalà. E’ forse necessario distinguere tra il momento della fecondazione e lo sviluppo del feto. Comunque sia la differenza, a Bahia non si discute a questo proposito: tutti i Negri sono d’accordo nel fare di Oshalà il dio della creazione. Eshù, per mezzo dell’atto sessuale ha ricongiunto la coppia primitiva Obatalà-Odudua, ha ricongiunto le due metà della zucca, il che permette la formazione del bambino. La creazione dell’uomo ripete dunque la creazione del cosmo e obbedisce alla medesima legge. Anche Oshalà prova lo stesso disgusto di Eshù di fronte al travaglio del parto e se ne va per 16 giorni, prima di poter ritornare a riprendersi il suo posto nel corpo della donna. I concetti religiosi africani si sono quindi conservati con grande purezza a Bahia, il che non vuole dire che il matrimonio e la nascita del bambino non seguano le prescrizioni dell’ambiente brasiliano. C’é un sovrapporsi di due civiltà più che una lotta tra di loro. Il marito vive con la moglie come una “compagna”, senza passare dal prete, senza fare iscrivere la sua unione sui registri dello stato civile, secondo l’usanza delle classi povere brasiliane – o, se si tratta di gente più ricca, di fare benedire il matrimonio in chiesa. Allora si farà anche il battesimo del bambino e si avrà cura di sceglierli un buon “padrino” che potrà essergli utile nella vita, esattamente come fanno i Brasiliani bianchi o i creoli. Contemporaneamente si praticheranno altri rituali, come comanda il Candomblè di cui fanno parte. Ciò che a noi interessa adesso è sapere se questi atti rituali sono ancora simboli della vita degli Orishà. Come abbiamo già visto il matrimonio richiede dei sacrifici preliminari a Eshù e a Ogun, esempio la visita alle tombe degli antenati, ma non è tutto. Ci sono dei matrimoni proibiti e altri preferenziali, ma, in entrambi i casi, non sono le regole di parentela che contano in Brasile, bensì delle norme mistiche. In Africa, dove gli Orishà sono considerati gli antenati del clan, le norme mistiche possono ben essere identificate con le regole di parentela. In Brasile, la schiavitù ha distrutto i clan per sostituirli con famiglie spirituali, i Candomblè. Sicuramente l’esogamia potrebbe qui assumere la forma di divieto di celebrare matrimoni tra fedeli di uno stesso terreiro, poiché questo sostituisce il clan. Questo è quanto sembra credere Frazier nel suo studio sulla famiglia africana di Bahia. Se così fosse allora l’esogamia avrebbe potuto cambiare per conservare un carattere puramente sociologico. Non è così, Frazier ha fatto confusione: l’esogamia non ha a che vedere con i membri del Candomblè, ma tra i figli degli Orishà e questo vuole dire che non si possono effettuare matrimoni tra due membri che abbiano lo stesso Orishà. E’ per questo che, prima di maritarsi è necessario che tutti i Neri vadano a consultare il babalaò, per sapere quali sono gli Orishà dei futuri congiunti. Uno dei miei informatori mi spiegava che il numero delle coppie separate stava aumentando, che molti erano i matrimoni infelici, palcoscenico di dispute a non finire circa l’andamento famigliare e che questo era dovuto alla diminuzione della fede africana, alla negligenza di coloro che, desiderando costruirsi un nuovo focolare, non andavano, per prima cosa, a consultare le conchiglie, per cui, alla fine, molti, se pur incoscientemente, commettevano il

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peccato di incesto. Tutti coloro che hanno lo stesso Orishà come protettore si considerano, in effetti, fratelli e sorelle e così si chiamano fra di loro, non possono quindi avere rapporti sessuali senza rischiare di attirarsi addosso la collera degli dei. Anche se la regola dell’esogamia è stata rispettata, non è ugualmente bene sposarsi se, sia il fidanzato che la fidanzata hanno un Orishà maschile o un Orishà femminile. Un Babalorishà di Recife mi spiegava che questi matrimoni possono provocare nei congiunti delle tendenze omosessuali o, più generalmente, delle tendenze viziose, per lo meno in uno dei due partner. Si può quindi concludere che il matrimonio sarà tanto più felice quanto più rifletterà l’armonia mitica delle divinità e tanto più infelice se provocherà su questa terra la collera, l’odio e le lotte degli Orishà. A Bahia si considera che Oshalà abbia due mogli: Nanan Buruku che gli ha dato Omolù, Lòko e Oshummaré come figli e Yemanjà da cui ha avuto gli altri principali Orishà. I sacerdoti non sono sempre d’accordo sullo stato civile di quest’ultimi, ma sicuramente considerano Oshossi e Ogun come dei celibi, sotto il pretesto che sia i cacciatori che i fabbri formano delle caste e che, in ultima analisi, il successo della caccia o della fusione dei minerali sia basato sulla continenza di coloro che si dedicano a queste attività. Altri, invece, li considerano sposati: Ogun a Yansan, Oshossi a Oshum. Omolù, da parte sua, sarebbe stato lo sposo di Obà. Shangò, che è il super maschio di questa mitologia, avrebbe loro portato via queste tre mogli, per cui è rappresentato come il marito, poligamo, sia di Yansan che di Oshum e Obà. Da quì l’origine delle lotte che egli ha dovuto sostenere contro Ogun, Oshossi e Omolù. Le dispute non avvengono solamente tra Orishà dello stesso sesso, per esempio tra Shangò e Ogun o tra Yansan e Oshum che competono per acquistarsi l’amore del comune marito, ma anche tra una divinità maschile ed una femminile, per esempio tra madre e figlio, Yemanjà e Shangò, o tra il marito infedele e la moglie gelosa, Shangò e Obà. L’uomo, sposandosi, “ricrea” sulla terra l’antica storia di queste lotte o di queste armonie; che lo voglia o no, egli rappresenterà, una volta ancora, il dramma del leggendario passato. E’ per questo che, oltre ai matrimoni proibiti, esistono quelli permessi, cioè quelli che rispettano la legge dell’esogamia ma che, comunque, non sono felici, non possono “riuscire bene” come quelli tra un figlio di Shangò e una figlia di Yemanjà, mentre altri li chiamerei “preferenziali” e ideali come quelli tra un figlio di Shangò e una figlia di Oshum. Quando l’amore, però, nasce fra due esseri, poco ci si preoccupa dei miti, così accade a Bahia, come in qualsiasi altra parte del mondo, e due persone che desiderano vivere assieme, non dovrebbero invece farlo. In questo caso, siccome la passione non intende ragione, esiste una valvola di sicurezza da prendere in considerazione: cambiare l’Orishà della propria testa. Generalmente è la fidanzata a sostituire il “maestro del suo ori”, o scegliendo uno degli dei che “ accompagna” il primo, come dicono a Récife, o una di quelli che “appartengono alla stessa famiglia”, come dicono a Porto Alegre. Purtroppo non abbiamo informazioni su questo cambio di Orishà ( troca do santo) e pensiamo che raramente questo si verifichi. Quando la coppia ha fatto un figlio il battesimo cattolico non è sufficiente, poiché non fa altro che introdurre il nuovo nato nel mondo brasiliano; è necessario quindi incorporarlo al mondo africano. Silva Campos ci ha descritto la cerimonia di questo battesimo africano, tale quale si praticava, per lo meno, qualche anno fa: “Si tratta di una cerimonia semplice, praticata dal pai o la mai de santo. Una larga scodella contenente un infuso di foglie aromatiche serve da fonte battesimale e, con quel liquido, si lava la testa del neonato. Questi riceve allora il nome del suo dio protettore e anche la collana di perle consacrate alla sua divinità, come simbolo del suo angelo custode”. La descrizione, come si vede, presuppone un rito anteriore, di cui Silva Campos non ha parlato, ma che continua tutto oggi: la visita al babalaò per sapere, giustamente, il nome dell’Orishà protettore. Questa visita non può effettuarsi che dopo un determinato numero di giorni dalla nascita poiché l’Orishà non giunge subito dopo il parto (in Africa arriva tre giorni

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dopo; a Bahia non sembra che ci sia una data precisa per questo ritardo, almeno per quanto ne sappiamo noi). Il modo in cui il bimbo ha visto la luce del giorno ha una grande importanza per la designazione del suo futuro “angelo custode “. Ad esempio: chi nasce con il cordone ombelicale attorno al collo appartiene a Oshoguian, chi nasce storpio è di Oshalà, ecc. Tutto questo non è ancora sufficiente perché è necessario procedere ad una verifica ulteriore con l’aiuto della collana di Ifa, altrimenti alle conchiglie di Eshù. Tuttavia questo Orishà è ancora una divinità latente più che inserita nella “ sua testa”. Per confermarla ci vorrà il rituale dell’iniziazione, quello che abbiamo studiato nel nostro primo capitolo. Per questo l’individuo dovrà avere raggiunto l’adolescenza o, anche, la maturità. Solo i bambini di Inle devono essere iniziati, mi hanno detto, quando ancora prendono il latte dalla madre. In questo caso la madre deve assistere a tutto il rituale, forse anche (ma non lo posso affermare con sicurezza), sostituirsi al suo bambino per una parte del cerimoniale. In ogni modo, l’iniziazione deve essere considerata come una seconda creazione. Di conseguenza dobbiamo ripetere quello che già abbiamo detto precedentemente a proposito della fecondazione e il parto. Si tratta di cominciare, come per il matrimonio (il termine yauò che prenderà la novella serva degli Orishà nonsignifica forse anch’esso “sposa”? ), con un sacrificio a Eshù, che apre le strade, e un omaggio agli antenati. Abbiamo anche mostrato come tutto il lungo rituale di iniziazione si faccia sotto il segno di Oshalà, dio della creazione. Solo quando la persone è nata due volte, quando riceve il suo doppio nome, quello profano e quello sacro, diventa veramente membro della confraternita, figlio o figlia del Candomblé. Durante questa seconda creazione la famiglia di sangue non ha più alcun ruolo. Un Babalorishà, in effetti, non può “fare” i suoi figli e nemmeno i suoi propri “fratelli”. Così mi diceva un sacerdote di Bahia: “ non si può essere allo stesso tempo padre carnale dei propri figli e il loro padre spirituale”. Le due creazioni appartengono a piani differenti che, forse, corrispondono alle due anime, l’una opera del padre carnale e l’altra dell’Orishà che sarà “fissato” dal padre spirituale. Durante il mio ultimo viaggio a Bahia ho lungamente discusso a questo proposito con un Babalorishà che stava facendo iniziare sua figlia nel Candomblè dei Gantois e non nel suo proprio terreiro. L’esempio più conosciuto è quello riportato dal Padre Adam a Récife. Egli si rifiutava di “fare” suo figlio poiché era figlio del suo sangue e, siccome d’altra parte, egli si considerava il solo vero Africano della sua città natale, non lo fece “fare” da nessuna altra setta, visto che, per le altre sette, non nutriva nessuna fiducia. Quando costui morì, gli successe una delle sue figlie spirituali Joana Batista e suo figlio non ebbe che una posizione secondaria. Questo fatto diede luogo a molte situazioni drammatiche nel destino di questi due esseri. Ciò che abbiamo detto a proposito della famiglia di sangue vale anche per la famiglia coniugale, visto che i rapporti sessuali sono considerati un incrocio di sangue. Così un Babalorishà non potrà mai “fare” sua moglie, così come non potrà mai “fare” suo figlio. Il Candomblè stesso, in quanto raggruppamento umano, è un’immagine della società divina. Le relazioni che intercorrono tra i suoi membri non fanno che riflettere le relazioni che già esistono fra gli Orishà. Le ekedy o yaba, ad esempio, che, a Récife, sono incaricate, nel corso delle cerimonie, di servire una figlia degli dei, asciugarle il sudore e aiutarla nelle sue crisi convulsive, non sono scelte a caso ma secondo le regole di parentela o matrimoniali degli Orishà. Per esempio, ad una figlia di Shangò si darà, come ekedy, una figlia di Yansan o viceversa, di modo che i rapporti tra l’una e l’altra si svolgano sempre in un reciproco clima affettivo. Anche una ekedy di Yemanjà può essere scelta per Shangò, poiché una madre è sempre pronta a dare i suoi servigi e ad aiutare i suoi amati figli. Per contro si farà ben attenzione a non accoppiare degli Orishà che non hanno buoni rapporti come Ogun e Shangò affinché i loro personali contrasti non si intromettano come fattori di disturbo nel santuario. Ciò che abbiamo appena detto a proposito delle ekedy, vale anche, come vedremo, per gli “ogan e gli oba”, solo che questi sono legati a delle figlie dei loro stessi Orishà; pure in questo

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caso si obbedisce alla stessa concezione della società divina, per quanto sotto un altro aspetto, cioè quello secondo cui ogni divinità é frammentata in varie molteplici manifestazioni: dalla differenza di età, all’avere per capo un membro della coorte. Come in tutte le società, anche nel Candomblè esistono gelosie e dispute interne. I Babalorishà e le Ialorishà devono fare appello a tutta la loro autorità per mantenere il gruppo unito e l’armonia tra i diversi membri della confraternita. Le relazioni interumane sono comunque sempre state modellate secondo uno schema fedele a quelle interdivine, allo scopo che l’ordine non venga mai troppo compromesso. Altri gruppi, tuttavia, possono esistere all’interno del santuario. Uno lo abbiamo già segnalato per via della sua celebrità ed è quello dei 12 ministri di Shangò a Opo Afonjà, per quanto non sia l’unico esistente. Alvaro Mac-Dowell, figlio di una delle figlie degli dei di Gantois, nella critica che ha fatto sul libro di Pierson “Bianchi e Negri a Bahia”, si oppone indignato all’affermazione di questo autore che dice che “Opo Afonjà” è stato il primo Candomblè a formarsi in società: “E’ sufficiente affermare che il terreiro di S. Gonçalo (nome profano di Opo Afonja) non aveva ancora una società che già esisteva a Gantois quella di – Ebé Ochossi”. MacDowell ha perfettamente ragione. I 12 ministri di Shangò esistono solo da qualche anno per opera di Martiniano de Bomfim, ritornato dal suo viaggio in Africa. Il Gantois, che è il più vecchio Candomblè di Bahia, è stato fondato da due Africani che erano legati a Oshossi e che hanno portato nella loro nuova patria l’associazione conosciuta a Abeokuta sotto lo stesso nome di Egbè (Egbè Oluri Ode), composta da cinque grandi capi, sei cacciatori e sei assistenti (vale a dire sei dignitari di destra e sei di sinistra). Quello che a noi soprattutto interessa di queste società è che sembrano obbedire, come nella genealogia degli Orishà, ad un certo simbolismo riguardo ai nomi. Sfortunatamente non abbiamo nessuna informazione sulle ragioni per cui 12 ministri siano stati scelti per Shangò mentre per Oshossi il numero sia di 17. Se guardiamo a quello che succede in Africa, vedremo che la corte dell’ “Oni” comprende 17 prelati o patriarchi, che le società dei bambini hanno 13 dignitari, che l’ufficio amministrativo di Balè è composto da 11 membri e che le “jalodè” delle donne hanno 6 assistenti. Non riusciamo a comprendere la ragione di queste cifre differenti, salvo per gli “obà” che sono 12, numero tradizionale di Shangò. Joào do Rio dice di aver trovato nella capitale Brasiliana un certo numero di Negri che si sono fatti tatuare sulla pelle dei simboli delle loro divinità: l’ascia di Shangò, l’arco di Oshossi, o il cuore amoroso di Oshum, eppure non è necessario che gli uomini del Candomblè ricorrano a queste decorazioni degli ashè simbolici sul proprio corpo, poiché essi stessi sono simboli viventi dei loro Orishà. Le loro vite e avventure quotidiane sono, in larga misura, delle avventure mitiche degli dei africani. - II Il riflesso di cui noi stiamo parlando non e’ un semplice riflesso di specchi ma suppone una realtà più profonda, la partecipazione. L’uomo copia il comportamento degli dei in quanto è partecipe del loro carattere e poiché un po’ della loro essenza divina è penetrato nella sua testa, tutto questo non può non avere una conseguenza in quello che si potrebbe definire antropologia africana. Dall’esempio di Kant, noi abbiamo l’abitudine di separare radicalmente il giudizio secondo il valore o secondo la realtà. C’è una gerarchia di valori ma non di esseri. O si è o non si è. Tra l’essere e il non essere non esistono possibili graduazioni o intermediari. La filosofia medievale invece aveva introdotto vari gradi dell’essere, dal Dio, perfezione assoluta, all’essere delle cose

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materiali. Si “è” più o meno. Questa è una filosofia analoga alla concezione che i Neri hanno della personalità umana. L’esistenza si confonde con la potenza e ogni potenza viene dagli dei. I diversi rituali di cui abbiamo parlato: Il lavaggio della collana, il “mangiare della testa” e l’iniziazione, non fanno che far partecipare sempre più profondamente l’essere umano alla natura e alla forza degli Orishà e, di conseguenza, a permettergli di acquistare sempre più capacità di esistere. Questo incremento del proprio essere si manifesta nella ventura di avere fortuna, salute, prosperità negli affari o successo in amore. Questa caratteristica è una caratteristica africana. Bascom, analizzando il concetto che gli Yoruba hanno delle differenze individuali, riconoscono che la fortuna non è una qualità impersonale, una conseguenza del caso o di circostanze fortuite ma che è legata alla molteplicità delle anime o degli dei personali, alla eleda o angelo custode e all’olori il “maestro della testa”; i termini inpiegati per designare le persone che hanno fortuna e coloro che non ne hanno sono: olori o eleda rere, olori o eleda buruku e mostrano che quella che loro considerano fortuna non è quella che consideriamo noi, ma una benedizione divina, una conseguenza della partecipazione all’essere della divinità. Ancora ricordo la gioia con la quale una venditrice ambulante di Bahia, incontrata per strada mentre era intenta ad offrire agli avventori dei dolcetti saporiti e croccanti fritti nell’olio di palma, mi abbracciò al venire a sapere che io ero un figlio di Shangò, dunque suo fratello: “Shangò è un maschio, è forte! Nulla ormai ti potrà accadere di male”. Ella non considerava più se stessa come una diseredata, malgrado la sua povertà, la sua vita di lavoro e la sua condizione sociale, ma si riteneva certamente superiore a molte altre persone, più ricche o più conosciute, che le passavano davanti per strada. Quella donna, per mezzo di Shangò, si sentiva più pienamente viva di loro. Qui potremmo riconsiderare la celebre distinzione tra l’essere e l’avere. Quelle persone che le passavano davanti potevano aver accumulato beni, titoli e stato sociale elevato, ma non avevano accumulato che dei beni; sotto questo pesante fardello erano privi di forze. Il male, secondo questo concetto, è una diminuzione dell’essere, che lo morde per strappargli golosamente dei bocconi di esistenza, essendo, allo stesso tempo, il segno esteriore di questo indebolimento. La malattia deprime, toglie il gusto della vita, lascia il corpo senza forze e l’anima senza desideri. L’infelicità rende folli o tristi, abbatte sia fisicamente che moralmente e getta in uno stato di prostrazione. Gli incubi notturni opprimono e l’infelicità distrugge. Tutto ciò deriva dal fatto che il vostro essere sta perdendo la forza che la partecipazione intima con gli Orishà gli aveva donato. Sia che questa partecipazione sia stata interrotta a causa della violazione di un tabù, per la negligenza rispetto a un qualche dovere religioso, sia che questa partecipazione abbia subito l’azione distruttiva del tempo. Così come è necessario lavare ogni anno le pietre degli Dei con un bagno di erbe o di sangue, così bisogna lavare, di tanto in tanto, la testa (o, al posto della testa, la collana che si porta attorno al collo), per rinnovare il “mana” che si sfalda ed è necessario farlo soprattutto quando le disgrazie bussano alla vostra porta o vi assale la malattia. Meglio non si può dimostrare che l’essere dell’uomo non è una semplice imitazione o ripetizione dell’essere dell’Orishà ma che si tratta di una vera divinizzazione. L’abbarbicamento dell’uomo al tronco divino. Lo stato sociale all’interno del Candomblè, non significa soltanto, o soprattutto, una gerarchia di diritti, non si usa definirlo più, come i sociologi hanno l’usanza di farlo oggi giorno, ossia come un insieme di “ruoli”, la semplice esclusiva di certi incarichi, di poteri prestabiliti e accettati dalle persone subordinate e neppure di norme istituzionali. Si tratta dell’immagine del posto occupato nella scala dell’esistenza. Lo status più o meno alto si manifesta, senza dubbio, esteriormente, con il potere, il comando e l’autorità sugli individui di condizione più bassa, ma questa autorità non è che l’irradiazione dell’essere o, meglio ancora, del grado di essere che l’Orishà ha nella persona.

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Il lavaggio della collana, l’ obori aumentano la forza della divinità, ma la lasciano agire nell’inconscio ed è per questo che la condizione di ekedy o di ogan rimane uno status subordinato. Tuttavia il rispetto che si deve loro, non è diretto specificatamente alla loro persona ma va, attraverso di loro, al “padrone della testa”. Se, dall’altro lato della gerarchia, il Babalorishà o la Ialorishà comandano la confraternita, vuole dire che essi sono costantemente in contatto intimo con il mondo divino, poiché rappresentano il grado più alto dell’esistenza. E’ questa l’avversione violenta che dimostrano i capi dei Candomblè tradizionali contro i Babalorishà “fatti in piedi”, cioè senza essere passati attraverso i rituali dell’iniziazione e il lento maturare dell’Orishà dentro se stessi. E’ certo che questi “clandestini” come ancora sono chiamati, possono avere delle qualità di comando, essere dei “leaders” e ne conosciamo almeno uno che, senza ombra di dubbio, le possiede, ma la sua sociologia non si basa sull’ontologia e il suo potere non ha alcun fondamento. La gente in generale considera la gerarchia dal punto di vista delle possibilità offerte alla persona. Lo stato sociale è stabilito, prima di tutto, dal numero di licenze permesse. Noi siamo così abituati a pensare che la libertà sia il bene più prezioso che consideriamo le persone più in alto, socialmente parlando, come coloro che possono permettersi tutto quello che a noi è proibito, bloccati come siamo in una condizione sociale di legami e impedimenti. Risalire la scala sociale è acquistare progressivamente dei nuovi reali diritti: diritto alle comodità, a nuovi piaceri, al non far niente se non ci va di lavorare... Siamo, in verità all’opposto del concetto di vita africano. Il posto occupato nella gerarchia del Candomblè o della società africana in generale, è contraddistinto da una minor quantità di “licenze” piuttosto che da una totale assenza di “limitazioni”. Più l’individuo sale nella scala sociale e più è tenuto a sottomettersi a delle norme obbligatorie, che variano incessantemente di numero, e che restringono la sfera dei suoi possibili comportamenti. L’uomo che occupa il posto più alto è anche quello con più tabu, che ha più obblighi e che è più oberato dalle catene dei rituali imposti. E’ vero che i titoli sono prima di tutto degli “incarichi” ma si deve dare a questa parola “incarico” il suo senso etimologico, cioè di qualcosa pesante da portare, di qualcosa che gravita addosso... Quest’ultimo fatto è quello che causa, come abbiamo visto nel caso del babalaò, il periodo di crisi che sta passando il Candomblè. Le nuove generazioni conoscono il prezzo e l’ebrezza della libertà, sanno bene quanto sia gradito fare ciò che si vuole, ciò che più piace, sempre stando attenti a non offendere il prossimo, ben inteso, e si rendono conto che entrare in un terreiro può comportare molte restrizioni e degli obblighi sempre più rigorosi. Così i giovani esitano, cercando un compromesso tra l’inseguire i propri sogni di vita facile e piacevole e restare fedeli alle tradizioni e non cercano neppure di migliorare troppo il loro stato sociale o sviluppare il proprio essere. La gerarchia dei Candomblè comporta più doveri che diritti. Non neghiamo che esistano anche situazioni di privilegio come quelle dettate dal cerimoniale dell’educazione, come il bacia mano, nella dobale, nella richiesta di benedizione, in ginocchio, davanti alla Ialorishà, nel diritto di soccorrere la “shere” di Shangò, di sedersi, durante le feste, in posti privilegiati ecc... Questi cerimoniali assai complicati seguono esattamente le linee di gerarchia, agli oba della sinistra non è permesso fare i gesti che invece sono autorizzati, quando non obbligatori, ai dignitari della destra; se l’ ogan presiede alla grandi cerimonie pubbliche seduto su di una determinata “sedia”, che si rifà alla complessa cultura africana del trono in pieno Brasile, quella sedia sarà esattamente una che è stata fatta espressamente per lui e, di conseguenza, ha la stessa età del suo ingresso in carica come ogan; il Babalorishà, invece,presiede alle cerimoni seduto sulla poltrona che è stata usata dai fondatori del santuario e che non è solamente più bella o confortevole, ma che ha una ben diversa sacralità. Quando una figlia degli dei di un altro santuario renderà visita ad un Candomblè in festa, sarà baciata prima sulla guancia destra e poi su quella sinistra dalle figlie del terreiro, dopo che

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queste ultime sono cadute in possessione nel corso delle loro danze estatiche; ma se a entrare è un sacerdote, allora i tamburi suoneranno , in suo onore dei canti appartenenti alla sua “nazione” ed arriveranno pure, se la “nazione” dell’ospite lo esige, ad invertire le loro abitudini per esempio: usando le dita al posto delle bacchette per suonare i tamburi. Questi privilegi hanno, tuttavia, una contropartita, e cioè un maggior numero di doveri, acquisiti insieme ai detti privilegi, nei confronti dei loro “fratelli del “terreiro e dei loro Orishà. I privilegi si manifestano soprattutto durante i raduni nel corso delle cerimonie religiose, come intime connivenze con gli dei, ma nella vita di tutti i giorni sono le responsabilità che predominano. Ritroveremo qui la legge della compensazione o, se si preferisce, del “do ut des”. I Babalorishà possono chiaramente apparire dei “gran signori” e le Ialorishà delle “gran dame” ai visitatori stranieri, ma questo non è per nulla segno di arroganza. L’essere in posizioni superiori ha, come contro partita, un maggior dovere di essere a disposizione delle comunità che essi presiedono. L’importanza ottenuta si comunica sotto forma di forza a quelli che si trovano in posizioni subalterne. Certi Bianchi hanno voluto vedere nei Candomblè delle “orgie”; ma è piuttosto un’ “etica. L’aumento del grado sociale non significa un’interruzione della solidarietà ma, al contrario, esso ne rappresenta la base più solida. La comunione non può esistere, in effetti, senza l’intervento, il controllo e la direzione del sacerdote e si basa sul cerchio di coloro che hanno raggiunto i gradi superiori dell’esistenza, per mezzo dell’intimo e quotidiano contatto con la forza degli Orishà. Il privilegio non è dunque mai un fenomeno strettamente sociologico, un simbolo collettivo, ma una definizione dell’essere. Per possederlo senza danno, ci vuole il necessario potere mistico, altrimenti la malattia, l’infelicità e la morte potrebbero colpirela persona. Il fatto di sedersi su di una od un’altra sedia, di soccorrere lo “shere” o di portare l’ “ashé” di Shangò non sono gesti privi di pericolo se non si è acquisito in precedenza una profonda partecipazione con l’Orishà che rende possibile il gesto. D’altra parte questa partecipazione non è un bene speciale poiché è già quella particolare sedia che determina l’ordine della festa, il muoversi delle “shere” o dell’ “ashé” spruzzato in segno di benedizione su tutti i presenti. Il dono ( il diritto a questo o a quell’onore) esige necessariamente ed automaticamente un dono in cambio (ricoprire tale posizione onorifica a beneficio della collettività) che non sappiamo definire come privilegio od obbligo. Si tratta, in fatti, sia del diritto che del contrario di una stessa realtà. Fino ad ora non abbiamo parlato che delle responsabilità all’interno della confraternita, ma, ancora più importanti forse, sono le responsabilità verso gli Orishà. Questi esistono solo nella misura in cui sono adorati e in cui ricevono alimenti per fortificarsi, come il lavare le loro pietre con il sangue degli animali sacrificati, per potersi incarnare nei loro cavalli. Un dio che non “monti” più è già un dio che sta scomparendo; si dice che se ne sia ritornato in Africa. Qui si vede il significato del dono e di quello in cambio. E’ l’Orishà che dona, o crea, l’essere, ma l’Orishà, a sua volte ha bisogno di quell’essere. Si potrebbe definire, in certo modo, il fenomeno religioso come un fenomeno di scambio e cioè: che non c’è possibilità di solidarietà senza l’interscambio, senza le prestazioni reciproche e che la solidarietà religiosa ( quella dell’uomo con il sacro) non fa eccezione alla regola. - III Questo principio di separazione va di pari con quello di riflesso simbolico e di partecipazione. Insieme all’Orishà l’uomo, in effetti, ha uno spirito personale, che lo pone in un mondo a parte, distinto da quello divino. Arriviamo quindi alla parte più delicata di questo capitolo, a causa dei vuoti che si sono verificati oggi nella memoria degli Africani di Bahia, vuoti che si sono colmati di idee non tradizionali causate dal cattolicesimo del paese o, anche allo spiritismo: lo studio strutturale dell’individuo.

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A questo proposito abbiamo a disposizione due pubblicazioni: quella del padre Frikel per Bahia e quella di René Ribeiro per Recife. La prima più completa ma, per certi versi più discutibile; la seconda, più valida, anche al di fuori di Recife, ma più corta. Altre informazioni frammentarie le abbiamo prese da diversi libri che trattano questo argomento ma in modo frammentario ed, infine, attraverso informazioni personali. Purtroppo, spesso, tutte queste informazioni sono contradditorie poiché i Neri hanno quasi del tutto dimenticato quello che non è strettamente legato a un rituale e che si sono lasciati influenzare da idee estranee alla mentalità africana. Di quello che ha scritto il Padre Frikel è importante quello che dice a proposito della distinzione tra il dio della testa e lo spirito o, in altri termini, tra l’ Orishà e l’èini. L’Orishà è un “santo”, un “affascinatore”, in breve, un essere esteriore trascendente all’uomo anche se lo può possedere; l’èini no; fa parte della natura, è una specie di “vento”, noi diremmo un “soffio”. Il bambino, nascendo, viene al mondo con un’anima e, come abbiamo già detto, la divinità entra nel suo corpo solamente alcuni giorni dopo il parto e rimane in uno stato latente, fin tantoché l’Orishà non si manifesti per mezzo di una crisi di “possessione”. L’éini ha lo stesso sesso del corpo: i ragazzi hanno un’anima maschile e le bambine un’anima femminile; ci sono quantunque delle eccezioni a queste regole, come la pederastia passiva, assai numerosa in certi terreiro bantù, che, però, rappresenta un caso patologico. Al contrario, un uomo può benissimo ricevere una divinità femminile, per esempio Yemanjà; così come una donna può riceverne una maschile, vedi Shangò. Il numero delle iniziate di sesso femminile è di gran lunga maggiore di quello degli iniziati di sesso maschile; la maggior parte delle “yauò” sono “montate” da dei maschili. L’anima si forma nel ventre materno o, piuttosto, dato che i Neri credono nella reincarnazione, essa da le informazioni al feto dopo la fecondazione; l’anima dunque ha un carattere, che è quello dell’avolo reincarnato. La divinità si può ereditare anche in questo modo, ma non è una regola fondamentale come in Africa. Il babalaò, a volte, nel gettare la collana di Ifa o le conchiglie di Eshù, si diverte a scoprire il nome dell’Orishà, padrone della testa, poiché sono due gli Orishà che perseguitano chi vuole il consulto e si disputano la priorità fino a che uno dei due prende il sopravvento. Quando al babalaò viene chiesta la ragione di questa disputa fra gli dei lui risponde che uno era l’Orishà del padre e l’altro della madre e ognuno dei due voleva tenere il bambino della coppia per se. Non sempre, però, anche quando si eredita la divinità, è per discendenza maschile, come avviene presso gli Yoruba, si può anche ereditare questo o quel dio ( l’abbiamo già visto nel corso del nostro lavoro) scoprendo una pietra particolare, o secondo come si presenta il bambino alla nascita oppure nel momento della sepoltura, quando l’Orishà della donna morta si impadronisce di un altro cavallo. C’è dunque, come si vede, una netta differenza tra l'èini e l’ “Orishà”. L’Orishà riflette simbolicamente il mondo dei miti, mentre che l'èini rappresenta l’esistenza in se, la qualità di individuo. E’ quello che noi abbiamo chiamato il principio di rottura che distingue nel reale un certo numero di scomparti separati. Nel concetto di èini c’è dunque la ragione della rottura tra il mondo degli dei e quello degli uomini, che comporta una duplice funzione sacerdotale: quella dei Babalorishà (o Ialorishà) e quella dei babalaò. Ma quest’anima, ci chiediamo, è semplice o doppia? Sappiamo che per i Fons, lo spirito o il “se” si divide in due parti: il sèmedo che muore con il corpo e il l'èini che è invece immortale. Ci sarà anche presso gli Yoruba una tale distinzione? A questo proposito gli africanisti sono molto reticenti a dare spiegazioni, ma evidenziano, tuttavia, l’esistenza, a fronte del concetto dell’èini di quello dell’ori. I Neri del Brasile sono molto più precisi, e René Ribeiro, più di Frikel, ci fornisce delle informazioni. Dobbiamo dunque credere che a Récife si è più fermamente convinti della dualità dell’anima che a Bahia? No, ma il Padre Francescano si interessava solo al principio spirituale, nel suo pensiero c’era pur sempre la domanda: in quale misura il concetto che avevano i Neri dell’anima si avvicinava al cristianesimo? Infatti l'ori è più un principio vitale che un’anima. In

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sostanza, la diversità dei due concetti si avvicina molto a quella dei Fons, con il sèledo e il sèmedo. Ci sembra pure che l'ori venga prima dell’èimi durante lo sviluppo del corpo umano nel ventre materno, poiché l'ori è la “testa”, cioè lo spirito guida che presiede allo sviluppo e allo sbocciare dell’organismo. Per quanto l’Orishà sia ben fissato nella testa, l'ori e l'éini si distinguono profondamente tra di loro: infatti l’Orishà può abbandonare l’individuo, ritornare, poi andarsene di nuovo e, infine, abbandonare il corpo giorni prima della fine di questo, tanto egli è inorridito dalle ambasce dell’agonia, ma l'ori no: “l’Orishà abbandona (la testa) l’angelo custode può allontanarsi ma l'ori resta fissato”. Non si può, comunque, confondere l'ori con l'éini per questo; come vedremo, si tratta di una differenza tra un’anima materiale e di un’altra che, sebbene non la si possa definire spirituale, in senso cristiano, è considerata più “sottile” o, esprimendolo in modo più chiaro, di un’anima superiore e di una inferiore. Prima di tutto l'ori può indebolirsi nel corso dell’esistenza, come, per esempio, in caso di malattian nelle crisi di follia ecc.; per questa ragione è necessario praticare l’obori, il rituale del “dare da mangiare alla testa” per ridonare forza allo spirito stanco e consumato. L’ èini, invece, è scevro da qualsiasi trattamento. Durante il sonno può abbandonare il corpo ( pericoloso viaggio nello spazio dato che uno stregone potrebbe impadronirsene !), l'ori non può farlo, altrimenti sarebbe la morte. Quindi l'ori scompare quando muore il corpo, mentre l'éini è immortale. Rimane, comunque, per un po’ attorno al cadavere, ed è necessario fare la cerimonia dell’ ashèshè per toglierlo dalla terra, incorporarlo in un vaso del “ilé-saim” perchè rimanga tranquillo a ricevere gli omaggi e le offerte di sangue dei vivi. Se l'ori è mortale, se bisogna farlo mangiare, se la parola che lo definisce in Yoruba significa “testa”, questo non vuole dire che si tratti della testa corporale dell’individuo ma si tratta della sua intelligenza, della sua sensibilità, della sua vita psico-fisica, in una parola, è lo spirito contrapposto all’anima. Se questa distinzione è così netta presso i discendenti degli Africani in Brasile, vorrà dire che si tratta di due “anime” differenti oppure solamente di due parti di un’anima sola? Questa domanda, così come viene posta, non ha forse un carattere tutto occidentale? Forse che, nel contesto dei Candomblè, voglia introdurre una logica che è quella nostra? C’è una cosa che potrebbe collegare strettamente quanto ci si è domandato. Uno stregone ha la capacità di impossessarsi dell’èini di una persona per farne il suo schiavo, a scopi malvagi naturalmente; il “vodoun” di Haiti ha reso famigliare ai francesi questa nozione, alludiamo ai famosi “Zumbi” delle Antille e ai corrispondenti di Bahia. Il Padre Frikel parla degli ara-ourum, le animedei morti, sotto il dominio di Eshù, principio del male; a questo proposito parla del “ninfa” di cui da le due definizioni avuta dai suoi informatori: “Ninfa è una magia, il cui scopo è fare degli Spiriti cattivi”; e “Ninfa non è un Orishà, Ninfa consiste in un grosso sacrificio che crea i cattivi Spiriti, li prende per sette anni con se e poi questi vanno nel Vùa”. L’autore di quanto scritto da a queste frasi un senso metafisico che esse non hanno. Non si tratta del concetto cattolico delle anime dannate, vive dopo la morte, suddite del diavolo. Qui si tratta di un rito magico per separare l’èini dal corpo (sia durante la vita dell’individuo, sia immediatamente dopo la sua morte. Gli scritti di R. Ribeiro si riferiscono al primo caso, mentre quelli di P. Frikel fanno piuttosto allusione ai secondi). Questo rito magico ha lo scopo di endere quest’ultimo al servizio perverso del mago. Nel caso dell’individuo vivo, la persona a cui il mago ha “mangiato” l’anima vive come un sonnambulo, il suo spirito non gli appartiene più, è svuotato sia d’intelligenza che di sensibilità. Ciò che sembra indicare un legame fra l'ori e dell’èini, almeno secondo noi, è che la perdita dell’ èini si traduce automaticamente in una malattia dell'ori: la follia.

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A fianco dell’anima c’è l’angelo custode: Eleda o Heleda. A che cosa corrispondono questi due termini? A questo punto la confusione è massima e le informazioni raccolte sono tutte contradditorie. Joào do Rio distingue nettamente gli Eleda dagli Orishà, dice che i primi sono gli intermediari tra gli Orishà e gli individui e che non sono degli spiriti cattivi ma, al contrario, proteggono la persona dal male. Il Padre Brazil li considera “angeli”, quindi degli intermediari, ma distingue tra di loro gli Agè o Aguè il cui lavoro è quello di introdursi nella pelle di uccelli rapaci e succhiare il sangue degli individui, per cui questi cosiddetti “intermediari” sarebbero delle “creature” capaci di fare sia il bene che il male, per cui il termine di “angeli custodi” non sarebbe proprio quello giusto. Secondo Renè Ribeiro si tratta di entità che accompagnano e proteggono la persona, anche se impotenti verso gli Orishà, gli Egun e gli stessi stregoni. Alcuni informatori pensano che si tratti degli spiriti degli antenati mandati dal dio supremo Olorun e che, dopo la morte dell’individuo, ritornino da lui, il che si confà, secondo noi, allo spirito africano. Anche l’ultimo nostro informatore li confronta con gli djoto del Dahomey (definiti da Herskovits “i guardiani ancestrali che proteggono i loro discendenti”). Ma in che misura potremmo ritrovare un concetto che esiste nella gente del Dahomey tra gli Yoruba? E in che misura i Brasiliani di colore hanno mescolato questo concetto africano degli antenati protettori con quello prettamente cattolico dell’angelo custode? E maggiormente con la teoria dello spirito che vuole che uno “spirito di luce” accompagni ogni medium per aiutarlo a disfarsi dell’influenza della materia. Se dal Brasile andiamo a Cuba, dove ritroviamo le stesse etnie che esistono a Bahia, Il concetto dell’Eleda lo ritroviamo con un senso ancora diverso: Eleda, oni, ori. Eleda è colui che pensa, si: egli vede, veglia, è sempre kuni-kuni. Guida e decide della nostra vita. Colui che è nella testa è lo Spirito, è il santo: la testa si chiama Ori ed anche Eri ed ha dei bei modi. Per mezzo di Eleda abbiamo tutti i figli di Dio nella testa. Tutti noi abbiamo un angelo, un angelo custode, l’Eleda di ognuno... I Bianchi non curano le loro teste, come facciamo noi, non donano loro del cibo! Non si ricordano più, o non lo sanno più, che là nella loro testa risiede l’angelo, là vive il loro Eleda... Obatala governa tutte le teste, dire Eleda è la stessa cosa che dire Obatala. Come si vede, in questo testo c’è tutta la confusione che esiste nello spirito di quelli che parlano di Eleda. Confusione tra Eleda e Ori, tra Eleda e Orishà, identificazione, infine dell’Eleda con Obatalà. Tutte queste confusioni provengono dal fatto che Eleda, on lingua nagò, significa “creatore”. Lo si ritrova quindi in Africa impiegato in contesti diversi, per esempio: Denett lo adopera tanto a proposito di Olorun che di Obatalà, essi hanno creato il mondo e tutto quello che contiene, mentre, a proposito del culto di Ifa, l’eleda è allora il Fa personale, creato dal babalaò che dirige la vita di colui che si è fatto iniziare al suo culto. Infine, per aggiungere altra confusione, la maggior parte dei miei informatori, se non tutti, identificano l’eleda con l’Orishà personale. Come ricordiamo, durante la cerimonia di “dare il nome” che chiude il rituale dell’iniziazione, ogni yauò riceve, in forma soprannaturale, il nome del suo maestro della testa che è per lei “una vera e propria manifestazione personalizzata” di questo o quel dio africano. Quell’Orishà è sempre nell’Ori, anche se non si manifesta esteriormente con una trance ( per quanto possa assentarsi e lasciare per un momento il corpo, ad esempio durante il sonno, causando così i sogni). Da li sorveglia il suo cavallo, l’aiuta a superare gli ostacoli che incontra nel cammino della vita, lo guida lungo tutta la sua esistenza, lo protegge (se l’iniziato compie bene i suoi doveri) o lo punisce (se egli non compie tutti i suoi obblighi con esattezza).

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E’ dunque difficile precisare quanto pensano esattamente i Neri di Bahia, o del resto dell’America, su che cosa significhi per loro l’angelo custode e sulla ragione per cui a lui danno il nome di creatore: “eleda”. Il fatto è che ci sono numerosi possibili protettori, dagli spiriti degli antenati fino alle divinità famigliari. L’èini stesso, presso gli Yoruba, è allo stesso tempo l’anima e l’angelo custode. L’informatore di R. Ribeiro doveva, verosimilmente, appartenere a una nazione del Dahomey, data la sua attribuzione al “djoto” dell’angelo custode, poiché djoto è anche considerato come un creatore di bambini e che a Bahia, l’abbandono dell’usanza di farsi fare il proprio Ifa, ha determinato, di conseguenza, il passaggio del termine di eleda all’Orishà personale. In breve, tutte queste confusioni deriverebbero dalla volontà dei Negri di filtrare i loro dogmi africani attraverso la teologia cattolica, cosa che non è sempre tanto facile. Comunque, anche se più di così non si possa fare chiarezza su questo punto, resta il fatto che ogni individuo possiede, accanto al proprio ori, al proprio èini e al proprio angelo custode, il suo Orishà (quest’ultimo è spesso confuso con l’angelo custode). Se dall’ “ori e dall’ èini la persona umana si separa dal cosmo per formare un mondo a parte, per contro, con il suo Orishà ridiventa riflesso e simbolo del divino. La struttura psichica dell’uomo riflette allora la struttura delle realtà soprannaturali. Gérard de Nerval ha intitolato una sua raccolta di romanzi con un nome ben significativo: “Le figlie del fuoco”, ma parla pure delle figlie dell’acqua, dell’aria o della terra. Bachelard, studiando di li a poco le forme dell’immaginazione, riconosceva che ogni elemento della natura determinava le forme differenti dei sogni, della sensibilità e della voluttà. Per Hoffmann è l’uomo di fuoco, per Swinburne quello dell’acqua, per Nietzsche dell’aria, mentre Huysmans pensa alla materia minerale. Ben inteso che ogni elemento puo rivestire dei caratteri diversi: per esempio l’acqua può essere vischiosa, spessa, torbida, come coagulata o, al contrario, come una carezza leggera, liquida trasparenza, sciabordio musicale e questa è esattamente la differenza che esiste tra l’acqua scura di Edgard Poe e l’acqua molle di Swinburne. La fontana che canta nella vasca di marmo non attrae lo stesso individuo che sogna invece presso laghi taciturni dove le foglie morte e i gusci delle noci si decompongono. Bachelard, invece, ha il torto di separare queste immaginazioni o sensibilità “naturali” da quelle culturali. Senz’altro ci possono essere diversità tra le allegorie, i simboli e i miti forniti all’individuo, al suo profondo essere, dalla tradizione; le immagini dei poeti possono non riflettere il loro vero carattere, essere degli artifici, come nel caso di Ronsard. Tuttavia può esistere anche una “cultura” delle differenze individuali ed è proprio questo che succede nel Candomblè. Tutto questo, a prima vista, può stupire. Non è il babalaò che discerne se è questo o quell’Orisha, poniamo del fulmine, quello femminile dei fiumi o quello del ferro che lui attribuisce al consultante, secondo le sue caratteristiche soggettive, ma sono le mezze noci o le caurie che rispondono. Nonostante questo, tutta la gente di Bahia è d’accordo nel riconoscere che la qualità principale del babalaò è l’intuizione, il che vuol dire: il presentimento o la scoperta, al di sotto degli orpelli sociali, della vera personalità, quella profonda, di colui che lo consulta. Molto spesso, ancor prima di lanciare la collana o le conchiglie, il babalaò dice al prossimo il nome dell’Orishà che, secondo lui, è quello che si identifica più da vicino alla persona che chiede chi è il padrone della sua testa. Chi può dire se questa conoscenza preliminare non agisce, incoscientemente, sui gesti della sua mano e, per mezzo di questi, sul modo in cui le mezze noci o le conchiglie cadono? Per decifrare il significato di odu, come abbiamo detto, bisogna interpretare le leggende che si riferiscono a quell’ odu e il babalaò, nella sua interpretazione, non è forse guidato dall’aver intuito il vero carattere di chi lo sta consultando? Possiamo anche obiettare, è vero, che gli Orishà si ereditano all’interno di una stessa famiglia e che, in generale, si possiede la divinità

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del padre o della madre. Ma si eredita anche il carattere? E se, per esempio, la madre è una “figlia del fuoco”, il suo bambino lo sarà ugualmente? Per concludere, la civiltà africana ci sembra una cultura della sensibilità “naturale” studiata da Bachelard, non è solamente nella trance, nella danza estatica, che l’individuo ripete i gesti degli dei, ma nella sua vita quotidiana, nel suo comportamento di tutti i giorni. Ben inteso che ci sono una azione e una reazione incessanti del naturale sul culturale e del culturale sul naturale. Un informatore di Maupoil gli diceva: “L’oggetto del desiderio, ecco il vodoun di ognuno”, o ancora: “Il tuo vodoun si trova nel tuo proprio rene”; meglio non si può esprimere come l’Orishà, prima di essere fissato nella testa, è già nell’anima profonda, nell’inconscio della persona e che ogni individuo è destinato, come per una specie di desiderio che sortisce da tutto il suo essere, alla violenza del fuoco, all’abbraccio della pioggia, alla stretta amorosa dell’acqua. Ma a forza di rappresentare il ruolo dell’Orishà, di coltivarlo dentro di se, di danzare i suoi miti, queste pulsioni sotterranee dell’individuo non possono che rafforzarsi e imporsi su di lui. Il culturale prolunga il naturale, ma, allo stesso tempo, lo modella e lo fortifica. Ci permetteremo di citare un testo di René Ribeiro che descrive dei fenomeni analoghi a Récife ( salvo che qui il babalaò cede ilposto al Babalorishà): L’individualità dell’Orishà a chi si deve consacrare il fedele e il modo in cui l’assume hanno pure un’influenza sulla condotta e sul destino dell’individuo... Una credenza circa un’interazione tra la personalità dei fedeli e quella dell’Orishà fa si che i “figli” di Ogun siano considerati dei buoni lavoratori; turbolenti, imperiosi, avventurieri invece i “figli” di Shangò; Vanitose, incostanti, mutevoli le “figlie” di Oshun, o austeri i “figli” di Odè; o estremamente buoni e tolleranti quelli di Orishalà, o tolleranti ma implacabili quelli di Nananburucu – I sacerdoti dimostrano finezza nei loro giudizi e percezioni dei tratti più salienti della personalità dei possibili fedeli, attribuendo a loro, su questa base, le divinità a cui il carattere psicologico della loro personalità più si addice... Uno dei più prestigiosi Babalosishà di Récife è esplicito nell’attribuire a tali “segni di nascita” le differenze individuali tra ogni figlio di Shangò, Abaluwaye o di Odè, Yemanjà Orishalà ecc. Riportando le sue stesse parole: “Si pensa che la persona, dal momento che appartiene a Shangò o a Yemanjà, agisca sempre secondo il carattere di questi in ogni circostanza, tuttavia, due figli di uno stesso padre non sono mai uguali; ciò che la persona è, dipende dall’odu con cui è nato”. Quest’ultima frase è significativa; l’individuo è un effetto di due mondi incrociati, quello del suo destino personale, della sua idiosincrasia personale e quello del suo legame con una divinità, della sua psicologia più profonda. Per il momento è solamente questo secondo elemento che ci interessa. L’interazione tra il naturale e il culturale si manifesta chiaramente, l’uomo aspira per suo desiderio a questo o a quell’Orishà e l’Orishà, a sua volta, modella questo “desiderio”. Se ne potrebbero citare svariati esempi. Tratteremo unicamente il caso delle “figlie dell’acqua” e, più esattamente, dell’acqua salata, poiché Bachelard si rifiuta di vedere nel mare un elemento in sintonia con la sensibilità umana: non si può, lui dice, che dare colpi di frusta al mare, come fece Serse, il mare non parla al nostro intimo. L’Oceano non ha la carica lirica dell’acqua dolce, può si risvegliare istinti d’avventura, ma non dei miti di intimità. “L’incosciente marinaio parla, parla e si dilunga a raccontare le sue avventure, non dorme e, di conseguenza, perde presto le sue forze oniriche.” In realtà a Bahia vivono molte figlie del mare e sono in così stretta intimità con l’Oceano che bagna quella città che, a volte, fanno dei sacrifici in onore di Yemanjà. In generale, ai molti casi di annegamento, volontari o no, si da una spiegazione razionale, dicendo che sono punizioni, si tratta in fatti di un richiamo profondo dell’essere; le figlie di Yemanjà devono fare particolarmente attenzione quando fanno il bagno, l’acqua ha dei remolini, gira e rigira, sale come una carezza prolungata, come una stretta salata e vi porta via. In particolare, se la dea del mare ha rifiutato il regalo, il che succede, a volte, con la risacca che rigetta sulla battigia le cose, si può stare sicuri che la dea ritornerà per prendersi uno dei suoi figli. Per placare la sua collera sarà quindi necessario un sacrificio umano. Spesso ci hanno raccontato la storia di quella figlia di Yemanjà che, sentendo il richiamo sempre più pressante dal più profondo del

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suo essere, si diresse, come una sonnambula, verso le rocce battute dalle onde e, dopo avere per un istante esitato, si precipitò tra i flutti. Per miracolo fu salvata da qualcuno che passava e riportata, esanime, sulla riva. Nel 1938, a Rio de Janeiro, il commissario di polizia ricevette la visita di un uomo cge gli consegnò le seguente lettera lasciata da sua moglie prima di uccidersi: Mio caro sposo Cezarino. Mio benamato. Ti scivo da Nichteroy la mia ultima lettera, poiché andrò a gettarmi a mare... Sento sempre una voce che mi chiama per morire. Non so chi sia ma ci vado. Se Dio lo vuole non si ritroverà mai più il mio corpo, perchè, oltre al veleno che ho bevuto, mi attaccherò un grosso peso per sprofondare nell’acqua quando mi ci sarò buttata. – Sai tu che io sono una figlia dell’acqua? Lo sai? Quando piangevo non potevo dire quello che sentivo – era la voce che ascoltavo. Tutti i casi di annegamento non hanno questa caratteristica così drammatica. Ma questo, proprio per la sua assurdità, indica bene il legame tra il carattere della persona e il suo Orishà. Il dio personale è veramente un richiamo prima di una imposizione della società, e questo legame è riconosciuto dall’intera collettività dei fedeli. I sociologi nord americani hanno molto insistito su quello che definiscono “aspettativa di comportamento”. Ebbene, l’aspettativa di comportamento nel Candomblè si regola, non come la nostra, su quello che noi sappiamo circa il passato di una persona o del “ruolo sociale” che è chiamata a sostenere nella comunità, ma di quello che sappiamo sul suo Orishà e sul “ruolo” mistico che questo Orishà gli impone. Abbiamo visto anche che l’Orishà, quando è individuato, si presenta nella mitologia come un “complesso”, ossia che ad ogni Orishà è collegato uno (o più) Eshù, così come un éré, poiché la struttura dell’uomo riflette quella degli dei, dobbiamo ritrovare lo stesso “complesso” dentro di lui. “Colui che ha un Santo ha pure un Eshù e un Eré si sente spesso dire a Bahia. In genere si allude a persone iniziate. Ma se c’è una maggioranza di persone che non hanno mai consultato un babalaò, teoricamente vuol dire che ogni individuo ha il suo “santo”. Può anche darsi che l’Orishà non sia stato fissato o controllato dal gruppo, che sia solamente latente nella sua testa, così come accade presso molti occidentali che non si preoccupano affatto del loro angelo custode. Eppure esiste dentro di lui. Ecco quindi la struttura psichica: Orishà-Eshù-E’ré, teoricamente costante, un elemento permanente della definizione della persona. Che cosa significa dire che ogni individuo ha il suo Eshù? Si potrebbe pensare ad un Eshù esteriore, o “compadre” che ha cura della casa e protegge i suoi abitanti, quell’Eshù fatto di terra e d’olio di palma, messo dietro la porta d’entrata o posato a terra. Si potrebbe pensare anche all’Eshù della divinazione, che sostituirebbe Ifa che è in via di sparizione e questo spiegherebbe la frase di uno dei miei informatori: “Eshù è il nostro angelo custode”; intendeva dire che siamo governati fin dalla nascita dall’ odu che è stato evidenziato, in una parola: da Eshù. Si puo anche pensare che Eshù, legato al nostro Orishà, è il suo servitore speciale, che gli vive accanto dentro la nostra testa e può, come tutti gli Orishà, manifestarsi per mezzo di una crisi. Il Babalorishà (o la Ialorishà) dovranno sempre stare in guardia per non confondere questi due tipi di manifestazioni, quella del “dio selvaggio” e quella dell’Eshù che lo accompagna. Nel resoconto di Clouzot si troverà un esempio di questa differenza: “ Nestor, che è entrato in cucina disturbando e facendo chiasso, si è messo ad accendere dell’incenso sotto il naso di sua figlia e poi se ne è uscito brontolando, non è certo la manifestazione di un santo, tuttalpiù quella dell’ Eshù di un santo”. Noi abbiamo visto Sofia accusare il Babalorishà che l’aveva “fatta” di aver “fissato” nella sua testa, per errore o per cattiveria gratuita, un Eshù del seguito di Ogun invece di Ogun, il suo vero Dio.

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Per contro, abbiamo conosciuto un babalaò ( o uno che si credeva tale) di un terreiro bantù, affermava che un bel po’ di persone erano figlie di Eshù, ma che si “vergognava” di dirglielo, lo nascondeva con cura e si teneva la verità per se e, poiché ogni Eshù è al seguito di un dio, lui dava come Orishà della testa, il nome della divinità corrispondente a quell’Eshù. Due differenti modi di agire, ma che, sia l’uno che l’altro, si basano sullo stesso principio di associazione. Non sta a noi scegliere fra questi tre significati differenti, poiché il Nero di Bahia conserva, in una specie di alone affettivo, simultaneamente questi diversi significati, pensando all’uno piuttosto che all’altro secondo le circostanze. Se gli si chiedesse di scegliere, risponderebbe senz’altro: ogni Orishà ha molti Eshù e perchè non ne possiamo avere tanti anche noi? L’éré individuale appare nettamente negli iniziati, in particolare dopo le trance, per addolcirne la violenza e farli tornare lentamente al loro stato normale. Ha il compito di ammortizzatore. E’ molto più difficile capire quello che fa nelle persone non iniziate. Se l’’éré è stato introdotto nel corpo delle Yauò durante i rituali, si potrebbe pensare che, prima non esista nel corpo dell’uomo in stato latente, ma non c’è, anche lui è virtuale in ciascuno di noi. L’unica informazione che mi è stata data sulla sua funzione mi è arrivata in forma indiretta da un membro di un Candomblè bantù, e la riporto qui di seguito ma con riserva: “Noi tutti abbiamo un Ibeji dentro di noi”. La nostra riserva è: se gli Ibeji sono degli spiriti infantili come gli éré questi non si dovrebbero confondere con gli altri. Ci potremmo chiedere, senza troppa insistenza, se non ci siano rimasti nel pensiero di certi fedeli delle vaghe rimembranze, per metà dimenticate, sull’idea dei gemelli primitivi di doppio sesso all’interno dell’uomo come il dya dei Bambara? Da quel momento il mio informatore non aggiunse altro se non che lui credeva nell’esistenza latente di uno spirito infantile. La nostra conclusione è che esistono le stesse entità su dei piani differenti del reale. Gli Orishà, gli Eshù e gli éré esistono al di fuori di noi e costituiscono il mondo divino e, allo stesso tempo, esistono dentro di noi e formano una parte della nostra intima struttura. Il principio di separazione del cosmo in scompartimenti differenti e stratificati non toglie che le stesse realtà non si possano trovare in alcuni tra loro; certamente in forme un po’ diverse secondo la natura dello scompartimento in cui esse agiscono. Il sacro è, secondo le volte, trascendente e immanente.

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CONCLUSIONE - METAFISICA E SOCIOLOGIA E evidente che la mitologia africana è stata, nel nuovo contesto brasiliano, spesso ripensata in termini cristiani. Se Shangò Dada non discende più è dovuto al fatto che, siccome egli è così legato al fuoco, se scendesse sulla terra la brucerebbe e distruggerebbe con le sue fiamme. Ora, sembra la leggenda di San Giovanni Battista che si addormenta il 24 di Giugno e non si sveglia che quando la festa è finita, perché, se non dormisse, la terra in quel giorno sarebbe annientata da un immenso incendio. Yemanjà in Brasile come in Africa, fa scaturire i fiumi dai suoi seni premuti tra le sue mani, ma il suo mito si arricchisce di elementi che si rifanno a delle leggende medievali. Il giovane Omolù, cacciato dalla casa paterna che poi ritorna dopo aver sofferto nel mondo, con il corpo coperto di piaghe, di cicatrici e foruncoli sanguinanti, riprende, fra gli Africani di Bahia, la leggenda del figliol prodigo. Di esempi potremmo riportarne tanti, ma non ci insegnerebbero niente di nuovo, dato che in tutti c’è già la presenza di miti conosciuti e costruiti nel loro curioso sincretismo e non invece dei miti di nuova fattura, in statu nascendi. Ci sarà forse possibile scoprire questa genesi? Seguire l’evoluzione sociologica che ci possa condurre dai racconti portati dall’Africa alle nuove forme luso-brasiliane? Sarà forse difficile e raro, lo confesso. C’è pur tuttavia un caso che noi conosciamo in cui potremmo visionare, in qualche modo, questa metamorfosi. Uno dei più celebri Candomblè di Bahia, messo sotto la protezione di Shangò, è passato alle dipendenze di una figlia di Oshum. Alla morte della Ialorishà, si è dovuto attendere i sette anni regolamentari prima che la società degli Egun dell’ Ile de Itaparica evocassero l’anima della defunta e le domandassero di designare il nome della ragazza che le dovesse succedere. Nell’attesa e in maniera provvisoria, la sidagan, cioè la figlia più vecchia (quella che era stata formata da più tempo) era stata incaricata di prendersi cura della vita religiosa del terreiro. Costei, figlia di Oshum, era fiera della sua divinità che metteva in cima al panteon africano. Questo provocava l’opposizione da parte dei ministri di Shangò che difendevano, contro di lei, il loro stato gerarchico di figli del dio patrone del santuario. Nel corso dei miei viaggi, ho potuto assistere a queste lotte tra quegli uomini e la sidan. Anche Clouzot, che in quell’epoca si trovava a Bahia, ne fece una breve allusione. I seguaci di Shangò, uno dopo l’altro erano colpiti nella loro vita privata o negli affetti più cari da infortuni; correva voce che fossero stati avvelenati. I seguaci di Oshum, invece, guardando le disgrazie che li colpivano, avevano buon gioco a dichiarare che Oshum era la più potente e che Shangò doveva sottomettersi alla sua sposa preferita. Sarebbe stato azzardato, nel giorno che il Candomblè celebrava la festa di Oshum, che la figlia di un’altra divinità fosse posseduta, proprio in quel giorno dal suo “padrone della testa”. Solamente Oshum aveva il diritto di discendere e fare roteare il suoi cavalli in stato di trance. Il giorno della cerimonia del palo di Shangò, questo era ricoperto da un leggero drappo giallo che è, come si sa, il colore di Oshum, e gialli pure erano i festono appesi al soffitto che rimasero li durante tutta la festa e anche durante le cerimonie seguenti. La collana di Shangò che avevo fatto “lavare”, all’epoca, mi è ritornato con, attaccato ad una seconda collana un po’ più piccola, dai colori di Oshum, un sacchetto, pure lui giallo, contenente un “ashé” protettore. Da allora l’autorità della nostra figlia di Oshum finì per imporsi e superare tutti gli ostacoli; intanto un figlio piccolo di uno dei suoi avversari era morto e bisognava, a tutti i costi, celebrare l’ ashèshè; il padre “imbronciato” del bambino ritornò al suo terreiro e, successivamente, tutti gli altri oppositori, per una ragione o per l’altra della donna, e oggigiorno anche se il santuario resta di Shangò, l’importanza di Oshum non fa che aumentare... Se abbiamo raccontato questa storia, non è per il piacere di raccontare i drammi che spesso agitano la vita interiore del Candomblè, ma perché la lotta degli individui per il potere si

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traduce in una lotta degli dei. Il conflitto tra gli oba, gli ogan e la nuova Ialorishà non è altro che la lotta tra il marito e la moglie, tra Shangò e Oshum. Una semplice disputa domestica all’interno del “menage” degli dei e quindi il Candomblè non fa altro che rendere attuali le stesse situazioni. Cosicché lei da origine, se non a dei riti nuovi, almeno a delle trasformazioni di miti antichi. Ad esempio, il mito che abbiamo citato di Shangò, marito fedifrago, che abbandona Oshum per correre dietro ad altre donne, e che arriva perfino a rinchiudere sua moglie nella torre del castello, può ancora sussistere a Récife ma a Bahia è sparito perché in quella città Oshum non può avere un ruolo subordinato di sposa martire. Il mito di Shangò che, incontrata Oshum sulla sua strada, si precipita su di lei per violentarla e non riesce a farlo per l’intervento di Eshù che passava da quelle parti, non ha più ragione di esistere in tale versione in una situazione sociale che pone la donna davanti al maschio. Il mito va quindi trasformato e lo abbiamo visto fare da un ministro di Shangò che ci teneva a ristabilire un’approssimazione con il suo antico Candomblè; così, nella nuova versione, non è più Eshù che impedisce lo stupro, ma è Shangò stesso che, volontariamente, per dimostrare il suo profondo amore, dorme tutta la notte ai piedi di Oshum, senza toccarla, pieno di rispetto. Questa trasformazione di un mito di violenza tipicamente africano, che si è conservato in tutta la sua integrità in altre regioni del Brasile e a Cuba, non poteva che compiacere la nuova Ialorishà, traduceva in modo elegante, la subordinazione di Shangò a Oshum, base della possibile riconciliazione tra gli oba e la Ialorishà. Lo stesso informatore, probabilmente per non legare troppo il terreiro con la società degli Egun il cui potere spaventa alcune persone, mi spiegava che, anche se l’ilé-saim è allontanato dal resto del santuario, non è perché, come io pensavo e come la pensano veramente gli africani, gli Orishà hanno paura dei morti e li fuggono, ma al contrario è la prova di quanto rispetto portino le divinità ai morti. La distanza in termini di spazio non significherebbe la paura ma sarebbe il segno simbolico del loro rispetto. Di conseguenza, se traduciamo queste rappresentazioni religiose in termini sociologici, il risultato è l’evidenza della subordinazione degli oge alla Ialorishà. I conflitti degli individui o dei gruppi sociali a Bahia nella misura in cui reagiscono alla mitologia ortodossa per modificarla ci aiuta, almeno così crediamo, a comprendere meglio ciò che è successo in Africa e come la storia disgrega la metafisica. Abbiamo notato infatti la persistenza in Brasile di tutta una serie di fatti che mostrano dei frammenti della metafisica di cui Ogotemmeli parlava nei suoi incontri con M. Griaule: Il gemellaggio delle divinità primordiali e il disordine nel mondo a conseguenza della perdita di quel gemellaggio e della distinzione dei sessi, l’importanza dei nomi, il fabbro e l’arciere, il montone e i gemelli... Ma anche tutta una proliferazione di miti che non hanno niente a che vedere con quella metafisica e che sono connessi a dei riti di altissima importanza. Il cambiamento continua senza dubbio a Bahia, ma non fa che proseguire quello già cominciato in Africa, nei territori della gente Yoruba. Il problema che noi ci poniamo è perché e come la metafisica si è trasformata in mito. Anche se in termini diversi, è un problema del tipo di quello che si poneva Bergson nel suo: “Le due Sorgenti della Morale e della Religione”; come e perchè partendo da un mito-risposta ad un problema biologico, si è arrivati ad una tale moltiplicazione e proliferazione di immagini. Giustamente l’esempio di Bahia ci appare qui particolarmente illuminante. E’ la storia degli uomini che si introduce nella matafisica e con lei tutta la contingenza delle lotte politiche, delle battaglie dei clan o delle ambizioni dei sacerdoti. Non dobbiamo dimenticare che se gli Orishà simbolizzano le forze della natura nei compartimenti del reale, essi sono anche gli antenati dei clan e delle stirpi e questi clan e queste stirpi sono stati in concorrenza tra loro.

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Frobenius distingue due Shangò: Lo Shangò-montone che sputa fuoco e lo Shangò a cavallo conduttore di giustizia; a lui sembra che, sotto uno stesso nome, si tratta di due divinità ben differenti, appartenenti a delle etnie che si sono incontrate e fuse insieme oppure che hanno fatto un patto di alleanza: La leggenda distingue nettamente due dinastie di cui una, la più vecchia, in seguito cacciata dalla seconda, è legata ad un dio dalla testa di ariete e alla medicina magica, in cui ha introdotto un dio cavaliere e soprattutto l’obbligo di fare del bene e di vivere bene. La seconda dinastia, proveniente dal nord, dominò, almeno per un certo tempo, tutti i paesi Yoruba. Di quest’ultima dinastia ci occuperemo quando studieremo la diffusione delle civiltà del Sahara e del Sudan durante il Medio Evo. La leggenda di Sakpata (Omolù, Schankpanna) raccontata dallo stesso autore denota parimenti un culto venuto da fuori, questa volta dal paese Mahi, con la dinastia sacerdotale dei Nagò. Sappiamo che i re della Nigeria hanno proibito in un certo momento il culto di Shakpana e che i sacerdoti di quest’ultima divinità si sono vendicati, spargendo il vaiolo per tutte le contrade. Queste lotte per il potere, il prestigio o, per lo meno, la sussistenza, si rifanno ai miti di Sakpata, così come ci sono stati riferiti dagli etnografi così come dai loro racconti si è saputo che questa divinità ha sostituito Oroum, il Sole, nel culto di certe famiglie: “La famiglia andò dunque dal sacerdote di Osoko, questi gettò le caurie e disse: - In avvenire fate i sacrifici che sono per Oroun, come sempre, ma non più a nome di Oroun ma di Schankpanna poiché questo Schankpanna-aero è uguale a Oroun. In futuro portate il braccialetto di caurie di Schankpanna – Così fecero e da allora ebbero un numero sufficiente di figli .” Così pure i miti di Ogun riportati da P. Verger, ci mostrano un caso di alleanza tra due famiglie e due divinità. Ogoun e Odoudouma dopo una battaglia e la spartizione del bottino ( ancora oggi i sacerdoti d’Ife si colorano sia di bianco, colore di Odoudouma e di nero, colore di Ogun) e un caso di sostituzione di culto: il villaggio di Ishédé è quasi totalmente composto da figli di Ogun, ma costoro sono discendenti di un popolo di invasori che, prima di festeggiare le loro divinità ancestrali, offrono un sacrificio a Onilè che possedeva la regione prima del loro arrivo. Quello che Bergson chiamava la proliferazione dei miti, ci sembra consequente, nel caso di cui ci occupiamo, agli avvenimenti e le incognite della storia. Ma questo “tropicalismo” di immagini, questa esuberanza di nuovi simboli, si mescolano ai quadri dell’antica metafisica. Certamente possono soffocarla, con il tempo, come l’edera che si avviluppa intorno al tronco dell’albero che muore sotto la stretta del suo verde fogliame. E, tuttavia, il tronco, se non i rami che le tempeste hanno stroncato, mostra ancora l’abbozzo di quello che, in passato era un albero. La mitologia è composta di strati sovrapposti che hanno un’età e una cronologia. La religione non è cosa morta anche se assolutamente conservatrice, ma evolve nel contesto sociale per via dei legami o delle dinastie, introducendo nuovi riti, per soddisfare i nuovi bisogni delle popolazioni o interessi delle famiglie dominanti. Tutte queste trasformazioni, tutti questi rovesciamenti di regimi in cui le rivoluzioni di palazzo lasciano, ritirandosi come l’acqua delle inondazioni, degli strati di nuovi miti ma, sempre ben inteso, nel rispetto delle arcaiche tradizioni. E’ quindi un lavoro da archeologo, un’esplorazione degli strati via via più profondi, a cui si deve dedicare un sociologo per ritrovare, nel paese degli Yoruba, le grandi ascendenze di una mitologia africana. In certo qual modo Bahia ha un privilegio. Le escrescenze sono così numerose, ricche e variabili da un paese all’altro o da una confraternita a quella vicina (vedi nota), che non si può, a meno che la fortuna non ci assista, scrutare fino in fondo la storia, perché si è letteralmente sommersi dalle vicende contradditorie degli dei. La contraddizione non è nel pensiero primario, ma non fa che riflettere il via vai continuo e caotico delle cadute e delle dominazioni o, se si

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preferisce, l’illogicità delle mentalità primitive è un prodotto della storia non una norma dell’intelligenza. Ma in Brasile non esistono che dei frammenti di questa complessa mitologia che è stata introdotta; decifrarla è in parte facilitato da questo primo smembramento del blocco compatto contro cui si scontrava l’etnologia in Africa. Il palo centrale, ad esempio, esiste anche nei santuari nagò, l’abbiamo visto comparire in diversi rituali, ma colpisce ancor più, a Bahia, la sua posizione al centro del culto, spogliato da elementi superflui. Ellis ha messo ben in evidenza il carattere androgino della divinità primitiva ma l’importanza di questa doppia sessualità non si manifesta ancor più oggi per il fatto che gli Africani di Bahia ci si aggrappano malgrado la doppia distanza dalle loro origini, nel tempo e nello spazio, al punto che i loro canti dedicati ad Oshalà mescolano attributi maschili con quelli femminili di questo dio? Per noi rappresenta un vantaggio ma, d’altro canto, un grave inconveniente poiché non abbiamo alcuna possibilità di ritrovare in America altro che dei frammenti più o meno mutilati di questa metafisica. Ma se, fin qui, lo studio del Candomblè non può averci dato altro che dei frammenti (pur pensando che altri ricercatori, a furia di approcci sempre più intimi con le sette ne troveranno dei nuovi) forse, da un altro punto di vista, la nostra raccolta di dati si rivelerà la più ricca. (vedi nota) NOTA Le divergenze dei miti secondo le confraternite sono ben visibili nell’opera di Herskovits sul Dahomey; anche le genealogie cambiano secondo che ci si diriga ai secerdoti del cielo o a quelli della terra. La rivalità tra sacerdoti fece si che certe divinità fossero tenute più in considerazione rispetto ad altre e viceversa, secondo, naturalmente la volontà di questi. Noi abbiamo esaminato solamente un aspetto della proliferazione dei miti, quello, cioè, che è legato alla storia poiché la storia dei Candomblè è la continuazione di quella africana e ci mette alla presenza dell’azione degli avvenimenti secondo la biografia degli dei. Ma si potrebbe generalizzare tutto questo rispetto ad un’altra faccia di questa proliferazione, quella che riguarda la geografia. P. Verger, ad esempio, (o.c. p.186) suggerisce una spiegazione naturalistica del bisticcio tra Oshum e Oba, di cui abbiamo parlato a proposito della struttura dell’estasi: “ Non si deve mai proninciare il nome di Oba quando si attraversa il fiume di Oshum, altrimenti questa si infuria e vi manda qualche disgrazia. Allo stesso modo non si deve parlare di Oshum se si attraversa il fiume di Oba.I due fiumi si gettano uno dentro l’altro e, alla loro confluenza, le acque sono estremamente agitate e si scontrano con violenza a ricordo delle loro passate dispute.” Quello che ci sembra importante è la ragione per cui lo scontro di due fiumi prende una forma così speciale: il taglio dell’orecchio di Oba. Ammettiamo che i vortici del fiume ricordino il padiglione auricolare e gli africani lo abbiano notato, ma bisogna che il loro spirito sia predisposto ad associare questa immagine al mito. Anche qui la metafisica fissa i quadri dell’interpretazione naturalistica posteriore. Si può pensare, è vero, a un simbolismo dettato dall’io profondo ( vedi le idee di Freud o di Jung) l’orecchio è la rappresentazione degli organi sessuali femminili. Non è senza ragione che il mito dell’odu Sa-Mejé sull’origine dei sessi dica: “Mawu, quando creò la donna, si domandò dove avrebbe messo gli organi del sesso, che si chiamavano allora Koto, e li mise al posto delle orecchie”. (Maupoil, o.c. p.517). Maupoil segnala, d’altra parte, in una nota della stessa pagina, che Ko designa ancora gli organi della donna e un omofono “to” significa orecchie. Presso gli Yoruba, quando una donna vede tutti i suoi neonati morire poco dopo la nascita, ella si taglia il lobo di un’orecchio insieme ad una parte dell’auricolo e le getta. Si assicura che dopo aver fatto quello, non solo il prossimo bambino vivrà, ma che una coppia di gemelli al completo farà la sua entrata nel mondo (Frobenius, o.c. p.67). Presso i Dogon troviamo lo stesso simbolismo, la parola entra nella donna attraverso l’orecchio e non il sesso ed è, in fondo, la stessa unione sessuale nei due casi: “ Di giorno la parola entra nel seno delle donne. Tutti gli uomini che parlano a tutte le donne aiutano la procreazione”. (Griaule, Dio d’acqua, p.169); “uscita dal sesso di una donna, la parola entra in un altro sesso che è l’orecchio” (ibid, p.166). Ma la psicanalisi ci obbliga a vedere anche nel padiglione auricolare un elemento maschile e non più femminile. Quando Van Gogh si taglia l’orecchio e lo porta, sanguinante, arrotolato dentro un fazzoletto, riscopre, simbolicamente il rito della castrazione. Solo che questo simbolismo dell’io profondo non può esistere se non perchè ravviva dei concetti arcaici dei miti, le immagini dell’inconscio ci riportano alla metafisica. “L’orecchio rappresenta un sesso doppio per l’uomo come per la donna: il padiglione è la verga che difende il condotto auditivo, immagine del sesso femminile. I peduncoli triangolari, di colore rosso, sono i testicoli”. (Griaule, o.c.p.98). Per ben comprendere ora i fatti degli Yoruba e il nostro mito della lotta tra Oshum e Oba, bisogna rivolgersi ad un altro testo di M. Griaule quello sul gemellaggio dei bambini e sui riti che scacciano da uno dei due il suo doppio gemello dell’altro sesso: “ Fintanto che conserva il suo prepuzio o la sua clitoride, espressioni del principio del sesso contrario o sesso apparente, mascolinità e femminilità hanno la stessa forza..... La clitoride che la bambina ha ricevuto è un gemello simbolico, un membro maschile infantile con il quale lei non avrebbe la possibilità di riprodursi e, al contrario, le impedirebbe di unirsi con un uomo”. (ibid. p. 187). Per questo ritengono necessario che ogni adolescente debba sottomettersi al rito dell’escissione. Questo rituale non esiste presso gli Yoruba, per cui, quando le circostanze lo impongono si ricorre ad un sostituto simbolico. Se i bambini muoiono alla nascita non è colpa dell’anima doppia della madre, ma bisogna estirpare il gemello maschile e lei lo fa

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tagliando il lobo dell’orecchio. Oshum, d’altra parte, non si burla di Oba; la sua magia ha un significato vero: se Oba non è stata capace di conquistare l’amore di Shangò è perché lei non ha una femminilità completa, bisognerà quindi tagliarle il fallo, cioè il padiglione auricolare. Il concetto che Oshum habbia compiuto una perfida azione è una generalizzazione posteriore di persone che non comprendono più il significato primitivo e tradizionale del gesto. Così vediamo in questi due fenomeni: il rituale delle madri con figli nati morti e il mito dell’orecchio di Oba, esattamente le due parti della frase di M.Griaule: “ella non saprebbe riprodursi”; “ che le impedirebbe di unirsi con un uomo”.

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SAGGIO DI UNA EPISTEMOLOGIA AFRICANA (YORUBA) Avremmo torto a pensare che Levy-Bruhl ha visto nella legge di partecipazione una prova della non esistenza del principio di contraddizione presso i “primitivi”; solo che, le contraddizioni del pensiero primitivo sono contraddizioni mistiche e non, come le nostre, obiettive. Ciò detto, per lui la legge della partecipazione chiuderebbe lo spirito a delle contraddizioni obiettive. In realtà, come abbiamo visto, identificazioni di concetti contradditori esistono anche presso gli Africani, come del resto tra noi, ogni volta che, intorno alla stessa rappresentazione vengono a cristallizzarsi dei miti di origine o età diverse. L’anima del morto, ad esempio, è fissata dentro un vaso, all’interno dell’ “ilé-saim”, ma allo stesso tempo si trova, per reincarnazione, nel corpo di un neonato. Nel Dahomey non ci si preoccupa affatto di una tale contraddizione, anche se percepita, ed è soltanto vietato alla persona che è considerata come l’antenato reincarnato, di guardare il cranio del morto, nel santuario famigliare, voltando la testa dall’altra parte. Riportiamo un altro esempio: in Brasile gli Orishà sono stati identificati con i santi cattolici, Shangò a San Gerolamo, Yansan a Santa Barbara, Omolù a San Sebastiano e così via. Queste identificazioni ci colpiscono: come è possibile che un dio africano possa essere allo stesso tempo il santo di un’altra religione? Desiderosi di sapere come questi due termini contradditori potessero essere accomunati dai Neri di Bahia e di Récife, facemmo un’inchiesta e ottenemmo tre tipi di risposte. La maggior parte dei fedeli, che si considerano sia buoni cattolici che buoni africani, mi rispondevano con una tautologia: l’Orishà è il Santo, poiché si tratta della stessa cosa. Altri, appartenenti a sette delle più tradizionali, vedevano benissimo la differenza e rifiutavano indignati l’identificazione. Era forse possibile che un Orishà potesse essere un Egun! ( poiché i santi sono vissuti e sono morti e sono diventati degli Egun). Confessavano che il nome cattolico dell’Orishà non era che una maschera bianca messa dagli schiavi sulle loro divinità, per poter impunemente celebrare le loro feste davanti ai padroni. Infine una persona azzardò una curiosa razionalizzazione: In altri tempi gli Orishà erano i soli ad esistere. Ma essi muoiono come gli uomini e il loro spirito si reincarna dopo la morte; nel corso delle successive reincarnazioni, essi entrarono nei corpi degli Europei e, da allora, siccome si trattava sempre di spiriti dei potenti Orishà, malgrado la differenza dei corpi e del colore della pelle, il popolo sentiva che erano degli dei e così li canonizzaroni: ed ecco i Santi. Questa è la ragione per cui diciamo che lo spirito degli Orishà e quello del santo sono uno solo, o che il nome del santo è la traduzione portoghese del nome africano dell’Orishà. Questi esempi ci mostrano che gli Africani si rendono perfettamente conto delle contraddizioni logiche; la persona che reincarna l’antenato distoglie la testa davanti al suo se antico fissato ritualmente nel suo cranio. Il Brasiliano razionalizza per rimettere ordine nei concetti. Vediamo così che la contraddizione ha la sua origine nei casi della storia, nella situazione sociale degli schiavi e la volontà di praticare i propri culti senza che il padrone se ne potesse accorgere. “La religione cattolica – ci diceva un babalaò- è stata imposta ai Neri i quali , per assecondare i padroni, hanno identificato gli Orishà ai Santi, e continuano ancora adesso a farlo per amor di pace...” Ma se il pensiero africano è altrettanto logico del nostro, vorrà forse dire che dobbiamo rifiutare l’idea delle partecipazioni?

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Bisogna distinguere con cura queste due cose che, sovente si confondono: l’Africano pensa per partecipazione, l’Africano non tiene conto delle contraddizioni obiettive. La prima affermazione non comporta forzatamente la seconda. Troviamo che, a volte,la legge della partecipazione e il principio della non-contraddizione sono in gioco nella stessa intelligenza. Affermare che lo spirito umano è dappertutto identico a sestesso è giusto, le ricerche etnografiche confermano questo puno di vista; ma non è una ragione per rifiutare ciò che costituisce la grande scoperta di Lévy-Bruhl e che lui ha sempre sostenuto, anche nei suoi “Quaderni”: l’esistenza della partecipazione. Noi pure, nel nostro lavoro e a più riprese, come nel nostro primo capitolo, abbiamo trovato queste partecipazioni in gioco. Proveremo a riassumere qui le conclusioni che sembra siano state raggiunte dopo le nostre ricerche, ben inteso che hanno valore solo per i gruppi studiati e che, altre momografie sarebbero necessarie, prima di generalizzare. Si ha a volte l’impressione, leggendo certi lavori di Lévy-Bruhl o dei suoi discepoli, che basta che due oggetti siano venuti in contatto o che si rassomiglino perché siano considerati ormai nello stesso pensiero unificante e inglobati nella stessa “categoria affettiva”. Cioè che la partecipazione può avvicinare qualsiasi cosa ad un’altra. Quello che ci ha colpito, al contrario, è che le partecipazioni, qualunque sia lo stato affettivo del soggetto, non si possono stabilire che all’interno delle categorie prestabilite e cessano allorquando si passa da una categoria all’altra. Per poterle comprendere abbiamo dovuto metterle in rapporto con quello che Durkheim e Mauss hanno chiamato “classificazioni primitive”. Mentre il pensiero di Durkheim e quello di Levy-Bruhl erano generalmente considerati antitetici, insistendo il primo sull’unità dello spirito umano e l’altro sulle differenze, a noi è invece sembrato che i due sociologhi si completassero più che contrastarsi. Le partecipazioni mistiche si fanno in uno stesso scomparto del reale e, poiché questi scompartimenti sono stagnanti, a questo sistema di partecipazioni corrisponde un sistema complementare, di repulsione e di scontro di forze. Le partecipazioni non uniscono che gli oggetti dove gli esseri si bagnano nella stessa corrente metafisica, mentre le repulsioni rigettano lontano l’una dall’altra queste correnti, questi campi di forza. In breve, la partecipazione presuppone un quadro preliminare, una filosofia del cosmo. La seconda conclusione che sembra distaccarsi dai fatti che abbiamo citato, è che la partecipazione deve essere definita non tanto come una categoria del pensiero ma come una categoria dell’azione. Perchè una partecipazione si stabilisca tra un uomo, un oggetto, una pianta, un dio ecc. bisogna che obbedisca a certe condizioni ben determinate. Non si può fare passare la corrente delle forze unificanti per esempio tra una pietra di Shangò, una pianta di Oshossi e un figlio di Oshum. La partecipazione non si può fare in qualsiasi direzione, essa è orientata, segue delle linee e ciò che si chiama religione è l’insieme delle rappresentazioni collettive o rituali che designano queste linee di forze attraverso le quali la partecipazione può passare. Essa, d’altra parte non può passare “ipso facto”. Ne abbiamo visto un esempio: per legare la collana dell’Orishà al suo proprietario, bisognava, prima di tutto, che quell’Orishà si fosse installato in una “pietra”, che si siano raccolte le erbe a determinate ore, in posti particolari, con dei gesti tradizionali e che il lavaggio della collana e della testa sia stato fatto secondo le regole, altrimenti il legame non potrebbe essere compiuto. In breve, la partecipazione suppone tutta una manipolazione sacra. Questo perché abbiamo trovato dei gradi dentro di essa: ci sono delle cose che partecipano di più e altre meno, secondo si abbia subito o no l’obori, il “bagno di sangue” o il semplice lavaggio della collana, la partecipazione tra l’uomo e l’Orishà sarà più o meno intima, fino ad arrivare, all’ultimo, all’identificazione.

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Si obietterà forse che queste partecipazioni manipolate, non interessino che un settore della nostra ricerca, quello della società umana dei fedeli. Infatti, come i miti ce l’hanno dimostrato, non c’è differenza di natura tra le partecipazioni fabbricate dai sacerdoti e la divisione in compartimenti dell’universo in serie di partecipazioni cosmiche. Ogni partecipazione sembra risulti da un’azione che ha unito due o più cose insieme, salvo che, in ciò che concerne il legame cosmico, questo è già stato, in tempi primitivi, l’opera degli dei invece che l’essere dei semplici sacerdoti. La storia degli dei che corrono dietro alle “foglie” quando Yansan si perdette, del suo soffio, gli “ashé” di Ossaim, sono un esempio di manipolazioni arcaiche. Questo poiché ogni Orishà ha preso già “possesso” di una o più foglie che un po’ della forza divina è passato dentro di esse e che, attraverso di esse, oggigiorno, possiamo “manipolare” l’Orishà. La partecipazione quindi non ci può essere che tra chi è stato legato, in un certo momento alla storia degli dei. Il pensiero segue meno le leggi dell’associazione delle idee, per similarità o continuità, delle “gesta” divine, tali quali conosciamo attraverso i miti. Forse bisognerebbe sostituire all’espressione classica delle “categorie affettive”, che vogliono spiegare il processo di formazione delle partecipazioni con le leggi della psicologia umana, quelle delle “categorie pragmatiche” che renderebbero conto del fatto che la partecipazione non esiste che con la manipolazione, sia per mezzo dell’azione attuale degli uomini sia per l’azione-modello degli dei, altrimenti sarebbe rimpiazzare la spiegazione psicologica con una spiegazione culturale. Il che permettarebbe di comprendere perchè la partecipazione non si confonde con l’identificazione logica (l’ombra è lo stesso che l’uomo, l’unghia è identica alla totalità del corpo umano, la fotografia di un individuo è quell’individuo), che ci sia, al contrario, tutta una serie di gradi di partecipazione, dalle semplici associazioni, fino alle identificazioni; è che i miti ci forniscono dei modelli di manipolazione più o meno profonde. Abbiamo tralasciato, nelle pagine precedenti, i problemi della magia, dato che ci siamo interessati unicamente al Candomblè e il Candomblè è una religione e non una magia. A Bahia, comunque, ci sono anche dei maghi. Allora! Se noi esaminiamo le loro concezioni del reale, la parte è identica al tutto, un ciuffo di capelli, ad esempio o le scaglie di unghie, al corpo umano – il simile è identico a ciò che copia, la bambolina al nemico che si vuole ucciderel l’oggetto toccato a chi lo tocca, come nel rituale dello “scambio di testa”, vedremmo qui ancora che le cose non possono partecipare che alla condizione di essere manipolate dallo stregone, secondo un rituale determinato. Molti sortilegi d’amore in Brasile con un pezzo della camicia del marito o con il sangue mestruale della donna, ma la camicia non diventerà automaticamente l’uomo desiderato, ne il sangue della donna gelosa se non ci se ne serve a certe ore, con speciali parole o in una certa qual maniera. Senza di questo la camicia rimane una semplice camicia e il sangue, un po’ di sangue. Ci sembra dunque che la definizione che noi abbiamo dato della partecipazione e che è basata sul solo studio dei riti religiosi, è valida anche per le partecipazioni magiche che per le altre. Gli etnografi, d’altro canto, ci hanno mostrato che le magie africane non hanno potere contro i Bianchi e si da il caso che, in una stessa tribu, la magie di un clan non possano avere nessun effetto contro gli uomini di un altro clan. Ciò vuol dire che le partecipazioni magiche si fanno, così come le partecipazioni religiose, all’interno di certi comparti del reale e non hanno più effetto se si passa da uno di questi scomparti ad un altro. Ora, la struttura sociale riflette la struttura mitica, la divisione degli uomini non fa che aumentare la molteplicità degli dei o degli eroi civilizzatori o degli antenati totemici. Leenhardt aveva proposto di sostituire il termine di “partecipazione mistica” con quello di “partecipazione mitica”, e Levy-Bruhl era molto tentato, verso la fine della sua vita, di accettare questa espressione. Capiamo la ragione. Le partecipazioni presuppongono sempre o quasi, dei modelli che non sono altro che le antiche manipolazioni delle cose da parte degli dei. Ma, se esiste un pensiero unificante (e, al limite, identificante) che fa penetrare i concetti gli dentro gli altri, esiste pure, poiché le nostre partecipazioni non agiscono se non all’interno di un dominio del cosmo e non da un dominio all’altro, un pensiero che netto separa, delimita e isola i concetti. Noi non possiamo più definire il pensiero africano, tale come risulta dalle nostrericerche, per mezzo della partecipazione, come voleva Levy-Bruhl o della classificazione,

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come indicava Durkheim. Le due cose sono complementarie, non essendo laclassificazione come presso gli Occidentali, una classificazione di esseri, ma una classificazione di forze e di partecipazioni. L’interdizione alla mescolanza – dato che la escolanza introduce la confusione e il disordine nel mondo – è nel dominio dell’azione o della manipolazione del sacro, il corrispondente esatto del nostro principio di rottura. Il bastone degli Oge impedisce ai morti evocati di mescolarsi ai vivi; l’ efum evita, per mezzo di disegni simbolici, che un altro Orishà discenda nella testa se non quello che il “padrone della testa” della candidata all’iniziazione. R. Caillois nell’ “L’Uomo e il Sacro” aveva ben visto questo tabu della mescolanza, quando diceva che l’ordo rerum come l’ordo hominum aveva bisogno di una totalità di parti separate; ma pensava che la festa era giustamente il momento del ritorno al caos primitivo, cioè del sacrilegio, dell’incesto, dell’eccesso e della confusione. Se, in certe civiltà, i diversi scomparti del reale possono essere ravvicinati durante la festa,questa festa, in ogni caso, ha giustamente lo scopo di impedire la mescolanza e il controllo del mito o della società non cessa un istante: l’esaltazione rimane sempre sotto controllo. I miti di Eshù, sui quali abbiamo lungamente discusso, ci hanno indicato come il disordine si possa introdurre nell’universo, poiché questo dio dell’ordine è anche il dio del disordine, o più esattamente, ci mostra come e perchè il castigo – cataclismi della natura, punizioni degli uomini – sia legato al disordine. Ma se la natura e il sociale sono così tagliati, queste spaccature non distruggeranno forse la possibilità stessa del pensiero? Il pensiero non è forse la dialettica che unisce i concetti, che ci permette di andare dall’uno all’altro, per esempio, per mezzo dei generi o delle specie o dei sistemi di relazione più complessi? Non consiste forse in una serie di operazioni logiche di cui il nostro linguaggio, con le frasi che legano i concetti gli uni agli altri, è una delle traduzioni possibili? Recentemente M. Piaget ha riflettuto a sua volta su questo problema delle classificazioni primitive, per confrontarle con le nostre e nota, a questo proposito, che se i fatti presentati da Durkheim sono giusti, non risolve tuttavia il problema posto da Levy-Bruhl che è quello della struttura della mentalità. La domanda che ci si pone è se questi schemi intellettuali primitivi costituiscono di già o no delle vere classificazioni e delle sistematizzazioni logiche degne di questo nome. Infatti non lo sono. Poiché non sono, per M. Piaget, come nel nostro pensiero occidentale, delle classi disgiunte e “incastrabili” le una nelle altre. Esse non costituiscono, di conseguenza, dei veri aggruppamenti di cose e non permettono delle operazioni, formali o concrete, dei meccanismi operativi. Questo appunto di M. Piaget è molto importante e i fatti che abbiamo studiato sembrano confermarlo in parte: è perché gli scomparti del reale non erano incastrabili gli uni dentro gli altri, come i nostri concetti operativi, di cui abbiamo parlato, in più riprese, come un principio di rottura. Non è vero che in parte, poiché ne il pensiero ne l’azione sarebbero possibili se le separazioni fossero totali. Bisogna dopo riunire ciò che è stato distinto. Se ci atteniamo agli esempi dati da Mauss e da Durkheim, vedremmo che i concetti diventano complementari e questa complementarietà si traduce nello scambio dei riti tra i diversi clan della tribù. Avremmo quindi un’altra logica senza dubbio piuttosto che la nostra, una logica della complementarietà al posto di una logica di incastro, ma pur sempre una logica. I nostri studi non ci portano fra gli Australiani o gli Indiani d’America del Nord. Lasciamo dunque, dopo queste brevi note, gli esempi di Durkheim, per vedere quello che succede nel pensiero africano, così come esiste tuttora nel mondo del Candomblè. Ciò che ci colpisce è giustamente la volontà di unire gli scomparti del reale, ritualmente e miticamente separati e di inventare una dialettica del cosmo. In breve ci siamo trovati in presenza di tre metodi o tentativi logici di inscatolamento. Il primo è l’importanza data ad Eshù, in quanto entità che apre le barriere, traccia i cammini, per cui agisce in tutti i comparti del cosmo senza eccezione, e che troveremo collegato, come

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servitore, all’uno o all’altro Orishà e ad ogni uomo in particolare. Questo mito traduce giustamente la comunicabilità dei concetti classificatori e i cammini del pensiero logico dell’uno o dell’altro è reso teoricamente possibile dal precedente andare di Eshù da un Orishà ad un altro, come l’Orishà al suo cavallo, o gli Egun ai vivi. Non per niente questo dio è stato definito il principio dell’ordine nell’universo. Ma quest’ordine nell’universo, apre la via ad un’ altra ordinanza quella dei pensieri tra di loro. Abbiamo trovato, a margine di questo primo tentativo, un saggio di genealogia matematica delle divinità e qui, senza dubbio, in mancanza di informazioni chiare e numerose, non abbiamo potuto indicare che il senso del saggio in questione, più che la sua descrizione minuziosa. Comunque abbiamo visto, a partire dal gemellaggio primitivo, comparire successivamente i nomi della mascolinità e della femminilità e poi degli dei derivanti da questi due nomi per addizione o moltiplicazione.....e al fine il mito inscrivere questa numerazione nei fatti a proposito della molteplicità di ogni dio. Forse M. Piaget potrebbe obiettare a questo proposito che si tratta sempre di una numerazione mistica e non logica. A noi sembra, però, che il mistico non contradice il logico; anche il nostro sistema di numerazione ha le sue basi arcaiche in una scelta, che è stata una scelta religiosa. Lasciamo alle cure degli storici delle civiltà il problema di sapere se i due sistemi opposti non si siano incontrati presso gli Yoruba, il sistema numerico fondato sul numero 16 che domina nel culto di Ifa e della divinazione; il sistema numerico fondato sul numero 12, che è il numero delle Pleiadi. Quello che a noi interessa è che il mistico non fa che sottolineare il cammino del pensiero logico, desideroso di unire tra di loro gli scomparti del reale e fornire al pensiero un meccanismo operativo. La prova ce la da il Brasile stesso. Il traffico negriero vi ha portato un enorme numero di tribù o etnie che, malgrado lo spostarsi delle popolazioni in Africa, non avevano l’abitudine di entrare in contatto fra di loro. Queste etnie non si sono fuse tra di loro, nonostante gli accoppiamenti sessuali fra membri diversi delle medesime, ma ognuna di esse ha conservato un certo numero di aspetti culturali imprescindibili riunendosi in “nazioni”. Oggigiorno a Bahia non esistono più degli Ewe, degli Yoruba, degli Angola o dei Congo ma queste “nazioni” sono tuttavia sopravvissute sotto la forma di Candomblè ritualmente o musicalmente differenti. Si è dunque dovuto considerare la coesistenza di popoli e delle loro relazioni in Brasile così come si consideravano la coesistenza e le relazioni delle cose in natura. E quindi i Neri hanno per questo adottato quella genealogia matematica che è il primo saggio di sociologia africana. Apollinario Gomes da Mota, parlando di questo, asserisce che è questa sociologia che costituisce il loro “balai de Nanan-Buruku”, formato da fuscelli tenuti insieme da un pezzo di tela su cui sono cucite delle caurie e che il numero di queste conchiglie rivela la “nazione”: “ Il nagò deve averne 12, il gège 8, il Congo 16, lo Shamba 12”. Meglio non si può dimostrare come la numerazione è un procedimento operativo e non una semplice mistica cristallizzata, poichè è applicata a fatti nuovi che in questo modo possono essere concepiti. Ma c’é soprattutto un ultimo metodo utilizzato ed è quello del pensiero simbolico. Gli scomparti del reale hanno dovuto essere separati e questa separazione si manifesta con la diversità dei vari sacerdozi, scomparti stratificati e che si riflettono gli uni dentro gli altri. Tutta una serie di corrispondenze unisce gli strumenti musicali, la composizione dei santuari, le erbe dei campi ecc. e le gesta degli dei. Il presente non fa che ripetere il passato, gli eventi, a prima vista imprevedibili, della vita umana si svolgono in schemi fissati dagli Orishà e traducibili in odu. Perfino la psicologia e il carattere individuale riconducono alle diverse psicologie delle divinità. Sicuramente questo sistema di corrispondenze è in parte disgregato in Brasile, nel campo della tecnica, poiché ha dovuto adattarsi ai metodi occidentali di lavoro, così come nel campo dell’organizzazione sociale, poiché la schiavitù ha spezzato le strutture africane e messo fianco a fianco le etnie più diverse. Comunque abbiamo visto, soprattutto nel nostro capitolo sull’estasi, l’importanza di questo simbolismo. Ma, se l’esempio dei Neri di Bahia non può darci, nel campo della sistematizzazione, un modello così rigoroso e completo come quello dei Dogon, ha per lo meno il merito di provarci che il simbolismo è un’operazione logica viva. L’Africano, strappato alla sua terra e trasportato in un mondo sconosciuto, ha ben potuto portare con se, o far venire dal suo paese, un certo numero di piante sacre; ha potuto anche ritrovare, dall’altra parte dell’Atlantico, un certo numero di piante identiche, pur dovendo, eco logicamente, adattarsi a una flora particolare. In più, dato che il Brasile ingloba, nella sua

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immensità, delle regioni diverse dal punto di vista della botanica, l’Africano, venduto da una provincia del nord a una del sud (cosa che era diventata una regola a partire dalla fine del traffico negriero, fino al momento in cui il sud aveva bisogno di mano d’opera per le sue crescenti piantagioni) si è trovato davanti a “foglie” di volta in volta diverse. Egli ha quindi dovuto anzitutto “pensare” questo nuovo mondo vegetale per poter agire, cioè per curare le sue malattie o per preparare i bagni dei candidati all’iniziazione. Egli lo ha fatto, come abbiamo detto, applicando lo schema operativo del simbolismo ed è riuscito, in questo modo, a fare rientrare negli schemi suoi tradizionali le “erbe” brasiliane, esattamente come il botanico occidentale che sta esplorando un paese nuovo riesce a situare delle specie vegetali sconosciute negli schemi di classificazione di Linneo. Non abbiamo quindi il diritto di affermare che ci troviamo, con questo simbolismo, in presenza di uno schema operativo e di una classificazione di incastro? Insomma, il principio di separazione è una cerniera tra il principio di partecipazione e quello del simbolismo. Se la partecipazione agisse da sola il pensiero logico sarebbe impossibile; ma il principio di separazione, classificando gli esseri e le cose, apre il cammino al pensiero logico; è vero che non fa che aprirlo ma bisogna che questa classificazione diventi maneggevole che permetta delle operazioni mentali ed ecco la funzione del pensiero simbolico, più ancora, forse, della dialettica di Eshù o della genesi matematica dei compartimenti del reale. Che questa logica funzioni bene lo provano i due esempi citati, quello delle “nazioni” e quello delle “erbe”. L’Africano ha potuto pensare a questi fatti nuovi per mezzo di essa. Saremmo molto tentati di dire, in conclusione, che se la nostra logica tende verso il pensiero induttivo che consiste nel sommare nelle leggi o nei concetti via via più generalizzati i fatti e le specie dei fatti, la logica dei membri del Candomblè tende verso il ragionamento per analogia, che stabilisce delle corrispondenze tra gli strati diversi del reale, permettendo di passare dall’uno all’altro, pur mantenendo le loro differenze irreducibili, senza peraltro dimenticare che si potrebbe chiamare il “ragionamento per complementarietà”, a cui abbiamo alluso all’inizio di questo paragrafo e che corregge quello che l’interdizione della mescolanza aveva come fatto assoluto, la necessità dei doni e dei doni in cambio, la divisione del lavoro (sessuale, dei clan e delle diverse categorie di preti). La struttura mitica, che è essenzialmente simbolica, la struttura sociale, che è quella della complementarietà degli incarichi sacerdotali, infine la struttura mentale, non formano che una stessa realtà in gioco.

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EPISTEMOLOGIA AFRICANA E SOCIOLOGIA DELLA CONOSCENZA E’ vero che queste sono operazioni concrete su elementi cosmici o sociali e che i nostri concetti logici non ci portano che a degli elementi astratti, messi in rapporto per mezzo di operazioni fittizie. M. Bachelard ha ben evidenziato l’opposizione del nostro razionalismocon tutto ciò che la scienza, al principio, si portava dietro di immagini astrologiche o alchemiche. Ciò non impedisce che il pensiero Yoruba, così come si svolge nei riti del Candomblè e nelle rappresentazioni collettive dei membri del culto, fornisce dei modelli di operazioni mentali e che questi sono utilizzati, alla messa a punto, se mi si permette questa espressione, dei fatti nuovi occorsi per via dei cambiamenti di ambiente e non ancora classificati nell’impianto delle costruzioni mitiche. Ciò vuol dire che c’è sia identità che differenziazione tra il nostro pensiero e quello degli Africani di Bahia. L’epistemologia ci rimanda quindi alla sociologia della conoscenza. Qui ritroviamo M. Piaget. L’errore, per lui e per Comte e Durkheim, è stato di non vedere nella Ragione che un insieme di comunicazioni, discorsi e concetti, mentre si tratta anzitutto di un sistema di operazioni. Come Durkheim ha dimostrato esistono delle rappresentazioni collettive di cui bisogna sbarazzarsi se si vuole entrare nel piano del pensiero logico; le classificazioni primitive sono “sociomorfiche” come il mondo mentale infantile è egocentrico e questo sociomorfismo primitivo sarebbe all’origine non della Ragione, ma delle ideologie (le classi sociali che hanno sostituito oggi le divisioni tribali). Per Piaget, cioè, la sociologia della conoscenza dovrebbe situarsi solo a livello di questo sociomorfismo primitivo o moderno, mitico o ideologico? No, poiché il passaggio dall’ideologia all’operatività logica obbedisce anche a delle cause sociali e segue l’evoluzione che va dalle forme della costrizione collettiva alla cooperazione intermentale. Possiamo qui riprendere la differenza di Tarde tra la logica sociale e quella individuale. La logica sociale è caratterizzata dall’accumulo del capitale di credenze religiose, politiche, ideologiche e l’equilibrio che risulterebbe dalla soppressione dei conflitti con l’eliminazione delle opinioni individuali o delle eresie. La logica individuale, al contrario, coordinerebbe le credenze con la soppressione delle contraddizioni interne. La sociologia della conoscenza non si ferma pertanto, contrariamente a quanto affermato da Tarde, davanti a questa logica individuale come fosse un terreno proibito. Poiché questi meccanismi inter individuali non sono che l’espressione o l’interiorizzazione del meccanismo inter individuale. Il sociomorfismo è legato alla costrizione del gruppo sui suoi membri, la logica operativa è legata allo scambio tra le persone dentro il gruppo. Non vogliamo criticare questa fondamentale opposizione poiché l’epistemologia che abbiamo studiato non è quella dei primitivi. Ma qual’é il sistema operativo che non è legato ad una ideologia? E qual’é la società che non ha un sistema di scambio? Siamo stati guidati, in ogni caso, nei nostri studi sul Candomblè a vedere nella religione africana, così come si è mantenuta a Bahia e in Brasile in generale, un insieme di scambi, cooperazioni e non di semplici comunicazioni. Il Babalorishà ha bisogno del babalaò dell’Olosaim e degli Ogé. L’iniziazione di una figlia degli dei vuole, a sua volta, che l’indovino legga nelle conchiglie il nome dell’Orishà, del raccoglitore di foglie che andrà a cercare nella foresta selvaggia le erbe necessarie, della “piccola madre” che effettuerà i bagni oltre al Babalorishà. Ogni rito è manipolazione delle forze sacre, ma non importa chi farà le manipolazioni e che cosa sarà manipolato. Allo stesso modo, se la personlità umana si forma gradatamente per mezzo della divinizzazione, gli dei non possono esistere a meno di ricevere gli alimenti, il sangue o gli infusi di foglie dei loro fedeli. I diversi compiti sacerdotali sono separati come gli scompartimenti del reale, ma sono complementari e inter dipendenti.

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Non neghiamo per questo la forza costrittiva della tradizione ma forse che nella nostra società la ragione non agisce in tal modo all’interno di una tradizione? E se questa non ci sembra costrittiva non è forse perchè ci siamo dentro? L’Africano di Bahia non avverte più queste costrizioni (solo se si separa dal suo ambiente comincia ad avvertirle, o se accetta altri valori, quando diventa “marginale”); così pure la trance, giunta brutalmente, è un richiamo e un’imposizione, un omaggio piuttosto che una coercizione. I miti sono delle rappresentazioni collettive, senza dubbio, e possiedono tutta la forza costrittiva delle tradizioni, ma sono pure dei meccanismi di operazioni logiche per imparare il reale. Così come i riti, che sono loro legati, rappresentano metodi di manipolazione di questa stessa realtà. In queste condizioni la sociologia della conoscenza, almeno la conoscenza logica, ci sembra soprattutto lo studio dei diversi meccanismi operativi del pensiero, secondo quanto studiato dal Dott. Pierre Janet, come l’azione di riunione e del paniere , quello della distribuzione e della divisione della torta, quello della cordicella e della coordinazione...., fino ai meccanismi operativi che hanno fornito i modelli della scienza contemporanea, l’equilibrio o la leva , le bocce del biliardo, la collocazione degli oggetti e le loro sovrapposizioni, nel loro rapporto con le variazioni del mondo dei valori, cioè delle tradizioni collettive. E’ dunque giusto distinguere le forme della conoscenza, mistica o razionale, empirica o concettuale, ecc. e l’una può predominare sull’altra in diversi tipi di società. Questo dimostra che ognuna di queste forme ha una storia e quindi esula dalla sociologia della conoscenza. Per rimanere nella strada percorsa da M. Piaget, a fianco del passaggio da un sociomorfismo a una logica operativa, c’è motivo di studiare il passaggio dal sociomorfismo alle ideologie, o il passaggio dei meccanismi operativi mitici a quelli operativi legati ad una economia di mercato, ma ci allontaneremmo troppo da questo campo e ci basta indicare la direzione delle ricercheda fare. Diciamo dunque soltanto, per terminare, che nel caso del Candomblè è la tradizione mitica che fornisce di volta in volta i quadri dei meccanismi del pensiero, delle operazioni del comportamento umano e, infine, degli scambi sociali, mentre nella nostra società, bisognerebbe invertire l’ordine di questi elementi, passare dagli scambi sociali al comportamento, ai meccanismi di operazione logici e, finalmente, alle ideologie. La rivoluzione contemporanea non è la nascita del pensiero logico ma è la morte della metafisica, o al suo confinarla in un ruolo di semplice servizio per gli interessi umani.

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GLOSSARIO Abebèà

Ventaglio di forma circolare attribuito alla dea Oshum o della dea Yemanjà, a seconda che sia di colore ottone o bianco, a seconda dei disegni simbolici che comporta.

Adarrum

Rullo speciale di tamburi, destinato a provocare – o quasi a forzare – la discesa degli dei.

Adjikoni

Piccola pietra utilizzata nelle divinazioni.

Afoche

Processione rituale di un Candomblè che discende il giorno di Carnevale per mescolarsi alla festa popolare.

Agidavi

Bacchetta dei tamburi.

Ago

Manganello o bastone di Eshù, che ha la virtù di trasportare in pochi secondi, da un posto all’altro anche molto lontano.

Agògò

Strumento di musica religiosa, composto da due campane metalliche diseguali, che si percuotono con una bacchetta pure di metallo.

Aiè

Festa dell’anno nuovo.

Akoueo

Conchiglia semplice o doppia utilizzata nelle divinazioni, insieme all’adjinkoni.

Ala

Stoffa bianca.

Alabe

Direttore d’orchestra del Candomblè.

Aliaché

Sala dove si pratica il rituale dell’iniziazione.

Amalà

Offerta alimentare (per Shangò).

Amasi(n)

Bagno di purificazione (con le erbe)

Apetebi

Moglie del babalaò che ha il diritto di leggere la sorte in certe condizioni.

Ara-ourum

Anime delle persone morte di morte violenta o degli assassini.

Ariashe

Bagno dei candidati all’iniziazione (con le erbe).

Ashè

Questa parola che corrisponde pressapoco a quella che i sociologi chiamano “mana” è sempre usata, non per designare una forza impersonale, ma alcune specie di incarnazioni della forza (erbe , basamenti del Candomblè) ecc.

Ashèshè

(o Candomblè funebre Rito celebrato dopo la morte dei membri di una setta per scacciare la loro anima dalla terra.

Ashògun

Sacerdote incaricato dei sacrifici degli animali.

Babalaò

Anticamente il sacerdote dedicato al culto di Ifa. Oggigiorno l’indovino.

Babalorishà

(in portoghese “Sacerdote degli Dei” o “dei Santi”: sacerdote incaricato della direzione di un Candomblè.

Babalosaim

Sacerdote incaricato della raccolta delle erbe o delle foglie rituali.

Babalotim

Bambola portata durante le processioni dell’Afoché.

Babaogé

Sacerdote incaricato dei culti dei morti.

Baiani

1- Specie di casco abbellito con conchiglie e lacci pendenti; 2- Idolo di Shangò; 3- Uno dei tanti Shangò.

Bale

(Camera di) Parte del Santuario destinata al culto dei morti (regione di Pernambuco).

Bata

Tamburo per uso religioso, bi-membranofono, di origine Yoruba (vedere la descrizione di F. Ortiz: “Gli strumenti della musica Afro-Cubana”, IV, cap. XVI).

Bori o Obori

Cerimonia che consiste nel “dare da mangiare alla testa” e che comporta, obbligatoriamente, un sacrificio animale.

Calunga

1- Dea del mare ed anche dei cimiteri (Angola); 2- Bambola portata durante la processione dei Maracatù.

Camarinha

Cameretta, nome portoghese dell’ Aliaché.

Candomblè

1- Il luogo dove si celebrano le feste religiose africane; 2- l’insieme delle cerimonie religiose africane; 3- nel sud del Brasile, tutte le danze o feste dei Negri.

Candomblè de Cabocles

Sette religiose nelle quali i fedeli ricevono gli spiriti degli Amerindi (“cabocles” nella lingua corrente) invece di ricevere gli dei africani.

Carurù

Piatto fatto con delle “quiabes”, gamberetti secchi e olio di palma.

Casa das Minas

Setta religiosa originaria del Dahomey, situata a San Luiz du Maranhào.

Come

Sala che costituisce il santuario della Casa das Minas e corrisponde al pegi dei Candomblè di Bahia.

Dagà

La più vecchia (non d’età, ma secondo la data della sua iniziazione) delle due ragazze incaricate del padè di Eshù.

Despacho

Vedere padè di Eshù.

Dobale

Saluto delle ragazza possedute da degli Orishà femminili e che consiste nello stendersi per terra appoggiate sulle anche e gli avanbracci, una volta dal lato destro e una volta su quello sinistro.

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Ebò

1- Sacrificio offerto agli dei; 2- Sortilegio magico.

Ebòmin

Figlia degli dei con sette o più anni di iniziazione, seconda tappa, di conseguenza, della gerarchia dopo quella delle “yauò”.

Edilogum

Consultazione degli dei per mezzo delle conchiglie.

Efum

Disegni fatti in gesso sulla testa o il corpo degli iniziati.

Egun

o Egungun I morti.

Eho

Tabù. Il termine utilizzato nei Candomblè Bantù è quizila.

Eini

Anima

Ekedy

Donne incaricate di occuparsi delle figlie degli dei durante il trance.

Eré

1- Spirito inferiore che accompagna gli Dei e gli umani; 2- Tipo di trance infantile.

Eshù

Intermediario fra gli uomini e gli dei.

Filha de Santo

( = figlia di santo): gli iniziati, membri delle confraternite religiose africane.

Gume

Nome dato al terreiro, cioè alla corte interna della Casa das Minas.

Ialorishà

(in portoghese “madre degli dei” o “dei santi”) Sacerdotessa incaricate della conduzione di un Candomblè.

Iaò o Yauò

Iniziata

Ifa

Dio del destino

Igba

Zucca sacra che rappresenta il mondo.

Ika

Saluto delle persone che hanno un Orishà maschile e che consiste nello stendersi ventre a terra.

Ilè

Casa.

Ilè-Orishà

Casa degli dei

Ilè-Saim

Casa dei morti

Ilu

Piccoli tamburi

Iròko

Albero sacro (gamelleira blanca)

Ita

Pietre degli dei

Itù Aigé

Terra di vita, cioè l’Africa.

Iya

Madre

Iya Kèkèrè

Sostituta della Ialorishà (in portoghese “piccola madre”, cioè madre in secondo grado.

Iya Tèbèbè

Incaricata di scegliere i canti e di fare l’assolo

Iya-Bassè

Cuoca degli dei

Iyalashè

Incaricata del ashè del santuario

Iyanasso

Sacerdotessa incaricata del culto speciale di Shangò

Jibonam

Lo stesso che Iya Kèkèrè

Jurema

Bibita fatta con la scorza, le radici o i frutti di una Mimosa che provoca disturbi al sistema nervoso (utilizzata nelle sette di origine amerindia.

Kèlé

(in portoghese “cravatta di Orishà” collana che gli iniziati portano al collo come segno della loro sottomissione al Babalorishà o alla Ialorishà

Le

Il più piccolo dei tre tamburi rituali.

Legba

Corrispondente di Eshù nel Dahomey

Lòko

Lo stesso che Iroko (sette del Dahomey)

Lorogun

Rito di espulsione degli Orishà all’inizio della Settomana Santa

Mabaça

I gemelli

Maconha

Narcotico del tipo del papavero, portato dai Neri dell’Africa Occidentale (Cannabis Indica).

Macumba

Nome dato alle sette religiose africane o alle cerimonie da loro effettuate negli Stati di Rio de Janeiro, Espirito Santo e San Paulo.

Mangbà

Sacerdoti di Shangò

Maracatù

Processione rituale delle sette Nere di Récife durante il Carnevale delle strade.

Ninfa

Magia che consiste nel proteggersi dallo spirito di un vivo o di un morto per renderlo proprio schiavo e fargli fare malefizi neri.

Oba

Re. Termine usato per designare i ministri di Shangò

Obe

Coltello

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Odu

Segno tracciato secondo il modo in cui cadono la collana di Ifa o le conchiglie divinatorie

Ogan

Protettore del Candomblè

Ogé

Lo stesso che babaogé

Ojuoba

(occhio del Re) Titolo sacerdotale

Olosaim

Lo stesso che babalosaim

Oluwo

(il veggente) Sinonimo di babalaò

Opelé

(collana di Ifa) Strumento di divinazione

Ori

La testa, lo Spirito, vedere: Bori

Oriki

Canti di lode.

Orishà

Nome generico delle divinità – intermediari tra Olorun, il Dio supremo e i mortali.

Oro

Società segreta dedicata al culto della terra, l’evocazione dei morti attraverso il rombo e che ha anche funzioni politiche.

Osa

Velo bianco che serve a ricoprire i tamburi, le pietre divine o che le figlie degli dei usano talvolta come foulard

Oshè

La doppia ascia, insegna di Shangò

Ossaim

Divinità della vegetazione

Ossé

Offerta alimentare delle figlie degli dei ai loro rispettivi Orishà.

Otum

Ministri di sinistra in contrapposizione agli Oba di destra (anche se il termine Oba è più sovente usato per indicare sia gli uni che gli altri.

Padè

di Eshù Rito propiziatorio che inaugura i rituali del Candomblè

Panam

Cerimonia della vendita delle iniziate

Pashoro

Specie di scopa fatta con peli di vacca, insegna liturgica di certe divinità

Pégi

Santuario del Candomblè

Pégi-Gà

Ogan incaricato del pégi del Candomblè

Pendoni o Podone

Pégi della Casa das Minas

Poteau-mitan

Nome dato al palo centrale nel culto dei Vodous di Haiti

Rum

Il tamburo più grande

Rumpi

Il tamburo medio

Rungébé

Collana fatta di perle nere

Santo Bruto

Estasi, di carattere violento, anteriore all’iniziazione

Shangò

1- nome del dio della tempesta; 2- termine usato per designare i Candomblè di Pernambuco e Alagoas

Shaòrò Bracciale

da caviglia con campanellini

Shashara

Scopa di paglia, attributo del dio del vaiolo (Omolù)

Shere

Campanello di Shangò

Shinshin (pollo allo)

Preparazione del pollo, con salsa di olio di palma e condimenti, cibo della dea dell’amore Oshum

Shiré

Ordine in cui sono eseguiti i canti nelle grandi feste del Candomblè

Sidagà

La più giovane delle due ragazze incaricate del Padè di Eshù

Sundide

Il bagno di sangue. Parte del rito di iniziazione

Telebe (o canto di cuoio)

Cantico di punizione che ha per scopo di creare un’estasi violenta in colpevoli di qualche violazione di tabù o mancanza di rispetto

Terreiro

Il luogo del Candomblè

Tobosa

Spiriti infantili (Casa das Minas)

Tokhueni

Divinità intermediarie tra i Vudù e gli umani

Umbanda

1- sacerdote delle sette bantù; 2- religione Bantù; 3- forma africana di spiritismo

Unlò (canto di)

Canti che chiudono il Candomblè e fanno andare via gli dei

Vèvè

Disegni fatti con la farina e destinati a richiamare gli dei (Haiti)

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Vodou (n)

1- divinità fon e del Dahomey; 2- nome dato, insieme a quello di Vodounsi, alle figlie degli dei nelle sette del Dahomey di Bahia

Vuà

Il seno di Olorun, il Dio supremo Wessa Sacerdoti di sette africane di cui abbiamo indicato le funzioni (pag.46) che, in altri tempi hanno avuto grande importanza e che oggi non occupino più regolarmente il loro posto

Yaba

Ragazze giovani che hanno lavato le loro collane, ma non ancora iniziate

Yao o Yauò (Yawo)

Sposa degli dei, cioè iniziata

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